Un contrasto fastidioso interviene a disturbare alla radice la teoria del gene egoista: è la competizione fra il gene e il singolo corpo per il titolo di agente fondamentale della vita. Da una parte abbiamo l’immagine affascinante degli autonomi replicatori del DNA che saltano come camosci, liberi e senza impedimenti lungo le generazioni, e che si incontrano temporaneamente dentro macchine da sopravvivenza usa e getta; eliche immortali che si rimescolano ed emergono da una successione infinita di eliche mortali nel corso del loro viaggio verso eternità separate. Dall’altra parte osserviamo i corpi mortali e ciascuno di essi è ovviamente una macchina coerente, integrata e immensamente complicata, con una notevole unità di intenti. L’aspetto di un corpo non è quello di una federazione temporanea e libera di agenti genetici in guerra fra loro che hanno appena il tempo di conoscersi, prima di imbarcarsi in uno spermatozoo o in una cellula uovo per la fase successiva della grande diaspora genetica; esso ha un cervello determinato che coordina un insieme di arti e di organi di senso per raggiungere uno scopo preciso. Il corpo ha l’aspetto di un agente autonomo e si comporta come tale.

In alcuni capitoli di questo libro abbiamo in effetti presentato il singolo organismo come un agente che cerca di massimizzare il suo successo trasmettendo tutti i suoi geni; e abbiamo immaginato i singoli animali che fanno complicati «calcoli economici» dei vantaggi genetici di vari modi di agire. Invece in altri capitoli le motivazioni fondamentali sono state presentate dal punto di vista dei geni. Senza questo punto di vista, non c’è una ragione particolare per cui un organismo dovrebbe «preoccuparsi» del proprio successo riproduttivo e di quello dei propri consanguinei invece che, per esempio, della propria longevità.

Come possiamo risolvere questo paradosso dei due modi di guardare la vita? Ho tentato di farlo nel libro Il fenotipo esteso, quello che, più di ogni altra cosa da me ottenuta nella vita professionale, è il mio orgoglio e la mia gioia. Questo capitolo è un breve distillato di alcuni temi di quel libro, ma quasi mi piacerebbe che smetteste di leggerlo e passaste al Fenotipo esteso.

La selezione darwiniana non opera direttamente sui geni. Il DNA è ricoperto di proteine, avvolto in membrane, riparato dal mondo e invisibile alla selezione naturale. Se la selezione cercasse di scegliere direttamente le molecole di DNA avrebbe difficoltà a trovare un criterio per farlo. Tutti i geni sembrano uguali, proprio come i nastri magnetici sembrano tutti uguali. Le differenze importanti fra i geni emergono soltanto nei loro effetti, il che in genere significa effetti sui processi di sviluppo embrionale e quindi sulla forma e sul comportamento dei corpi. I geni vincenti sono quelli che, nell’ambiente influenzato da tutti gli altri geni presenti nell’embrione, hanno su di esso un effetto benefico. Benefico significa che rende probabile che l’embrione si sviluppi in un essere adulto che avrà successo, un adulto che probabilmente si riprodurrà e passerà quegli stessi geni alle generazioni future. Per indicare l’effetto visibile che un gene, in confronto ai suoi alleli, ha su di un corpo attraverso lo sviluppo si usa il termine tecnico «fenotipo». L’effetto fenotipico di un gene particolare potrebbe essere, diciamo, il colore verde degli occhi. In pratica la maggior parte dei geni ha più di un effetto fenotipico, diciamo occhi verdi e capelli ricci. La selezione naturale favorisce alcuni geni rispetto ad altri non per la natura stessa dei geni, ma per le loro conseguenze, i loro effetti fenotipici.

