XXVIII
Dodici giorni prima
Eleonora aveva fatto tardi. L’amica dell’appuntamento, stanca di aspettare, se n’era andata dal parco. «Accipicchia!» esclamò. «Raggiungo Bea a casa. La lezione di greco mi ha scombinato il pomeriggio. Sono in ritardo oltre qualunque ragionevole limite».
Beatrice abitava in viale Stefano Franscini, a nord del centro storico, in una delle numerose ville che si affacciavano sui lati della via, per lo più residenze della borghesia luganese o sedi di qualche consolato. Immerse in rigogliosi parchi e maestosi giardini all’inglese, le lussuose case s’imponevano una sull’altra, quale sfoggio di un opulento benessere. Architetture eclettiche costruite nel primo Novecento, e nei più svariati stili: orientale, fiorentino, neorinascimentale, liberty, moresco e quant’altro. Decorate in pietra di Saltrio, mattoni di Francoforte o bugnati d’intonaco, e ornate da lussuose greche disegnate con foglie d’acanto e fasce scaccate. Il giardino del villino di Beatrice confinava con la residenza in stile moresco della famiglia Snorghi. Anche l’avvocato Laghi abitava nel quartiere, ma dall’altra parte della strada.
Eleonora, con passo spedito, si diresse verso piazza Indipendenza, risalì corso Elvezia e zigzagando tra gli isolati si ritrovò in via Serafino Balestra, per poi giungere in via Pretorio e infine in viale Stefano Franscini. In neanche quindici minuti era davanti al cancello del villino dove abitava Beatrice con i suoi genitori.
Una voce dall’altra parte della recinzione la chiamò.
«Eleonora. Eleonora».
La giovane si girò, fece un sorriso, e si diresse verso la sorella che le stava facendo dei cenni con la mano.
«Ehi Ale, che bello vederti».
«Ciao. Vai da Beatrice?».
«Sì. Dovevamo trovarci al parco e venire qua assieme, ma ho accumulato un imperdonabile ritardo e credo che Bea sia rientrata per conto suo. Ora devo scusarmi. E tu?».
«Sto aspettando Sebastiano, ti ho visto arrivare attraverso le vetrate della limonaia e sono uscita. Senti, hai cinque minuti? Dovrei parlarti di una cosa».
Eleonora, indecisa, guardò la casa dell’amica, la sorella e poi di nuovo l’ingresso di Bea. Serrò le labbra, alzò le palpebre e pensierosa, sollevando le spalle, si volse verso Alessandra: «Va bene, ritardo per ritardo, non saranno cinque minuti che mi cambieranno la vita».
La sorella fece strada ed entrambe entrarono nel giardino d’inverno.
La limonaia di Villa Snorghi, usata per accogliere gli agrumi durante il periodo invernale, era una delle più belle della città. Costruita all’inizio degli anni Trenta da un architetto bergamasco trasferitosi a Lugano, si trovava sul confine meridionale del giardino. Un quadrilungo a un solo piano in tufo grezzo costituiva l’involucro, solido e massiccio. Quattro imponenti finestre termali rivolte a sud illuminavano la piantagione e ne assicuravano il calore d’inverno. Le vetrate a semicerchio erano suddivise da raggiere concentriche e richiamavano l’immagine del sole al tramonto.
Entrarono.
Lo spazio interno era sobrio. Due cordoli di muratura, a forma di parallelepipedi allungati e larghi quanto una panchina, correvano paralleli. Uno basso vicino alle finestre e uno un po’ più alto vicino al muro. Sulla parte piana dei manufatti, numerosi vasi di terracotta decorati e ben allineati, contenevano le piante. A novembre sarebbe iniziata la raccolta dei limoni invernali. I frutti erano belli e sani e il profumo delle foglie purificava l’aria.
«Che ci facevi nella limonaia?» chiese Eleonora.
«Avevo un appuntamento con Sebastiano, ma a quanto pare è in ritardo. Sarà stato trattenuto in ufficio, capita spesso. Non mi andava d’entrare in casa, così sono venuta qua. Mi piace questo posto, adoro il profumo delle foglie di limone».
«Anche a me piace molto».
Le ragazze s’incamminarono tra i vasi, annusando i profumi che le piante emanavano. Entrambe, con tocchi impercettibili, accarezzavano sia i frutti sia le foglie, per poi odorarsi le mani e assaporare la fresca e fruttata fragranza. Si muovevano a piccoli scatti, impreziosendo con i loro vestiti multicolori i monotoni ciuffi verdi puntinati di giallo. Cercavano l’albero migliore d’annusare e si stavano divertendo parecchio, tra risatine volubili e gridolini frivoli. Eleonora si era persino dimenticata della richiesta della sorella e dell’appuntamento con Bea.
Alessandra, in apparenza concentrata a osservare i frutti di un alberello situato su un predellino, con noncuranza formulò la domanda: «C’è giunta voce che hai un fidanzato. È vero?».
