XXXVII

I poliziotti, dall’ufficio dell’avvocato in via Lucchini, raggiunsero la residenza del Laghi in pochi minuti. Il sergente maggiore Bariffi dirigeva le operazioni al comando del Beretta. Prima di salire i quattro gradini che separavano il vialetto dall’entrata, il Bariffi ordinò ai gendarmi di circondare l’edificio. Al Frapolli toccò controllare il retro. Gli agenti eseguirono con prontezza gli ordini e si disposero sui lati della villa. Il sergente maggiore attese che i suoi uomini fossero appostati, voleva essere sicuro che in caso di fuga ogni settore fosse protetto e coperto, poi premette il pulsante del campanello.

Albino si ritrovò anche lui davanti a quattro gradini, dovevano essere quelli dell’uscita secondaria. Superata l’incertezza iniziale, decise di provare a entrare. Esitante e prudente, superò il dislivello tra il piano del giardino e l’ingresso sopraelevato. L’uscio era aperto. Un piccolo andito disimpegnava l’accesso di servizio e due porte davano all’interno: una era bloccata, l’altra socchiusa. Estrasse la pistola dalla fondina e la tenne salda nella mano destra. Indugiò per qualche istante ed esitando scostò, con la mano sinistra, l’anta socchiusa, aprendola. Strisciando rasente la parete entrò in un largo corridoio lussuoso, arredato con mobili bassi e illuminato da grandi aperture che davano sul parco. Dalla posizione in cui si trovava vedeva i suoi due capi nella loggetta dell’ingresso principale e sentiva dall’interno il suono del campanello.

Non aveva mai estratto, se non al poligono di tiro, la rivoltella d’ordinanza e se ne compiacque di non averne mai avuto bisogno. Quella situazione lo intimoriva. Si era sempre immaginato che la sua prima irruzione l’avrebbe fatta al fianco del sergente maggiore Bariffi o del delegato, oppure assieme a qualche gendarme anziano, di quelli esperti.

Invece era solo e non sapeva cosa fare.

Forse non sarebbe dovuto entrare, ma quel giorno l’adrenalina era alta e di difficile controllo. Pietrificato, con l’arma nella mano tremolante e gli occhi sbarrati pronti a cogliere qualunque anomalia, se ne stava lì, appoggiato al muro, impalato, come se si trovasse sull’orlo di un precipizio, non sapendo più se andare avanti o indietro. Il campanello suonava con insistenza e pareva l’unico rumore presente nella villa. Gocce di sudore freddo gli appannavano gli occhi. Aveva voglia di piangere, di fuggire, di sparire. Teso e con il respiro al minimo, a fatica scacciò gli incubi che la mente gli stava costruendo. Il coraggio di proseguire gli ritornò, nella rassicurante presenza dei due capi che intravedeva all’ingresso e che di lì a poco sarebbero entrati anche loro. Con uno sforzo, che gli sembrò smisurato, alzò un piede che pareva di piombo e poi l’altro. Appiccicato alla parete esterna, e ai vetri delle finestre, avanzava lento e strisciante. Con la mano sinistra stringeva il polso della mano destra, che salda impugnava la pistola. La sua prospettiva aveva come unico punto di fuga il mirino dell’arma. A scatti – da manuale – inquadrava lo spazio che aveva davanti alla ricerca di un ipotetico nemico e poi avanzava di qualche decimetro. Puntò verso le vetrate di un locale: con molta probabilità lo studio. Il suono del campanello, ormai snervante, era accompagnato da un movimento nervoso della maniglia: i colleghi stavano forzando la porta. I rumori si attenuarono e all’improvviso tutto sembrò ovattato, l’unico ritmo che gli parve di sentire, costante, incessante, sordo, opaco, proveniva da dentro: era il suo cuore che batteva forte, fibrillava per la paura.