I darwiniani hanno in genere scelto geni i cui effetti fenotipici beneficiano o penalizzano la sopravvivenza e la riproduzione di corpi interi, tendendo a non considerare i vantaggi forniti al gene stesso. Questo è in parte il motivo per cui di solito non si avverte il paradosso che sta alla radice della teoria. Per esempio un gene può avere successo aumentando la velocità di un predatore. L’intero corpo del predatore, compresi i suoi geni, ha più successo perché corre più veloce. La sua velocità lo aiuta a sopravvivere per avere figli e perciò più copie di tutti i suoi geni, compreso il gene per correre più veloce, vengono passate alla generazione successiva. Qui il paradosso non si nota, perché ciò che è bene per un gene è buono per tutti.

Ma che succede se un gene ha un effetto fenotipico che è buono per se stesso ma cattivo per il resto dei geni del corpo? Non si tratta di un’ipotesi fantastica. Esistono casi noti, per esempio il fenomeno interessantissimo della spinta meiotica. Ricorderete che la meiosi è un tipo speciale di divisione cellulare che dimezza il numero di cromosomi, dando origine a spermatozoi e cellule uovo. La meiosi normale è una lotteria assolutamente imparziale. Di ciascuna coppia di alleli, uno soltanto può essere il fortunato che entra in un particolare spermatozoo o uovo, ma entrambi hanno esattamente la stessa probabilità di entrarvi e se fate una media troverete che metà degli spermatozoi (o delle cellule uovo) contiene uno degli alleli e l’altra metà l’altro. La meiosi è imparziale, come lanciare una moneta. Ma, sebbene proverbialmente il lancio della moneta sia considerato casuale, anche questo è un evento fisico influenzato da una moltitudine di circostanze: il vento, la forza con cui si lancia la moneta e così via. Anche la meiosi è un processo fisico e può essere influenzato dai geni. Cosa succede se si forma un gene mutante che per caso ha un effetto non su qualcosa di ovvio, come il colore degli occhi o i riccioli dei capelli, ma sulla meiosi stessa? Supponete che riesca a influenzare la meiosi in modo tale che lui, il gene mutato, ha più probabilità del suo allele di finire nell’uovo. Questi geni esistono e si chiamano distorsori della segregazione. Sono geni diabolicamente semplici; quando si forma per mutazione un distorsore di segregazione, questo si diffonde inesorabilmente nella popolazione a spese del suo allele. È un fenomeno noto come spinta meiotica e avverrà anche se gli effetti sul benessere del corpo e su quello di tutti gli altri suoi geni sono disastrosi.

In questo libro abbiamo sempre tenuto conto della possibilità che i singoli organismi «barino» ai danni dei loro compagni sociali. Qui stiamo parlando di singoli geni che truffano altri geni con i quali hanno un corpo in comune. Il genetista James Crow li ha chiamati «geni che sconfiggono l’organismo». Uno dei distorsori di segregazione meglio noti è il cosiddetto gene t del topo. Quando un topo ha due geni t o muore giovane o è sterile e perciò si dice che t è «letale» allo stato omozigote. Se un topo maschio ha soltanto un gene t sarà un topo sano e normale, eccetto che per un aspetto molto importante: se si esaminano gli spermatozoi di un maschio di questo tipo si scopre che fino al 95 per cento di essi contiene il gene t e soltanto il 5 per cento contiene l’allele normale. Siamo quindi di fronte a una grande distorsione del normale rapporto 50:50 che ci aspetteremmo di trovare. Tutte le volte che in una popolazione naturale si forma per mutazione un allele t, questo si diffonde immediatamente come un incendio incontrollato. E come potrebbe essere altrimenti, quando ha un così grande vantaggio nella lotteria meiotica? Esso si diffonde così rapidamente che, in breve, un gran numero di individui eredita il gene t in doppia dose (cioè, da entrambi i genitori). Questi individui muoiono o sono sterili ed è probabile che in breve la popolazione locale si estingua. Esistono prove che popolazioni naturali di topi si sono estinte in passato per epidemie di geni t.

