XXX
Inverno 1935
Il biglietto diceva alle 13.30. Il Beretta arrivò a Villa Assuan dieci minuti prima. Si era fatto accompagnare dal Frapolli con la Volkswagen di servizio. Sarebbe rientrato a piedi. Il maggiordomo Gastaldo lo accolse e lo fece accomodare nel solito locale. Nell’attesa, tornò a osservare quel quadro di Spartaco Vela che l’aveva intrigato qualche mese addietro, poi si concentrò su altre tele, sul giardino e infine sul frammento di lago che vedeva dalla finestra. Amava il Ceresio d’inverno e quella metafisicità che emanava, senza barche che veleggiavano, plumbeo e misterioso come i laghi dei racconti. Fra qualche giorno, con la neve che doveva arrivare, sarebbe cambiato di nuovo. Le bianche rive, il paesaggio ovattato e i luccichii sparsi l’avrebbero reso unico.
«Mi segua, la prego» fece il maggiordomo, destandolo dall’assopimento in cui era immerso.
Pochi passi nel gigantesco atrio e il Gastaldo lo fece entrare in un locale scuro, non perché non vi fossero finestre, ma perché le pareti, stracolme di libri, assorbivano la luce anziché rifletterla: era nella biblioteca. «La signora Letizia arriva subito» disse il maggiordomo mentre si congedava.
Il delegato non fece neppure in tempo a leggere un dorso di copertina di un libro che l’aveva attratto, che la porta della biblioteca si aprì.
«Buongiorno signor Beretta, la ringrazio per aver accettato il mio invito» disse la padrona di casa porgendogli la mano e invitandolo ad accomodarsi su una poltrona davanti a un tavolino basso. Il delegato ricambiò i saluti e, come si usava, si scambiarono qualche parola sul tempo.
Il maggiordomo rientrò dopo qualche minuto. Con perfetto aplomb appoggiò sul tavolino un vassoio d’argento con il servizio da tè. Prese la vezzosa teiera di Sheffield e versò il contenuto nelle tazze di porcellana Wedgwood, con il pollice e l’indice sollevò la lattiera e, tenendola a mezz’aria l’offrì al Beretta: «Latte, signore?».
«No grazie» disse il delegato, affascinato e insieme allietato da quel protocollo di importazione anglosassone ormai acquisito anche dalla borghesia luganese.
Rimasero soli.
«La mia famiglia in questi mesi è stata sottoposta a una dura prova. Dio solo sa se riusciremo a riprenderci, forse mai. Mio marito è tuttora avvolto nel suo tormento e s’incolpa di quanto è successo. Io non posso e non voglio arrendermi. Ho ancora una figlia, le voglio bene e desidero che anche lei – nonostante tutto – ritorni a vivere».
La signora Letizia era una donna forte, determinata, pareva che avesse preso in mano quel che restava della sua famiglia per ritrovare a ogni costo la felicità perduta.
«Capisco» fece il Beretta impacciato, anche se in verità non capiva cosa volesse da lui.
«Lei mi aveva fatto una promessa e l’ha mantenuta. Presumo che tutti avremmo desiderato un altro epilogo, ma purtroppo non è andata così».
Vi fu una breve pausa. Il delegato sorseggiò il suo tè e lo trovò buonissimo, in barba a tutte le sue disquisizioni sul protocollo.
«L’orrenda vicenda è terminata e i responsabili dell’accaduto sono stati scoperti. La giustizia ha fatto il suo corso e noi convivremo con questo dramma. Vi è però una parte oscura di quest’orribile storia che ci attanaglia, ci tortura ed è fonte d’infinite supposizioni e congetture che non ci danno pace».
Il Beretta posò la tazza e indietreggiò sulla poltrona. Quella donna, intelligente e lucida, con tutta probabilità stava destando i suoi crucci assopiti e irrisolti. La questione del perché Eleonora era stata abbandonata nuda al Sassello non fu mai chiarita. Con lo svilupparsi dell’indagine, e con la confessione dei giovani, il quesito passò in secondo piano e fu congelato in attesa di nuovi elementi. A quanto pareva però stava per riemergere, come un siluro, dalle profondità degli abissi. Desideroso di conoscere se la sua afflizione fosse la medesima di quella della madre, chiese: «Di che si tratta, signora Letizia?».
«S’è parlato molto di quei due malviventi che hanno trasportato la mia Eleonora al Sassello. Sebastiano aveva ordinato loro di depositare il corpo lungo la riva del lago. Lo so, un’azione stupida e assurda, ma negli intendimenti del giovane vi era il desiderio di compiere un atto di rispetto, di premura e anche di pietà». Gli occhi della signora Letizia divennero lucidi e trattenne il pianto a fatica. «Quel vilipendio così esecrabile dei resti di mia figlia, inumano e ignobile ci angoscia. Neppure una carogna di un animale morto si lascia in quelle condizioni...».
Il delegato s’impietosì nel sentire il conciso resoconto della vicenda, espresso con poche parole ma cariche di una mestizia infinita. Non sapeva cosa rispondere. Identificati i colpevoli, l’inchiesta era finita e nel frattempo ne erano iniziate altre. La risposta a quell’enigma era per lui, come per gli Alfieri-Ferri, un ossessivo supplizio. La soluzione l’avrebbe trovata solo interrogando i due malavitosi – ancora ricercati dalla procura di Milano – consapevole, però, che le probabilità di trovarli e infine conoscere la verità erano quasi nulle. Accennò a una spiegazione consolatoria, sperando di pacificare il cuore della madre.
