XXXV

Estate 1936

La ricostruzione ipotizzata dal Beretta, ricca di particolari, fu sconvolgente.

Albino era disgustato. Il ripugnante espediente escogitato dal Laghi per uccidere Eleonora l’aveva lasciato in uno stato di afflizione. La ragazza poteva essere salvata in qualunque momento. Quell’uomo invece, con la mente contorta, avida e con l’unico scopo di trarne vantaggi personali, l’aveva uccisa in un modo barbaro e inumano. Con molta probabilità si era persino crogiolato nella sua sgradevole astuzia, osservandola morire e incurante della sofferenza che causava.

Il delegato fu bravo a trovare i collegamenti di quel complicato schema. Gli bastò udire le frasi sconnesse del testimone Negri, che i pezzi del puzzle, sparsi nel taccuino degli appunti e vaganti nella mente, si ricomposero.

Quel poveraccio di Dante Negri, scombinato fin dalla nascita e succubo da sempre del Lingera, reagì male all’avventura luganese, tanto da peggiorare la sua già friabile esistenza. A detta del commissario capo Maggioni, quanto ripeteva – a proposito dell’occultamento del cadavere – non significava nulla di sensato: «L’è minga morta, l’è dree a durmì. L’è dree a durmì in mezz a la név. In mezz a la név».

I folli hanno una loro logica e va compresa. Sebbene in un qualunque processo quell’uomo non avrebbe avuto un minimo di attendibilità, di certo non stava raccontando bugie. Perché avrebbe dovuto? Almeno questa era l’opinione del delegato. Come decifrare invece quello sconclusionato mantra: «“Non è morta, sta dormendo, sta dormendo in mezzo alla neve. In mezzo alla neve”». Ci voleva una mente raffinata e capace di vedere oltre le apparenze come quella del Beretta.

La prima incongruenza l’aveva avvertita durante la confessione di Alessandra e Sebastiano: non gli tornavano i conti sull’ora della morte. Non approfondì la questione più di quel tanto per due ragioni: la prima, perché stavano confessando l’atroce crimine e non avrebbe avuto senso mentire sull’orario; la seconda, perché non era più certo dei suoi calcoli a proposito della rigidità cadaverica. La rivelazione del Negri gli fece riformulare le ipotesi e le congetture iniziali, e decise di ricostruire l’iter dell’intera vicenda. Si ricordava benissimo che il giorno del ritrovamento del cadavere, aveva ipotizzato l’orario del decesso in base al rigor mortis. È pur vero che non era un esperto, ma in quel corpo i muscoli erano flaccidi e senza una minima rigidità. La morte, di conseguenza, doveva risalire a poche ore addietro. Se Eleonora fosse deceduta lunedì verso le 18.30 o le 19.00, quindi a circa quattordici ore dal ritrovamento, il corpo avrebbe dovuto essere rigido.

Quest’ultima considerazione, unita all’ossessiva ripetizione del Negri a proposito del fatto che la ragazza non fosse morta, ma che stava solo dormendo, fu l’avvisaglia che lo condusse a immaginare una nuova teoria. Ipotizzò quindi che il trauma subito da Eleonora, per mano della sorella, non le avesse causato la morte, ma solo la sospensione apparente dei sensi. Alessandra e Sebastiano, al momento dell’incidente, non furono in grado di comprendere cosa fosse successo con esattezza alla giovane. Impauriti, trassero le loro conclusioni basandosi su un superficiale e maldestro controllo della pulsazione, ritenendola senza vita.

Eleonora non aveva altri traumi o segni sul corpo, a eccezione della ferita dietro la nuca. Anche il suo amico dottor Aldo Lurati, che all’obitorio era riuscito a eseguire un sommario controllo esterno, l’aveva confermato. Il Beretta si chiese di conseguenza cosa potesse aver provocato la morte della giovane senza lasciare traccia.

Ripensò alle ossessive frasi del Negri e a quel fantasioso, e in apparenza assurdo, stato in cui la descriveva: «“Non è morta sta dormendo in mezzo alla neve. In mezzo alla neve”».