Non tutti i distorsori di segregazione hanno effetti collaterali così distruttivi. Tuttavia, la maggior parte di essi ha almeno qualche conseguenza avversa. (Quasi tutti gli effetti collaterali genetici sono cattivi e una nuova mutazione normalmente si diffonderà soltanto se i suoi effetti negativi sono superati da quelli positivi. Se entrambi gli effetti, negativi e positivi, si applicano a tutto il corpo, l’effetto netto può ancora essere buono per il corpo. Ma se gli effetti negativi sono sul corpo e quelli buoni soltanto sul gene, dal punto di vista del corpo l’effetto netto è totalmente negativo.) A dispetto dei suoi effetti collaterali deleteri, se si forma per mutazione un distorsore della segregazione sicuramente tenderà a diffondersi nella popolazione. La selezione naturale (che, dopo tutto, funziona a livello genetico) favorisce il distorsore, anche se i suoi effetti a livello dell’individuo saranno probabilmente negativi.

Sebbene esistano, i distorsori della segregazione non sono molto comuni. Potremmo chiederci perché non lo siano, che sarebbe un altro modo di chiedersi perché il processo della meiosi sia normalmente imparziale, almeno quanto lo è il lancio di una moneta. Ma, quando avremo capito perché gli organismi esistono, scopriremo che la risposta verrà da sé.

L’organismo individuale è qualcosa la cui esistenza viene data per scontata dalla maggior parte dei biologi, probabilmente perché le sue parti sono perfettamente integrate. Le domande sulla vita sono convenzionalmente domande sugli organismi: i biologi si chiedono, per esempio, perché gli organismi si comportino in questo o quel modo, oppure perché gli organismi si raggruppino in società, mentre non si chiedono – anche se dovrebbero – perché innanzitutto la materia vivente si raggruppi in organismi. Perché il mare non è ancora un campo di battaglia primordiale di replicatori liberi e indipendenti? Perché i replicatori ancestrali si sono uniti insieme per fare e abitare robot semoventi e perché questi robot – corpi individuali, voi e io – sono così grandi e complicati?

Per molti biologi è difficile anche accorgersi che questo problema esiste. Alcuni si spingono fino a vedere il DNA come un dispositivo usato dagli organismi per riprodursi, proprio come l’occhio è un dispositivo usato dagli organismi per vedere! I lettori di questo libro riconosceranno che questo atteggiamento è profondamente sbagliato, anzi è un ribaltamento completo della verità. Riconosceranno anche che l’atteggiamento alternativo, la visione della vita del gene egoista, ha dentro di sé un grave problema, il problema – quasi l’opposto – del perché gli organismi esistano, specialmente con forme così grandi e coerentemente finalizzate da fuorviare i biologi fino al ribaltamento completo della verità. Per risolvere questo problema dobbiamo cominciare a rimuovere dalla nostra mente quel vecchio modo di pensare che ci fa dare per scontati gli organismi; altrimenti sarà una questione di principio. Lo strumento per liberarci dei luoghi comuni è l’idea che chiamo del fenotipo esteso ed è di questo e del suo significato che a questo punto ci occuperemo.

Per effetti fenotipici di un gene si intendono normalmente tutti gli effetti che il gene produce sul corpo in cui si trova. Questa è la definizione convenzionale. Ora però vedremo che gli effetti fenotipici di un gene devono essere considerati come tutti gli effetti che esso ha sul mondo. Può essere che gli effetti di un gene, in pratica, si rivelino confinati alla successione di corpi in cui il gene si trova. Ma, se è così, sarà semplicemente un dato di fatto, qualcosa che non dovrebbe rientrare nella nostra definizione. Bisogna comunque ricordare che gli effetti fenotipici di un gene sono gli strumenti che gli permettono di trasferirsi alla generazione successiva. Tutto quello che aggiungerò è che questi strumenti hanno una portata che va al di là dei confini del singolo corpo. Che cosa può significare in pratica dire che un gene ha un effetto fenotipico esteso sul mondo al di fuori del corpo in cui si trova? Gli esempi che saltano alla mente sono oggetti come le dighe dei castori, i nidi degli uccelli e quelli dei tricotteri.

