Sette anni prima
«Posso sempre dirvi quando arrivano», osservai mentre piantavo la forchetta in una crocchetta di pollo. «State tutti così zitti».
Qualcuno a tavola scoppiò a ridere mentre Noah, Rika e gli altri davano un’occhiata ai cavalieri, di cui anche io ero venuta a conoscenza nel mio breve periodo lì. Era facile capire quando uno di loro o tutti entravano in una stanza: l’argomento della conversazione cambiava e si sentivano dei bisbigli. Mi sarebbe piaciuto essere coinvolta negli intrighi di Thunder Bay Prep, ma probabilmente era meglio non riuscire a vedere quanto fossero sexy. O almeno così si diceva. Noi eravamo matricole e loro frequentavano l’ultimo anno, dunque completamente fuori dalla nostra portata.
Io comunque mi ero già presa una cotta. Mi venivano i brividi ogni volta che pensavo alle nostre avventure della sera precedente in macchina e in moto. Ero più che pronta per il mio primo bacio. Non ero sicura di che natura fosse il suo interesse per me, ma chiaramente non stava assecondando il mio desiderio represso tipico da adolescente di ricevere un po’ di calore. Forse non mi vedeva per niente in quel modo.
Dopo il giro in moto eravamo saliti in macchina, mi aveva portata a casa ed ero andata letto. Nessuno della mia famiglia si era accorto che ero uscita. Pensavo che avremmo parlato di più, o che almeno avrei saputo se e quando fosse tornato, ma lui non aveva detto nulla e io nemmeno. Non era l’ultima volta che parlavo con lui, vero? Voglio dire, non era un modo per dirmi addio. O no?
L’avevo sognato quella notte e mi ero svegliata con in testa una piccola fantasia sconcia di lui che anni dopo mi incontrava per strada e mi toccava con fare passionale. Tuttavia, mi venne male quando realizzai che non volevo aspettare così tanto per stare di nuovo con lui.
L’unico lato positivo di non sentirlo mai più forse poteva essere che il primo amore è sempre un’esperienza di vita. O almeno così sosteneva mia madre. Non sono quelli che sposi, mi diceva. Sono quelli che ti spezzano, così puoi ricostruire una migliore versione di te. Più forte.
Ma non mi importava. Volevo che tornasse. Volevo che mi facesse male. Mi bastava che tornasse.
«Come sono?», chiesi rompendo il silenzio e cercando di cambiare argomento. «I cavalieri? Oltre a Damon, intendo».
Mi ero già fatta un’idea dello strumento in cui si era trasformato. Non riuscivo a credere di aver sospettato che fosse il mio fantasma. Il mio ragazzo era fuori dal mondo. E non fumava, grazie al cielo.
«Be’, Kai è il più bello», disse Claudia, l’amica di Rika.
«Fa schifo in tutte le cose che contano, però», la prese in giro qualcun’altra.
«Lui e Damon si assomigliano molto. Hanno sia i capelli che gli occhi scuri, ma Kai è più… curato, diciamo così. Damon sembra che sia tornato alla sua forma umana dopo essere stato un lupo per tutta la notte. Ha sempre i capelli e i vestiti in disordine…».
«E Will?». Volevo distogliere l’attenzione da Damon.
«Anche Will è un bel ragazzo», intervenne Rika, «ma non lo trovo sincero come Kai. È attraente e ha persino una risata migliore. Tratta le ragazze meglio di Damon o Michael, però boh… non lo so». Fece una pausa, pensierosa. «Fa sempre il cretino. Non credo abbia mai avuto una ragazza seria come Kai, vero?»
«Forse il suo cuore appartiene già a qualcuno che non può avere», intervenne Claudia.
«Oh».
«Sì, come Damon», ridacchiò Noah. «Sono molto amici. Davvero troppo amici, dicono. Tiene Will al guinzaglio. In senso figurato».
«E Michael?»
«Michael».
«Michael».
«Michael».