Attraverso i riquadri dell’anta a vetri, che separava il corridoio dallo studio, vide il Laghi estrarre qualcosa da un cassetto della scrivania. Mise a fuoco. Era una grossa rivoltella nera. L’avvocato iniziò ad armeggiare con la pistola e fissandola con rassegnazione se la stava portando alla bocca. Il Frapolli atterrito abbassò l’arma e si precipitò nel locale gridando a squarciagola: «Si fermi! Si fermi! Non faccia pazzie».

L’avvocato, nel vedere il gendarme piombare all’interno dello studio, si bloccò di colpo. Il suo viso mutò espressione e torcendo le labbra verso il basso attivò i muscoli delle mascelle assumendo un ghigno di disprezzo. La rabbia del perdente, alle strette con il mondo, lo colse d’un tratto destando un’inspiegabile e irragionevole follia.

Il giovane gendarme fu colpito in pieno petto. D’istinto si portò entrambe le mani sulla ferita e incredulo guardò il sangue uscire a fiotti fra le dita. I suoi occhi all’improvviso persero la luce. L’espressione del volto, dapprima malinconica, divenne assente e arrendevole. Con le braccia aperte si accosciò cercando invano l’equilibrio e infine stramazzò supino. Strascicava per terra muovendo le gambe e le braccia in modo convulso. Tastava a fatica, con le mani insanguinate, le tasche della giacca della divisa. I suoi movimenti erano sconclusionati e incerti.

Il Beretta entrò di corsa, s’inginocchiò al suo fianco, gli mise un braccio sotto la testa e iniziò a gridare come un forsennato:

«Chiamate un dottore! Qualcuno chiami un dottore! Per favore!».

L’avvocato, con la pistola fumante fra le mani, era impietrito dietro la scrivania. Aveva sparato a un gendarme della polizia cantonale. Pallido, lasciò cadere la pistola per terra e si abbandonò sulla lussuosa poltrona, si girò di centottanta gradi e con gli occhi sbarrati iniziò a fissare il vuoto.

«Chiamate un dottore! Per favore! Per favore!» gridava il delegato.

Altri agenti irruppero nello studio, il dottore tardava ad arrivare.

«Ehi! Signor delegato» fece il gendarme.

«Tranquillo Frapolli, andrà tutto bene» disse il Beretta.

«Non trovo il mio taccuino, l’avevo in tasca».

«Tranquillo Frapolli, lo cercherai dopo».

«Sono sicuro di averlo con me, l’avevo in tasca».

Il Frapolli si stava agitando per cercare il taccuino.

«Eccolo!» disse il delegato. «L’ho trovato, era qui nella tua tasca come dicevi, ora stai sereno che arriva il dottore».

Albino parlava a fatica. Muoveva le labbra appiccicate e con uno sforzo immenso cercava di costruire le frasi, dapprima afone e poi sussurrate: con un filo di voce.

«Signor delegato, lo guardi... ho trovato un mio codice, ora non scrivo più tutto quello che dicono... ho fatto come diceva lei...».

Il delegato aprì il taccuino; era sporco di sangue come le sue mani. Con gli occhi lucidi scorse qualche pagina, poi l’appoggiò sul petto del giovane, inserendoglielo sotto le mani giunte e insanguinate.

«Bel lavoro! Bravo Frapolli».

Il giovane ebbe uno spasimo, un forte colpo di tosse gli fece uscire del sangue dalla bocca. Il Beretta si guardò attorno con rassegnazione. «Arriva questo dottore? Maledizione! Presto! Per favore! Questo ragazzo sta male».

«Signor delegato» fece il Frapolli con un flebile mormorio.

«Che c’è, Albino, dimmi?».

«Ehi! È la prima volta che mi chiama per nome».

Il Beretta stentò a trattenere le lacrime, con il fazzoletto nella mano gli pulì la fronte sudata e le labbra insanguinate.

Il giovane gendarme socchiuse gli occhi, mostrò un delicato sorriso e sussurrò: «Signor delegato, credo che fra un po’ incontrerò il nostro angelo».

Il suo anelito fu dolce, sottile come la brezza mattutina che accompagna i pescatori di tirlindana sulle acque del lago.