I tricotteri sono insetti marroni, scialbi e poco caratteristici, che volano sui fiumi e per lo più passano inosservati. Questo quando sono adulti; prima, però, hanno una vita larvale abbastanza lunga che trascorrono sul fondo dei fiumi. E di queste larve si può dire tutto, ma non che sono scialbe: si tratta anzi di creature che sono fra le più notevoli sulla faccia della Terra. Usando una colla che esse stesse producono e servendosi di materiali che raccolgono sul fondo, costruiscono con molta abilità case di forma tubulare. La casa è mobile e la larva se la trascina dietro, come il guscio di una lumaca o di un paguro, soltanto che l’animale la costruisce invece di accrescerla o trovarla. Come materiale da costruzione, alcune specie di tricotteri usano bastoncini, altre frammenti di foglie morte, altre piccole conchiglie di lumaca. Ma forse le case più impressionanti sono quelle costruite in pietra. La larva sceglie le sue pietre con molta cura, scartando quelle che sono troppo grosse o troppo piccole per il buco nella parete destinato alla corrente, arrivando a ruotare ogni pietra finché non si incastra perfettamente.

Perché questo fenomeno ci impressiona così tanto? Se ci sforziamo di pensare in modo distaccato, dovremmo essere più impressionati dall’architettura del suo occhio o dell’articolazione di una zampa, piuttosto che dalla struttura comparativamente modesta della sua casa di pietre. Dopo tutto, l’occhio e l’articolazione sono molto più complicati e «disegnati» della casa. Eppure, forse perché l’occhio e l’articolazione si sviluppano nello stesso modo dei nostri, secondo un processo di costruzione per cui noi, dentro il ventre materno, non pretendiamo alcun credito, siamo illogicamente più impressionati dalla casa.

Avendo cominciato una digressione, non riesco a resistere alla tentazione di continuare. Per quanto possiamo essere impressionati dalla casa della larva, lo siamo tuttavia, paradossalmente, meno di quanto lo saremmo da imprese di animali più vicini a noi. Provate a immaginare i titoli dei giornali se un biologo marino scoprisse una specie di delfini che tessono grandi e complesse reti da pesca con un diametro di venti delfini! Eppure diamo per scontate le ragnatele, considerandole come un fastidio in casa piuttosto che come una delle meraviglie del mondo. E pensate a cosa succederebbe se Jane Goodall ritornasse dal fiume Gombe con fotografie di scimpanzé selvaggi che si costruiscono case ben isolate e con un buon tetto, usando pietre scelte con cura e perfettamente cementate! Eppure le larve, che fanno precisamente la stessa cosa, non interessano più di tanto. Spesso si dice, quasi in difesa di questo doppio metro, che i ragni e le larve eseguono soltanto per «istinto». E con ciò? In un certo senso, questo li rende ancora più impressionanti.

Ma ora ritorniamo all’argomento principale. La casa delle larve di tricotteri, nessuno può dubitarne, è un adattamento evoluto per selezione darwiniana, che ne è stato favorito in un modo molto simile a quello che ha promosso il duro guscio delle aragoste. Questo rappresenta una protezione per il corpo ed è quindi un vantaggio per l’intero organismo e tutti i suoi geni. Ma abbiamo appena imparato a vedere i vantaggi per l’organismo come incidentali, per quanto riguarda la selezione naturale; quelli che in realtà contano sono i vantaggi per quei geni che danno al guscio le sue caratteristiche protettive. Nel caso dell’aragosta è la solita storia: il guscio fa ovviamente parte del suo corpo. Ma cosa si può dire della casa della larva?