Erano tutti attorno al tavolo e sentii Rika sospirare alla mia sinistra.
«Rika sa tutto di lui», scherzò Noah.
«Basta ragazze, smettetela». Rika sembrava davvero in imbarazzo.
Ci mise qualche secondo a rispondere alla mia domanda. «È una specie di leader», spiegò. «Probabilmente sulla buona strada per diventare un giocatore professionista. Capelli castano chiaro, pelle dorata, occhi nocciola. L’esatto opposto di Will. È molto serio».
«Occhi nocciola. Occhi da camera da letto vorrai dire», la prese in giro Claudia. «Rika ha dormito nel suo letto. Te l’ha detto?».
Dormito nel suo letto? Lui aveva diciotto anni. O comunque giù di lì.
«Avevo tredici anni e mi fece mettere lì. Ve l’ho detto ragazze, non ha mica dormito lì con me».
A quel punto si rivolse a me. «Siamo cresciuti insieme. Le nostre famiglie sono in buoni rapporti quindi passo molto tempo a casa sua».
«Il che sta per “lei lo ama, avrà i suoi bambini e tieni le tue maledette zampe lontane da lui”», mi disse Noah.
«Ricevuto».
Tutt’a un tratto la musica si diffuse dagli altoparlanti e intorno a noi scoppiò un gran trambusto. Gente che rideva e fischiava. Io affinai l’udito cercando di capire cosa stesse succedendo.
Era davvero una canzone di Bobby Brown?
«Oh mio Dio», disse qualcuno ridendo.
«Cosa? Che sta succedendo?».
«Will Grayson sta ballando», rispose Rika palesemente imbarazzata per lui. «Oh mio Dio, è salito su un tavolo».
Qualunque cosa stesse facendo doveva essere divertente perché tutti intorno a me scoppiarono a ridere.
La canzone era My Prerogative e io non potei fare a meno di sorridere e dondolare un po’ la testa. Fu una scelta musicale alquanto divertente. Probabilmente mi sarebbe piaciuto Will.
«È uno molto passionale, ma non un combattente», disse qualcuno.
«È così sexy», aggiunse Claudia.
«Se mai ti dovessi innamorare di uno di loro, fa che sia Will o Kai, capito?», disse Noah da sopra il tavolo e immaginai parlasse con me. «Ti terranno almeno per dieci secondi dopodiché sarà finita».
Non riuscii a trattenere una risata nervosa e ricominciai a mangiare. Okay, forse dopotutto, non mi sarebbe piaciuto nessuno di loro.
«Dateci un taglio», disse Rika prima di rivolgersi a me. «Ti stanno soltanto prendendo in giro».
Capito. Nessun problema. Mi sarei tenuta alla larga da quei viziati dell’ultimo anno. Tuttavia mi chiesi cosa avrebbe fatto il mio fantasma se fossi piaciuta a qualcuno. Gli sarebbe importato? Lo avrebbe saputo? E se fosse stato lì proprio in quel momento? Dannazione, poteva essere Noah.
Ma scartai subito quella possibilità. Mi ero aggrappata al braccio di Noah per andare alla lezione di musica. Non assomigliava al suo corpo. Non era abbastanza alto, né abbastanza forte. Le mie viscere non facevano le piroette quando lo toccavo.
Mentre la musica andava, però, e gli altri erano distratti a guardare la performance di Will Grayson, tutto cominciò piano piano a svanire: le risate, la musica, i rumori, tutto si affievolì e divenne come un ronzio di sottofondo.
Volevo sentirlo di nuovo.
Lo sentii di nuovo. Come se stessi ancora guidando in braccio a lui. O fossi raggomitolata dietro di lui sulla moto, calda ma allo stesso tempo congelata dall’aria notturna. O stretta fra le sue braccia, nascosta in un armadio, un mondo dentro un mondo.