Il freddo poteva essere una causa di decesso che non lasciava segni apparenti, o comunque non facilmente rilevabili senza l’ausilio dell’autopsia: in particolare l’ipotermia.

Ora si trattava di capire chi potesse aver fatto una cosa del genere e con quale movente. L’avvocato Laghi, da quando l’inchiesta aveva coinvolto il personale e gli affezionati di Villa Assuan, era in cima alla lista dei probabili colpevoli. Il Beretta cercava sempre di avere il massimo dell’obiettività verso i sospettati, ma con il Laghi faceva fatica. Gli stava antipatico e lo vedeva spesso come il responsabile di molti mali. Più volte in questo caso l’aveva colpevolizzato, per poi cambiare idea durante l’evolversi delle indagini.

Con questi nuovi indizi, il delegato cominciò a pensare a un luogo dove, alla fine di settembre, ci potesse essere della neve. In un primo momento non riuscì a immaginare altro che celle refrigeranti, in particolare quelle della S. A. Fabbrica Ghiaccio. La sua attenzione si spostò poi verso il Macello Pubblico in via Ciani, lì di certo avrebbe avuto le informazioni che cercava: la carne e i salumi erano conservati in ghiacciaie o neviere. Annibale Luraschi, operaio veterano del mattatoio, gli parlò delle Cantine di Caprino che ai tempi erano usate per la conservazione delle carni. Delle ghiacciaie naturali raffreddate da un’aria gelida che attraversava le rocce della Sighignola. Poi gli accennò delle neviere in zona Trevano. Gli disse inoltre che i ricchi, a volte, avevano la propria neviera nel giardino della loro villa.

All’ufficio del catasto trovò quello che il suo intuito aveva pronosticato: nella villa del Laghi c’era una neviera. Il cerchio tratteggiato sulla mappa la indicava in maniera inequivocabile.

Il resto venne da sé.

Durante il processo a Sebastiano e Alessandra, il giovane avvocato non fu in grado di chiarire, senza lasciare dubbi, le conoscenze malavitose che sosteneva di avere e che l’aiutarono ad assoldare – tramite il Salmini – i due malviventi di Milano. Le prove dicevano invece che sia il Salmini sia il Gaina erano stati clienti del Laghi.

La tesi del Beretta sulla morte per ipotermia colmava molte falle del caso dando delle risposte a quei quesiti che erano rimasti in sospeso. Chiarivano, per esempio, il motivo del perché la giovane fu trovata nuda e spogliata: per accelerarne la morte nella neviera. Anche il cambiamento di luogo di abbandono, che a detta dello Snorghi doveva essere vicino al lago, trovava in questa tesi una logica spiegazione: il Laghi voleva confondere le indagini e sollevare sospetti sul fidanzato che abitava al Sassello.

Da ultimo il movente: gli interessi economici, un classico. Il terzo di quelli che di solito elencava tra le principali cause di omicidio. L’avvocato Laghi, grazie alle conoscenze avute tramite gli Alfieri-Ferri, aveva modificato il suo stato sociale accreditandosi politici e danarosi clienti. Il “pasticciaccio brutto” di viale Stefano Franscini, provocato inizialmente dal nipote che aveva avuto la malsana idea di occultare il corpo di Eleonora invece di chiamare i soccorsi e la polizia – e forse ideato da lui – come un domino stava facendo cadere una casella dopo l’altra.

Le scoperte e le considerazioni del Beretta ridiedero valore alla testimonianza del Negri, avvalorandola agli inquirenti come plausibile, nonostante l’apparente stato confusionale con cui fu narrata.

In quell’estate del 1936, dieci mesi dopo l’omicidio, il delegato Beretta e il gendarme Frapolli avevano risolto quell’orrendo caso, dove sia l’uno sia l’altro erano stati coinvolti emotivamente, a volte sentendosi destabilizzati.

Avevano un ultimo atto di loro competenza da compiere, arrestare l’avvocato Laghi e consegnarlo alla giustizia. Questa volta erano certi della loro tesi ed erano sicuri che l’avrebbero inchiodato alle sue responsabilità.