La selezione naturale ha favorito quei geni ancestrali che facevano costruire ai loro possessori case efficienti. I geni hanno lavorato sul comportamento, presumibilmente influenzando lo sviluppo embrionale del sistema nervoso, ma ciò che un genetista vedrebbe in realtà è il loro effetto sulla forma e sulle altre proprietà della casa. Il genetista dovrebbe riconoscere i geni «della forma della casa» esattamente nello stesso senso in cui vi sono geni, diciamo, della forma delle gambe. Bisogna ammettere che nessuno ha studiato la genetica delle case delle larve. Per farlo bisognerebbe registrare i pedigree di larve tenute in cattività, e allevarle non è facile. Ma non è necessario studiare la genetica per essere sicuri che ci sono, o almeno c’erano, geni che influenzano le differenze fra le case delle larve. È sufficiente che ci sia una buona ragione per credere che la casa sia un adattamento darwiniano. In questo caso devono esserci stati geni che controllavano le variazioni nelle case, perché la selezione non può produrre adattamenti a meno che non vi siano differenze ereditarie fra le quali scegliere.

Sebbene i genetisti possano pensare che sia un’idea strana, è invece sensato parlare di geni della forma delle pietre, delle dimensioni delle pietre, della durezza delle pietre e così via. Qualunque genetista che faccia obiezioni a questo linguaggio dovrebbe, per essere coerente, obiettare anche quando si parla di geni del colore degli occhi, geni della rugosità dei piselli e così via. Una ragione per cui l’idea può sembrare strana nel caso delle pietre è che queste non sono un materiale vivente. Inoltre, l’influenza dei geni sulle proprietà delle pietre sembra particolarmente indiretta. Un genetista potrebbe voler sostenere che l’influenza diretta dei geni è sul sistema nervoso che media il comportamento di scelta delle pietre e non sulle pietre stesse. Ma io invito questo genetista a pensare attentamente a ciò che significa parlare di geni che esercitano un’influenza sul sistema nervoso. L’unica cosa che i geni possono influenzare direttamente è, di fatto, la sintesi delle proteine. L’influenza di un gene su di un sistema nervoso o sul colore degli occhi o sulla rugosità dei piselli è sempre indiretta. Il gene determina la sequenza di una proteina che influenza X che influenza Y che influenza Z che infine influenza la rugosità del seme o le connessioni cellulari del sistema nervoso. La casa delle larve dei tricotteri è soltanto un’ulteriore estensione di questo tipo di sequenza. La durezza di una pietra è un effetto fenotipico esteso dei geni della larva. Se è legittimo parlare di un gene che influenza la rugosità di un pisello o il sistema nervoso di un animale (e tutti i genetisti pensano che lo sia) allora deve anche essere legittimo parlare di un gene che influenza la durezza delle pietre nella casa di una larva. È un pensiero stupefacente, non è vero? Eppure il ragionamento è ineccepibile.

Siamo pronti al punto successivo dell’argomentazione: i geni di un organismo possono avere effetti fenotipici estesi sul corpo di un altro organismo. Le case delle larve dei tricotteri ci hanno aiutato nel passaggio precedente e i gusci delle lumache ci aiuteranno in questo. Il guscio ha per una lumaca lo stesso ruolo che la casa ha per la larva: è secreto dalle sue cellule e quindi un genetista convenzionale non avrebbe nulla in contrario a parlare di geni delle caratteristiche del guscio, come il suo spessore. Ma poi si scopre che lumache parassitate da certi tipi di vermi piatti hanno il guscio più spesso. Cosa può significare questo ispessimento? Se le lumache parassitate avessero il guscio più sottile, lo spiegheremmo tranquillamente come un ovvio effetto debilitante sulla costituzione della lumaca. Ma il guscio più spesso? Presumibilmente, un guscio del genere protegge meglio la lumaca; e dunque è come se in realtà i parassiti aiutassero il loro ospite migliorandone il guscio. Ma è così?