Desideravo che fosse vicino. Desideravo che mi stesse guardando. Che non mi togliesse gli occhi di dosso. Mi sistemai i capelli dietro l’orecchio mentre giravo la testa nella direzione in cui immaginavo fosse e mi godetti la sensazione del suo sguardo su di me.
«Ti senti bene?», mi chiese Rika.
La musica si interruppe e sentii un insegnante sgridare qualcuno – probabilmente Will – e annuii. «Sì. Quando hai finito di mangiare ti dispiacerebbe indicarmi la biblioteca? Voglio approfittare della pausa per andare lì ad ascoltare alcuni testi. Chiederò all’assistente bibliotecario di accompagnarmi alla prossima lezione».
«Certo. Ho finito ora. Andiamo».
Prendemmo le borse, gettammo i resti del nostro pranzo e ci avviammo verso le porte. Mentre andavamo non potei fare a meno di sorridere fra me e me, la sensazione di lui ancora nella testa e i suoi occhi che mi seguivano mentre uscivo dalla mensa.
«Va bene qui?», mi domandò Rika. «È vuoto e silenzioso».
Annuii non appena raggiungemmo il terzo piano della biblioteca. Cercai a tentoni una sedia vicina, ma al suo posto trovai un comodo divano. Mi sedetti lasciando cadere la borsa e tirai fuori telefono e auricolari.
«Devo scappare a stampare alcuni volantini per il Club di Matematica. Posso passare a prenderti appena ho finito e accompagnarti a inglese».
«Oh, no, tranquilla», dissi mentre mi infilavo gli auricolari e mi rilassavo nell’angolo del divano. «Troverò qualcuno. Oppure… magari farò una pazzia e troverò la classe da sola».
«Non farlo», mi rimproverò.
Le sorrisi per tranquillizzarla, anche se non stavo del tutto scherzando. La classe di Inglese 1 era la prima porta in fondo al corridoio partendo dalle scale, le quali si trovavano appena fuori dalla biblioteca sulla sinistra. Ero sicura di potercela fare, dopotutto la sera prima avevo guidato un’auto. Volevo come minimo provare a fare quello. Sarebbe stata la mia dose di divertimento giornaliera.
Cercai comunque di tranquillizzarla perché si sentiva ancora in colpa per quando mi avevano chiusa nello spogliatoio. «Sto scherzando. Starò bene. Mi farò aiutare da qualcuno, promesso».
«Okay. Ci vediamo in classe».
Le feci un piccolo cenno con la mano e mi infilai gli auricolari facendo partire il capitolo dell’audiolibro sulle tribù di nativi americani e la prima colonizzazione. Tuttavia, mi assicurai di non alzare troppo il volume per riuscire a sentire la prima campanella che sanciva la fine del pranzo. A quel punto avrei avuto cinque minuti per arrivare a lezione.
Appoggiai la testa all’indietro e chiusi gli occhi, lasciandomi trasportare dalla voce femminile che ripercorreva la storia delle tribù dell’America orientale e del Canada, e del commercio con i coloni europei. Tra tutti gli audiolibri dei miei corsi, quello era il mio preferito. La voce narrante era dolce e calma, e cambiava spesso intonazione come se stesse raccontando una favola della buonanotte.
A eccezione di Algebra che trovavo sempre e comunque difficile e per niente interessante, dato che sapevo che non avrei mai intrapreso una carriera in cui mi sarebbe stata utile, tutti gli altri corsi stavano andando sorprendentemente bene. Gli insegnanti erano molto disponibili e mi sembrava meno imbarazzante conversare con loro e parlare apertamente di ciò che mi serviva. Insomma, scuole per disabili con difficoltà di apprendimento, povertà, malattie, gravi problemi comportamentali… in confronto non potevo essere un peso così grande. Giusto?
I miei genitori – e Arion – mi avevano davvero influenzata in maniera negativa. Mentre lo stalker psicopatico mi faceva sorridere e mi dava fiducia. Pensa un po’.
Era strana la vita.