Eleonora sfoderò un enorme sorriso. Eterea s’illuminò.
«Da chi l’hai saputo?».
«Me ne ha parlato Sebastiano. Vi hanno visti assieme, nei pressi dell’attracco in villa».
«Ti piacerà, è un giovane sensibile, forte e generoso. Non ho mai incontrato una persona così».
«Dicono che sia del Sassello».
«Sì, abita in quel rione. La sua mamma è morta da poco e vive da solo».
«Quel quartiere è pieno di tagliaborse».
«Non lo so, non ci sono mai stata. Michele dice che sono solo dicerie».
«Sebastiano invece sostiene che al Sassello ci sono più delinquenti che abitanti. Pare addirittura, che i carcerati rinchiusi nel penitenziario provengano tutti da quel luogo».
«Che esagerazione...».
«Non credo. Con il suo lavoro sa di cose e fatti da incubo. Tagliagole e tagliaborse, prostitute e appestati, gente che vuole assalirci e depredarci dei nostri averi».
Eleonora si stava incupendo. La sorella era piena di pregiudizi e sembrava non volesse intendere altro. Smise di annusare i limoni e le foglie e si avvicinò a una vetrata. Guardò verso sud, come se da quella parte potesse giungere qualcuno in suo aiuto. Un testimone che spiegasse, dimostrasse quanto fossero calunniose tutte quelle malignità.
«Mi riesce difficile pensare» riprese Alessandra «che in mezzo a tante iene possa sopravvivere un agnello».
«Non importa. Michele e io ci amiamo. Lui è una brava persona e questo mi basta».
«Io credo invece che ti stia raggirando, con l’unico scopo d’impossessarsi dei nostri beni».
«Alessandra! Non lo conosci» disse Eleonora con gli occhi lucidi.
«Sei tu che non vedi quello che ti sta capitando. Ti sei infatuata e ora sei cieca».
«Non importa. Puoi pensare quello che ti pare. A mamma e papà piacerà. Ne sono certa».
Alessandra, ormai irritata, aveva assunto quel suo atteggiamento autoritario che la contraddistingueva e la rendeva irriconoscibile e irriducibile. Eleonora non voleva sentire ragioni e questo la infastidiva. Anche da piccola faceva così, e quando non l’aveva vinta, si rifugiava dai genitori piagnucolando.
«Senti! Tu non porterai un delinquente in casa nostra. Stavolta mamma e papà dovranno scegliere e io non mi farò da parte tanto facilmente».
«Ti prego, Ale! Prima conoscilo. Vedrai che cambierai idea. Michele è una brava persona» fece Eleonora avvicinandosi in lacrime e a mani giunte alla sorella.
«Ti ho detto che non voglio saperne di mascalzoni e delinquenti. Vacci tu dalle iene invece che portarle da noi».
«Ti prego, Ale! Non farmi rinunciare a lui. Gli voglio tanto bene».
«Smettila di frignare. Trovati una brava persona, del nostro rango, non il primo accattone che incontri per strada».
«Michele non è un accattone, fa il giardiniere. Credimi è un ragazzo a modo. Un galantuomo». Eleonora, supplichevole, raggiunse la sorella e avvicinò le mani alle sue. Con garbo, remissiva, cercava nel contatto fisico un modo per smuovere la sorella da quel rigido pregiudizio che si era costruito e, come fosse una barricata irremovibile, si celava dietro.
«Galantuomo... Non mi toccare!». E così dicendo, con impeto e nervosismo, agguantò la sorella per gli avambracci e la spinse indietro, lontana da sé.
Le traversie della vita a volte arrivano all’improvviso, inaspettate, e in un attimo il corso degli eventi si modifica in modo così radicale che si vorrebbe gestire il tempo. Si vorrebbe addirittura alterarlo e tornare indietro per raddrizzare il passato quando era ancora presente. Ma non è possibile. Il tempo non s’inganna. Non si può ingannare e non si può fermare. Un fatto, una volta compiuto, sia ponderato, meditato, oppure involontario o casuale, farà parte da subito della storia e indelebile non se ne andrà più.
La spinta di Alessandra fece indietreggiare Eleonora che, impreparata a quella reazione, non badò al predellino, perse l’equilibrio e cadde all’indietro.
Un grido acuto riverberò tra le pareti della limonaia, pareva infinito e non si smorzava, così come il tonfo sordo che l’aveva accompagnato: poi, per pochi attimi, il silenzio assoluto. La giovane ragazza, stramazzata di spalle al suolo, aveva battuto la nuca sullo spigolo del supporto di muratura dove si trovavano i vasi.
Alessandra, impietrita, non credeva a quello che era appena successo. Guardò la sorella a terra che non dava segni di vita, mise le mani davanti al viso e iniziò a piangere e a disperarsi.