Approfondiamo la questione. Se per le lumache i gusci più spessi sono davvero migliori, perché non li fanno così comunque? La risposta probabilmente è che si tratta di una questione di economia. Per la lumaca fare il guscio è costoso, perché richiede energia, calcio e altre sostanze chimiche che devono essere estratte dal cibo che è difficile da ottenere. Tutte queste risorse, se non fossero spese per fare il guscio, potrebbero essere spese per qualcosa d’altro, ad esempio per dei figli in più. Una lumaca che impiega un mucchio di risorse per fare un guscio ultraspesso compra sicurezza per il proprio corpo; ma a quale costo? Vivrà più a lungo, ma avrà minor successo nella riproduzione e forse non riuscirà a passare i suoi geni. E fra i geni che non riusciranno a passare ci saranno i geni che predispongono a fare un guscio spesso. In altre parole, è possibile che un guscio sia troppo spesso, oltre che (cosa più ovvia) troppo sottile. Quindi, quando un verme fa secernere alla lumaca un guscio ultraspesso, il verme non sta facendo un favore alla lumaca a meno che non sia lui a sopportare il costo economico dell’ispessimento del guscio. E possiamo scommettere tranquillamente che il verme non è così generoso. Esso esercita sulla lumaca qualche influenza chimica nascosta che la obbliga a deviare dal suo spessore «preferito» di guscio. Così facendo può prolungarne la vita, ma non aiuta i suoi geni.

Che cosa ci guadagna il verme? Perché lo fa? La mia ipotesi è la seguente. Sia i geni della lumaca che quelli del verme possono avere un guadagno dalla sopravvivenza del corpo della lumaca, a parità di altre condizioni. Ma la sopravvivenza non è la stessa cosa della riproduzione e deve quindi esserci un compromesso. Mentre i geni della lumaca sono in una posizione tale da guadagnare dalla riproduzione della lumaca, i geni del verme non lo sono, perché nessun dato verme si aspetta in modo particolare che i suoi geni verranno ospitati dalla prole del suo ospite attuale. Potrebbe succedere, ma potrebbe succedere anche ai geni dei suoi rivali vermi. Dato che la longevità della lumaca deve essere comprata a scapito del successo riproduttivo della lumaca stessa, i geni del verme sono «felici» di far pagare quel costo alla lumaca, poiché non hanno alcun interesse nel fatto che la lumaca si riproduca. I geni della lumaca invece non sono felici di pagare quel costo, poiché il loro futuro a lungo termine dipende dal fatto che la lumaca si riproduca. Perciò la mia ipotesi è che i geni del verme esercitino un’influenza sulle cellule della lumaca che secernono il guscio, un’influenza che è vantaggiosa per loro ma costosa per i geni della lumaca. Questa teoria potrebbe essere confermata anche se non lo è ancora stata.

Siamo ora in una posizione che ci consente di generalizzare la lezione delle larve. Se ho ragione per ciò che riguarda l’operato dei vermi, ne segue che possiamo parlare legittimamente dei loro geni come di agenti che influenzano il corpo delle lumache. È come se i geni agissero al di fuori del «proprio» corpo e manipolassero il mondo esterno. Come nel caso delle larve di tricotteri, questo linguaggio potrebbe mettere a disagio i genetisti che sono abituati a concepire gli effetti dei geni come se fossero limitati al corpo in cui si trovano. Ma, come nel caso delle larve, un’osservazione attenta di ciò che i genetisti vogliono dire quando affermano che un gene ha «effetti» dimostra che questo disagio è fuori luogo. Dobbiamo accettare soltanto che il cambiamento nel guscio delle lumache sia un adattamento ai vermi. Se lo è, deve essere derivato per selezione darwiniana di geni dei vermi. Abbiamo dimostrato che gli effetti fenotipici di un gene si possono estendere non soltanto a oggetti inanimati come le pietre ma anche ad «altri» corpi viventi.