Dovevo chiedergli delle cose quando l’avrei incontrato di nuovo. Se lo avessi incontrato di nuovo. Però non avrebbe risposto solo perché lo volevo io. Avrei dovuto cavargli a forza le parole di bocca, come per esempio ballare l’intera suite de Lo Schiaccianoci in cambio del suo cazzo di nome.
Ridacchiai al solo pensiero, ma mi levai rapidamente quel sorriso dalla faccia nel caso in cui qualcuno mi stesse guardando e si stesse chiedendo che problemi avessi.
Fu allora che me ne accorsi. Un suono perforante, forte, che stroncava il silenzio con uno squillo acuto che mi fece sussultare.
«Ma che diavolo succede?», mi chiesi.
Mi strappai gli auricolari di dosso e finalmente capii cosa doveva essere.
Era…?
L’allarme antincendio mi spaccò i timpani dieci volte di più che delle unghie sulla lavagna. Mi alzai cercando di captare delle voci per capire se era veramente quello o magari un trapano.
«Non correte!», gridò forse il bibliotecario. «Camminate e uscite dall’edificio come vi è stato insegnato». E poi un grido. «Non si corre!».
«Aspettate», dissi, raccogliendo telefono e zaino. «Aspettate!».
Sapevo come raggiungere le scale, ma non ero sicura dell’uscita. Era al piano di sotto, ma dopo? Forse in fondo al corridoio e a destra finiti gli armadietti? Possibile?
Sentii le pesanti porte della biblioteca aprirsi e chiudersi ripetutamente. «Aspettate!».
Abbracciai il mio zaino, afferrai la ringhiera e scesi le scale il più velocemente possibile, ma il cavo degli auricolari che penzolava dal mio telefono mi finì per sbaglio sotto la scarpa e mi volò via di mano, ruzzolando giù da qualche parte sul primo pianerottolo. Mi gettai a carponi sul pavimento e lasciai cadere la borsa mentre tastavo le piastrelle di ceramica.
Non era un vero incendio, no? Era solo un trapano.
Tastai dappertutto e alla fine trovai il cavo, ma il telefono non era più collegato. «Dannazione», dissi colpendomi la coscia per la frustrazione.
Al diavolo. Potevo comprarne uno nuovo e se qualcuno lo avesse trovate non avrebbe potuto usarlo perché aveva il codice di blocco.
Lasciai la mia roba sul pavimento e finii di scendere le scale, l’allarme ancora maledettamente alto.
Ma non c’erano altri suoni. Niente voci, nessun movimento, nessuna porta che sbatteva… Se ne erano già andati tutti?
Il cuore iniziò a martellarmi nel petto. Cosa faccio ora? Cazzo!
Metà della scuola si trovava nella sala da pranzo quindi erano sicuramente usciti dalla porta che c’era lì. Quelli che erano in classe o nell’aula magna non potevano essersene già andati tutti. Vero?
«Ehi?», gridai.
Agitai le mani davanti a me cercando l’uscita, ma andai a sbattere contro qualcosa di duro e imprecai per il dolore allo stinco. Mi aggrappai a una sedia di legno che nella fretta di uscire non era stata rimessa sotto al tavolo.
Alla fine riuscii a raggiungere il muro e feci scivolare le mani verso il basso finché non trovai le porte che conducevano fuori dalla biblioteca. Ne aprii una e la attraversai.
«Ehi!», urlai di nuovo. «Qualcuno può aiutarmi? Non so come uscire!».
L’allarme suonò ininterrottamente mentre attraversavo il corridoio e a un certo punto fui attratta da una strana puzza di fumo.
No. Non è fumo.
Era odore di sigaretta.
Qualcuno aveva fumato a scuola?
All’improvviso sbiancai, ricordando l’ultima volta che avevo sentito quel lieve odore.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata, e non in senso buono.
Trovai le scale e scesi una rampa, poi riuscii a incamminarmi verso l’ingresso al piano principale.
«Ehi!», gridai ancora. «Gente?».