«Presumo che abbiano lasciato il corpo, una volta ricevuto il compenso, dove gli facesse più comodo per confondere le acque».
«Crede davvero, signor Beretta, che quel vicolo fosse il posto più comodo per lasciare il corpo di mia figlia? Potevano abbandonarlo in moltissimi altri posti, senza avventurarsi nelle cantine del Sassello».
No. Non lo credeva e non ce la fece neppure a sostenere lo sguardo di quella madre, affranta e amareggiata da tante traversie, ma con una visione chiara e precisa degli avvenimenti, tanto da ritenerli irrisolti.
«Signora Letizia, stavolta non le posso promettere nulla. Gli avvenimenti superano le mie competenze...».
La signora Alfieri-Ferri non diceva nulla. Il delegato avrebbe voluto andarsene al più presto, non aveva più né la voglia né la forza di sostenere il dolore degli altri.
«Il perché Eleonora è stata abbandonata nel vicolo in quelle condizioni è tuttora un mistero. Al momento l’unica pista che abbiamo ci indirizza verso quei due criminali che hanno trasportato il corpo. Mi creda, non mi arrenderò e farò tutto quanto in mio potere per scoprire cosa sia successo». Pronunciò le sue ultime parole quale salvacondotto per un congedo immediato: ne aveva bisogno.
Si alzarono. La donna gli si avvicinò, cercò le mani del delegato e le strinse fra le sue. Con una leggera pressione gli trasmise calore e compassione. Le minuscole rughe del sorriso comparvero e si dilatarono come raggi luccicanti, illuminando gli occhi umidi pieni di gioia.
«Grazie, signor Beretta, grazie con tutto il cuore».
Sull’uscio di Villa Assuan, il Beretta guardò il lago e poi il cielo. Impercettibile e silenziosa, la prima neve dell’anno stava arrivando. Si aggiustò il bavero del cappotto proteggendosi il collo e la nuca e s’incamminò verso il centro. Il torpore era nell’aria, così come la frenesia dell’imminente festività e la malinconia che si portava appresso.
Passeggiando verso casa rifletteva su quanto appena discusso con la signora Letizia, quelle incongruenze lo tormentavano e non gli avrebbero dato pace. Lo sapeva fin troppo bene, e a ogni richiamo del caso, la questione sarebbe tornata a ronzargli nel cervello infastidendolo, come le zanzare nelle notti insonni.
Ostinato com’era, non avrebbe rinunciato a cercare la verità, persino a costo di rimetterci di persona. Non era la prima volta che si arenava nei meandri di un caso e il segno della sua ostinazione se lo portava sul viso. La cicatrice che aveva sulla fronte era il frutto di una colluttazione che per poco non gli costò la vita. Irriducibile come pochi, avrebbe dato tutto pur di trovare il colpevole di un delitto. La sua idea di giustizia travalicava l’opportunità, qualunque forma di ragionevolezza e spesso il buon senso. Non era per nulla avvezzo a forme di accomodamento, perché di fronte a efferati crimini non vedeva grigi: solo bianchi e neri. Per contro era più magnanimo e a volte disinteressato verso quei ladruncoli di polli che nella quotidianità si arrabattavano per sopravvivere. Quando poteva li aiutava senza coinvolgere l’apparato della giustizia.
In quel periodo era anche sofferente per quello che stava succedendo in Europa e nel mondo, con l’intolleranza che la faceva da padrona, tra guerre civili, invasioni e riarmi bellicosi. La prepotenza avanzava con la consapevolezza di tutti e nessuno era in grado di porvi rimedio. I suoi occhi riflettevano quei fatti. Guardandolo pareva di veder scorrere, tra le pupille, le immagini dell’ingiustizia e della malasorte che, come ammassi bui, ne oscuravano la luce.
Il bilancio di fine anno, con il Natale alle porte, lo intristiva.
Stava tornando a casa, nel suo appartamento in via Battaglini, dove c’erano le persiane chiuse e il fuoco spento. L’occasione per un po’ di gioia l’aveva avuta, ma non seppe gestire i sentimenti e l’energia che ne scaturì. Impreparato a una vita a due, si lasciò travolgere dall’indecisione e dall’insicurezza, sospendendo l’esistenza e le passioni in uno stato d’inquietudine, di solitudine e d’indicibile infelicità. Nei momenti bui quella condizione lo metteva in agitazione e, alla ricerca di un conforto, s’immaginava l’impossibile e l’irrealizzabile. A volte, con il batticuore, ascoltava i passi lungo il corridoio, si destava, e immobile attendeva speranzoso di sentire bussare alla porta, ma non era mai la sua.
Si sistemò di nuovo il cappotto serrandolo per bene sul collo e accelerò il passo.
Il manto bianco stava coprendo ogni cosa e le impronte dei passanti, nette e misteriose, si perdevano nelle prospettive delle vie svanendo negli androni dei palazzi. Sarebbe davvero facile trovare qualcuno quando nevica, pensò, nessuno sfuggirebbe alla legge. Sorrise.
In poco tempo la luce si affievolì e il giorno si confuse con la notte.