Il delegato scoppiò a piangere. Sollevò da terra il busto inerte dell’amico appena trovato e già dipartito, e con un abbraccio avvicinò la testa alla sua. Aveva il cuore straziato e in lacrime gridava: «Non è giusto! Non è giusto! Non è giusto!». Le sue grida, dapprima potenti e laceranti, si smorzarono, tra l’affanno disperato e interminabili singhiozzi.

Il rude sergente maggiore voleva bene ai suoi uomini e come sempre in quelle operazioni faceva mille raccomandazioni di prudenza. Sapeva benissimo che una persona braccata è priva di qualunque razionalità. Ogni gesto sbagliato, imprudente, poteva provocare una reazione imprevedibile, incalcolabile, portando a volte a un’irrimediabile tragedia.

Non importava il ramo sociale o la provenienza, né il fatto che il braccato fosse una persona per bene o un delinquente. L’istinto di sopravvivenza smuoveva meccanismi atavici, antichi, primitivi, e la risposta a un inseguimento poteva essere di qualunque tipo: una resa incondizionata, un tentativo di fuga, il martirio quale extrema ratio o un’inspiegabile vendetta contro tutti.

Mille raccomandazioni che svanirono davanti a un cuore grande e generoso. Mille raccomandazioni inutili, quando la spontaneità della giovinezza offusca le malvagità della vita.

E così Albino se n’era andato. Aveva dato la sua breve vita per la divisa, per gli altri, facendo il suo dovere sino alla fine. Se n’era andato fra le braccia del suo superiore, del suo mentore e del suo grande amico.

Il Beretta, in piedi davanti all’uscio, con la faccia distrutta e gli occhi lucidi, osservava gli infermieri della Croce Verde che trasportavano il corpo con la lettiga. Non si ricordava come, ma tra le mani aveva il taccuino sporco di sangue di Albino. D’istinto iniziò a sfogliarlo. In quelle pagine ordinate, ora macchiate qua e là, ma che dovevano essere linde, scorse tra gli appunti i bozzetti con raffigurati i protagonisti di quell’infelice storia. Innumerevoli ritratti comparvero in sequenza: il Risciott, Eleonora, Pà Cech, Sterlina, il Magliana, il sergente maggiore Bariffi, l’avvocato Laghi, e ancora Eleonora, tanti altri, e poi lui. Albino l’aveva visto oltre l’apparenza, con quella sua ingenuità, l’aveva dipinto com’era nella vita reale quando non vestiva i panni del delegato. Lo aveva visto con gli occhi tristi che scrutavano il mondo.

«Fragile amico mio» fece il Beretta a bassa voce «la tua vita è andata via così in fretta che non abbiamo potuto godere appieno del tuo immenso talento. La tua strada era un’altra, non tra le pieghe delle bassezze degli uomini, ma tra la bellezza dei mondi sconosciuti, immaginari e ancora da scoprire con la fantasia».

La morte del gendarme Frapolli, per mano del noto avvocato luganese, suscitò una gigantesca polemica. Tutti volevano la testa di tutti.

La stampa per parecchio tempo sviscerò articoli, pubblicò inchieste e propose interviste a illustri e saccenti membri della comunità alla ricerca di un colpevole. Il Sassello, covo di gentaglia in malaffare, figurava il primo dei malvagi da mettere all’indice.

L’avvocato Laghi fu arrestato e finì in prigione, ma non fu mai processato. Usando le conoscenze che aveva all’interno del penitenziario riuscì a procurarsi, mimetizzato allo zucchero, del cianuro di potassio e si uccise. Fu vile sino alla fine e preferì uccidersi piuttosto che confrontarsi con la giustizia e farsi giudicare dalla comunità.