Mi spostai sul lato destro del corridoio, gli sportelli degli armadietti che sbattevano mentre passavo da uno all’altro.
Se fosse stato un vero incendio, presto sarebbero arrivati i pompieri quindi non sarei stata completamente sola.
«Ehi?», domandai. «Ehi! C’è nessuno? Ho bisogno di aiuto!».
Seguii la fila di armadietti e, quando arrivai alla fine, girai l’angolo e tastai il muro finché non ne iniziò un’altra.
Okay, okay, okay… Seguendo quelli e procedendo sempre dritta sarei dovuta arrivare all’entrata principale della scuola.
«Ehi?», gridai per l’ennesima volta.
Mi tremavano le mani.
Avrei dovuto dire a Rika di tornare a prendermi. Perché ero così testarda? Anche se gli insegnanti l’avessero costretta a lasciare l’edificio, avrebbe detto loro che la stavo aspettando in biblioteca e avrebbero mandato qualcuno a prendermi.
«Ehi?».
Poi, tutt’a un tratto, un colpo sugli armadietti davanti a me.
Mi fermai per una frazione di secondo, in ascolto.
«Ehi», dissi a chiunque fosse laggiù. «Puoi aiutarmi? Sono tutti fuori? Puoi aiutarmi a uscire?».
Ma non ottenni risposta.
Di nuovo lo stesso suono. Bam, bam, bam… sugli armadietti. Strinsi gli occhi confusa.
«Mi puoi aiutare?», sbottai aumentando il passo. «Per favore, puoi…».
Le mie mani si posarono su una figura alta con il petto largo che indossava una camicia. Scattai istintivamente indietro.
Era un uomo, ma mi era parso di sentire una cravatta. Che fosse uno studente?
«C’è un incendio? Che sta succedendo?».
Ma chiunque fosse non rispose. Eravamo gli unici nell’edificio?
Aprii la bocca per parlare, ma lui mi spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Era impossibile che finissi vittima di due ragazzi strani nel giro di così poco tempo.
«Sei tu?», chiesi, la testa leggermente inclinata.
Il mio fantasma a cui piaceva spaventarmi?
Persi la pazienza. «Che Dio mi aiuti, vado…».
Mi cinse con le braccia e mi sollevò da terra.
«Vai dove?», chiese.
E io smisi di respirare. Non era il sussurro che sentivo di solito, ma il tono profondo, carico e minaccioso con cui non avrei mai più voluto restare sola.
Mai.
Deglutii a fatica, le braccia di Damon strette intorno a me. «Non sei lui».
«Lui chi?»
«L-lasciami andare», balbettai senza avere il tempo di urlare.
Prese a camminare tenendomi in braccio, mentre io cercavo di allontanarlo per liberarmi.
Una porta si aprì, poi si chiuse, e mi costrinse a entrare in una stanza. Il mio stivale da combattimento colpì qualcosa su ruote. Un secchio, forse. Dovevamo essere in un ripostiglio.
La mia mente si attivò. Il secchio avrebbe avuto una scopa. Era un’arma.
«È opera tua?», chiesi dopo aver collegato ogni cosa. L’allarme. Lui e io soli nella scuola. Aveva visto Rika lasciarmi in biblioteca e andare via?
«Che cosa vuoi?», strillai, prima di gridare con tutto il fiato che avevo in corpo. «Aiuto! Aiuto!».
Mi afferrò per la gola e mi bloccò contro il muro.
«Che cosa vuoi?». Mi sforzai di dire in preda alla rabbia, mentre mi attaccavo al suo polso cercando di staccare la sua mano da me.
Il suo corpo si avvicinò ulteriormente. «Hai paura?».
Cercai di divincolarmi, lottando con tutte le forze. «No».
«Bugiarda».
«Vaffanculo! Lasciami andare!».
Gli tirai un calcio in una gamba ma lui non si mosse. Gliene tirai un altro, questa volta più forte, e iniziai a dimenarmi finché non lo sentii finalmente mollare la presa. Riuscii a scappare, ma mi afferrò per la cravatta e mi tirò di nuovo a sé.
«Lasciami andare!», urlai di nuovo finendogli addosso. «Mia sorella è pronta per te. È sempre pronta per te. Perché non ci porti lei qui?».
Mi sollevò di nuovo, questa volta avvolgendomi in una morsa d’acciaio in modo da bloccarmi le braccia.
«Perché perdere tempo con lei quando ci sei tu?», disse prendendomi in giro. «Mi piaci».
Scossi la testa. Era orribile. E disgustoso e perverso, e odiavo avere la sua attenzione. Desideravo con tutto il cuore che non mi avesse mai vista. Era questo allora? Mi avrebbe fatto di nuovo del male? Non sarebbe stato come l’ultima volta. Ero abbastanza grande da sapere come gli uomini facevano del male alle donne di quei tempi.
«Sai, molte ragazze vorrebbero essere al tuo posto in questo momento».
«Sì. Immagino però che tu non le abbia quasi uccise una volta».
«Vuoi che mi scusi?».
Esitai, perché dal suo tono in realtà sembrava che si sarebbe scusato se glielo avessi chiesto, ma alla fine gli risposi di no.
«Come mai?»
«Perché non ti perdonerò comunque», dissi.
Non serve che sprechi tempo.
Mi strinse, il suo petto si muoveva con il mio e potevo sentire i suoi occhi sul mio viso. Non parlò per diversi secondi.
Quando lo fece, sembrò in un certo senso triste. «Winter…».
Ma qualunque cosa volesse dire, non finì e a me non importava. Non avrei passato altri sei anni a riprendermi da qualsiasi cosa volesse farmi. Un altro graffio e lo avrei ucciso per assicurarmi che non mi toccasse più.
«Non hai paura che ti faccia del male?», chiese in tono di nuovo minaccioso.
«No».
«Come mai?»
«Perché nero».
«Nero?», insistette.
Mi avvicinai. «Perché sono nel nero in questo momento, e qui… lo trovo piuttosto divertente», dissi, ricordando la notte precedente e la libertà di rischiare, combattere e incontrare un degno avversario. Volevo quella vita. «L’unica parte di me che qualcuno potrà mai ferire è il mio cuore e non c’è nessuno al mondo che abbia il mio cuore più fuori portata di te».
Aumentò la presa e lo sentii respirare tra i denti.
«Parole importanti per una bambina come te».
«Sempre le stesse cose, dallo stesso ragazzino spaventato. Ancora ti arrampichi sulle fontane per nasconderti dalla mammina?»
«Mammina?», ripeté. «Ho ucciso quella puttana ieri sera».
Esitai, innervosita dall’assurdità di quello che diceva. Ovviamente stava solo sparando delle cazzate. Si diceva che sua madre, Madame Delova, avesse lasciato Thunder Bay alcuni anni prima e non fosse più tornata.
Che diavolo di problema aveva? Voleva che mio padre emettesse un ordine restrittivo nei suoi confronti? Odiavo Damon Torrance, ma nemmeno io volevo arrivare a tanto. Sapere che stavo avendo problemi con lui a scuola avrebbe semplicemente fatto preoccupare i miei genitori, e stare a Thunder Bay sarebbe stato come essere nella vasca degli squali se avessi fatto finire nei guai uno dei migliori giocatori della scuola. Sarebbero stati tutti contro di me.
«Lasciami andare», dissi. «Lasciami andare o ti mordo».
«Esattamente quello che avevo in mente».
Cosa? Perché voleva che lo mordessi?
«Lasciami andare», ripetei.
Lui non si mosse.
«Lasciami. Andare. Subito».
Niente.
Affondai i denti nella sua mascella e, sentendolo emettere una risatina, morsi ancora più forte per farlo stare zitto.
Stronzo.