Il Beretta non smise di frequentare il rione. Aveva più amici al Sassello che in centro. Il suo girovagare notturno non piaceva ai politici e ai suoi superiori, ma a lui non importava. Un bicchiere di barbera, in piedi, dal Bisbin al Portegasc, o un vermut al Cantinone in vicolo Nassa valeva più di un ricevimento in Villa Ciani. Un diverbio dialettico sui massimi sistemi con il Bélier o con il Nino, davanti a un ratafià, magari con qualche digressione defaticante dopo una lunga giornata, valeva più di infinite riunioni al palazzo civico. E poi, alla luce antelucana, assaporare una pagnotta calda, profumata e appena sfornata dal Cerutti.

A Lugano, dopo un anno, si parlava ancora del fattaccio del Sassello. Senza il processo la verità non venne mai a galla nella sua globalità. Di quella vicenda vi furono più supposizioni che certezze. Come Damocle, il rione continuò la sua incerta esistenza con i picconi – invece della spada – appesi a esili crini sopra i tetti.

E tra menzogne e sincerità, la vita al Sassello riprese come sempre.

Per le strade, rumori, odori e suoni antichi continuarono a riempire l’aria: gli schiamazzi dei monelli, il ciarlare delle massaie, il trepestio delle ruote sull’acciottolato, i colpi di mazza sull’incudine del fabbro e le martellate del ramaio; il profumo del pane fresco, della lavanda, del sapone di Marsiglia e quello della polenta e della luganiga. Il pianto dei bimbi rincuorato dalle amorevoli voci delle mamme e la tromba del Michée che comunicava la cottura del paiolo. E poi, il suono che tutti ascoltavano, quello delle campane di San Lorenzo che scandiva il tempo e allegro annunciava la vita e cupo la morte.

Al tocco della mezzanotte, il Sassello si spegneva. Svaniti gli ultimi vagabondi perditempo tra gli androni e le corti, le strade rimanevano deserte e quiete. A notte fonda solo il Cerutti si aggirava, e indaffarato, dopo aver acceso le luci del prestin, raccoglieva la legna per accendere il forno. Anche per l’indomani avrebbe preparato del buon pane quotidiano.

Quando carico di pezzi di faggio stagionato dalla legnaia ritornava al forno, usava sbirciare verso una finestra, la solita. Una finestra che spesso e a quell’ora era ancora illuminata. Il Cerutti abbozzava un sorriso, quella luce lo tranquillizzava, lo rasserenava e fischiettando come soleva fare Eine kleine Nachtmusik, allegro alimentava il forno.

All’interno del locale, con quell’apertura che rischiarava fioca la via, un uomo nudo, supino sul letto, stava esaminando il soffitto. Una donna era andata in bagno da parecchi minuti. Percepì il suo ritorno e con la coda dell’occhio la vide che lo osservava. Aveva il volto illuminato da un sorriso gioioso, raggiante. Si fissarono con sguardi eloquenti.

Avanzando lenta, con nulla addosso, gli chiese:

«Ti piace il mio nuovo soffitto?».

«Viola».

«Sì, viola. Carino, no?».

«Insomma, lo preferivo prima».

«Prima era azzurro».

«Appunto. L’azzurro del cielo... come l’immensità del cielo... dove ci sono gli angeli».

«Dai Zechi» fece Sterlina salendogli cavalcioni sul basso ventre. «Non fare il romantico».

«Sterlina!».

«Dimmi».

«Tu credi agli angeli?».

«Io sì. E tu?» fece la donna, mentre con un leggero colpo della testa distribuiva i capelli sulle spalle, e con poche abili mosse li raggruppava a crocchia.

L’uomo cercò i suoi occhi. Si guardarono. Con il dorso delle dita le accarezzò con garbo una guancia e poi le labbra. Lei ricambiò lo sguardo e, scorrendo i polpastrelli sulla barba incolta, la carezza. Lo abbracciò. Si abbracciarono, si amarono.

Questo era il Sassello, borgo di gente antica, di una volta, con una parola sola e l’orgoglio di mantenerla. Facce operaie, scavate dalla fatica e dalla cattiva sorte. Rughe profonde, villane, intaccate dal sole come crepe nella roccia. Cuori semplici, generosi, consapevoli che l’amicizia ti cammina accanto, conquista lo spazio e oltrepassa il tempo.