In quella posizione non riuscivo a prendere molto, altrimenti avrei cercato il suo orecchio e glielo avrei strappato via, ma gli affondai i denti nella pelle arrivando fino all’osso.
Più forte. Aumentai la pressione. Più forte.
Lui si bloccò e il respiro gli divenne roco. Sapevo che stava per mollare e lasciarmi andare. Doveva fare un gran male.
Ma invece di liberarmi, balbettò: «Più… Più forte».
La rabbia mi contorse il viso e morsi il più forte possibile, talmente tanto che mi facevano male i denti. Lo sentii ansimare, poi lasciò cadere le braccia e io fui libera. Ricaddi a terra e lo spinsi via colpendolo al naso.
Grugnì qualcosa e inciampò, perché sentii un rimescolo di secchi e scope.
«La prossima volta sarò armata. E ti ucciderò».
Feci per andarmene quando sentii la sua voce dietro di me. «Potresti doverlo fare».
Mi fermai un secondo, improvvisamente sconfitta. Perché? Perché avrei dovuto? Non si sarebbe fermato? Cosa voleva?
«Mi avresti perdonato… se quel giorno fossi caduto anch’io dalla casa sull’albero insieme a te?».
Non mi mossi, le lacrime che mi bruciavano gli occhi.
Non sapevo cosa dire. Frugai invano nel mio cervello in cerca di una risposta. Perché quella domanda mi colpiva così tanto? Sembrava quasi vulnerabile. Era la prima volta da quando frequentavo quella scuola che non si era comportato da stronzo.
Lo avrei perdonato se si fosse fatto male anche lui? Sarei potuta morire quel giorno. Mi sarei potuta ferire in modo decisamente più grave. Mi sarei potuta rompere il collo. Sarei potuta finire in coma per il resto della mia vita.
E sarebbe potuto cadere anche lui e restare ferito, o anche ucciso. Che cosa avrei pensato di lui se fosse andata così? Sarei stata più indulgente?
Forse.
Ci pensai su.
Sì. Avrei detto cose del tipo “i bambini sono bambini” e “le cose brutte accadono”. Si sa che i bambini non sono abbastanza maturi da sapersi controllare. Avrei cercato di capire.
Ma anche se non odiavo quello che mi aveva fatto tanti anni prima, lo odiavo ancora per quello che era. I ragazzi della sua età crescevano. Lui non l’aveva fatto.
«Avrei dovuto capire che era opera tua», ringhiò improvvisamente qualcuno. Avevano spalancato la porta dello sgabuzzino.
Mi tirai in piedi mentre la folla cresceva intorno a noi, poi qualcuno mi prese la mano e mi condusse fuori.
Cinque minuti dopo eravamo nell’ufficio del preside.
«È una matricola!», gridò Dean Kincaid a Damon. «Non ti vergogni?».
Rimasi lì impalata, le mani bloccate dietro la schiena come Damon a pochi metri di distanza dalla scrivania di Kincaid.
Damon tossì e tirò su col naso. «Penso che mi abbia fatto più male lei di quanto gliene abbia fatto io. Sanguino come un maiale sgozzato. Potresti essere proprio il mio tipo, ragazzina».
Lui rise e io digrignai i denti. Non mi ero accorta di avergli morso la mascella così forte. O forse era dovuto al colpo al naso.
Ad ogni modo, bene così.
«Sei espulso», disse Kincaid tagliando corto. «Non mi interessa con quali minacce se ne uscirà tuo padre. Finiremo in quel dannato telegiornale nazionale per colpa tua!».
«Mi sta espellendo?», rispose Damon in tono di sfida. «Gli ex studenti lo adoreranno. E ha anche un tempismo perfetto. Il suo contratto è giusto sotto esame. Aspetti che sappiano che non le piace vincere le partite di basket».
Qualcosa sbatté sulla scrivania di fronte a noi facendomi sobbalzare.
Chiusi gli occhi esasperata da quella situazione. Oh mio Dio. Era davvero un bel tipo. E avrebbe anche vinto perché Kincaid non lo avrebbe mai espulso. Non quando avevano come soci degli ex alunni ricchi che si preoccupavano più degli affari sportivi che dell’istruzione.
Bisognava soltanto aspettare che Damon crescesse davvero e realizzasse che il mondo intero non si sarebbe inchinato dinanzi a lui per sempre.
Per me, tuttavia, era solo questione di tempo. Avrei dovuto fare qualcosa prima che la situazione con lui si facesse troppo pesante da sopportare. Era meglio affrontare tutta l’ira della scuola e i giudizi dei compagni per averlo fatto espellere o fare armi e bagagli e tornare a Montreal? Non volevo andarmene. Sicuramente così non avrei mai più rivisto il mio fantasma. Chiunque fosse.
Ma sarebbe diventato insostenibile vivere lì se Damon mi avesse messa con le spalle al muro e io avessi dovuto reagire. Nessuno sarebbe stato dalla mia parte.
Ingoiai l’amaro che avevo in bocca. «Non si preoccupi, signor Kincaid. Lascio la scuola».
«Che cazzo fai», ringhiò Damon. «Si è trattato solo di una piccola divergenza, signor Kincaid. La lascerò in pace. Ha la mia parola».
«La tua parola…», lo prese in giro il preside.
«Non mento», disse Damon, la voce dura per la rabbia. «Starà bene. Lo giuro. Eviterò persino di guardarla per il resto dell’anno, fintanto che frequenterò questa scuola e ci sarà lei a capo. Lo prometto». Poi appiattì il tono della voce. «La squadra di basket continuerà a giocare, lei potrà restare e faremo finta che tutto questo non sia mai successo. Suo padre non deve saperlo. Dico bene, Winter?».
Strinsi i denti, immobile e senza concedergli neanche un grammo della mia attenzione. Stava dicendo la verità? Sarebbe riuscito a starmi alla larga?
Perché io volevo disperatamente restare.
«La lascerò in pace», ribadì Damon vedendo che il preside rimaneva in silenzio.
«Signore», fece una donna dietro di noi.
«Non muovetevi», ci disse Kincaid mentre si dirigeva nell’ufficio principale. La porta rimase aperta e udii delle voci provenire da fuori.
E poi lo sentii accanto a me, il suo respiro caldo appena sopra il mio orecchio.
«Goditi la tua libertà finché dura, Winter Ashby, perché non abbiamo ancora finito», mi ammonì Damon con un filo di voce prendendosi gioco di me. «Cresci, impara cose e divertiti al liceo, ma rimani la bambina che adora stare “nel nero”, perché mi piaci anche lì. E tornerò a riprendermi quello che è mio quando sarai abbastanza cresciuta per cose peggiori».
Mi voltai dall’altra parte, il respiro affannoso.
«E fai la brava. Se vengo a sapere che qualcuno ti ha sfiorata, gli spaccherò la sua cazzo di testa».
La bocca mi si seccò e lo stomaco era in subbuglio mentre le voci all’esterno si facevano più vicine. Il suo calore svanì mentre creava spazio tra noi, giusto un attimo prima che Kincaid tornasse nella stanza.
Accidenti a lui.
L’incontro si concluse, Kincaid rifilò delle parole dure a Damon ma accettò le sue condizioni e promise di stargli addosso. Il preside non si fidava di lui né gli piaceva, ma le idee politiche della comunità di Thunder Bay avrebbero convinto qualsiasi uomo che volesse tenersi stretto lavoro e posizione. Era innanzitutto un dipendente di ogni genitore presente in città, e solo dopo un educatore.
Qualcuno dell’ufficio mi prese e mi condusse a lezione. Erano già rientrati tutti dopo il falso allarme e mentre uscivo dall’ufficio principale – io girai a destra e Damon a sinistra – mi chiesi quanto tempo avessi e quanto peggio si sarebbe comportato quando ci fossimo rivisti.
Perché non era finita.
Lui stava solo aspettando.