La storia delle lumache e delle larve è soltanto l’inizio. È noto da molto tempo che parassiti di tutti i tipi esercitano influenze affascinanti e insidiose sui loro ospiti. Una specie di protozoi microscopici parassiti chiamati Nosema, che infestano le larve dei parassiti della farina appartenenti al genere Tribolium, ha «scoperto» il modo di fabbricare un composto chimico che ha un effetto molto particolare sui loro ospiti. Come altri insetti, questi secernono un ormone chiamato ormone giovanile che mantiene le larve nel loro stato: il normale cambiamento da larva ad adulto è causato dalla cessazione della produzione dell’ormone giovanile. Il parassita Nosema è riuscito a sintetizzare questo ormone (o meglio, un analogo chimico molto simile). Milioni di parassiti Nosema si uniscono a produrre dosi massicce dell’ormone giovanile nel corpo della larva del Tribolium, impedendole così di trasformarsi in adulto: essa quindi continua a crescere, finendo con il diventare una larva gigante che pesa più del doppio di un adulto normale. Niente di buono per la propagazione dei geni del Tribolium, ma una cornucopia per i parassiti Nosema. Il gigantismo delle larve è un effetto fenotipico esteso dei geni dei protozoi.

E adesso esaminiamo un caso che provoca più ansietà freudiane della storia delle larve Peter Pan: i parassiti castranti! I granchi sono parassitati da una creatura chiamata Sacculina. La Sacculina infesta i cirripedi, al cui genere appartiene, anche se a vederla la si direbbe un parassita vegetale. Essa insinua in profondità un elaborato sistema di radici nei tessuti dello sfortunato granchio e succhia nutrimento dal suo corpo. Probabilmente non è un caso che fra i primi organi a essere attaccati ci siano i testicoli e le ovaie del granchio, perché il parassita risparmia gli organi di cui il granchio ha bisogno per sopravvivere, non però quelli riproduttivi. Il granchio è a tutti gli effetti castrato dal parassita. Come gli animali da carne, il granchio così ridotto sposta energie e risorse dalla riproduzione al proprio corpo, diventando una ricca preda del parassita a spese della propria riproduzione. Una storia molto simile a quella del Nosema nel Tribolium e del verme nella lumaca. In tutti e tre i casi i cambiamenti operati nell’individuo ospitante, se accettiamo che si tratti di adattamenti darwiniani a beneficio del parassita, devono essere considerati effetti fenotipici estesi dei geni del parassita. I geni, allora, si spingono al di fuori del «loro» corpo per influenzare fenotipi di altri corpi.

Sotto molti aspetti gli interessi dei geni del parassita e di quelli dell’ospite possono coincidere. Dal punto di vista del gene egoista possiamo pensare sia ai geni del verme sia a quelli della lumaca come a parassiti del corpo di questa. Entrambi traggono un vantaggio dall’essere circondati dallo stesso rivestimento protettivo, sebbene non siano d’accordo sullo spessore esatto del guscio. Questa divergenza deriva fondamentalmente dal fatto che per lasciare il corpo della lumaca ed entrare in un altro essi non adottano lo stesso sistema: i geni della lumaca si servono degli spermatozoi o delle cellule uovo, mentre i geni del verme non se ne servono (ma non entreremo nei dettagli del loro sistema, che sono molto complicati).

Secondo me la domanda più importante da porsi a proposito di qualunque parassita è questa: i suoi geni sono trasmessi alle generazioni successive per mezzo degli stessi veicoli usati dai geni dell’ospite? Se non lo sono, mi aspetto che il parassita danneggi l’ospite, in un modo o nell’altro; ma se invece lo sono, il parassita farà tutto ciò che può per aiutare l’ospite, non solo a sopravvivere ma anche a riprodursi. Nel corso dell’evoluzione cesserà di essere un parassita, coopererà con l’ospite e alla fine potrà anche fondersi con i suoi tessuti e diventare del tutto irriconoscibile come parassita. Forse, come ho suggerito nel cap. 10, le nostre cellule hanno affrontato problemi simili molto tempo fa e noi tutti siamo derivati da antiche fusioni di parassiti.

Guardate cosa succede quando i geni di un parassita e di un ospite hanno la stessa uscita in comune. Gli insetti che scavano gallerie nel legno (Xyleborus ferrugineus) sono parassitati da batteri che non soltanto vivono nel corpo del loro ospite, ma ne usano anche le uova come mezzo di trasporto dentro un ospite nuovo. I geni di questi parassiti perciò traggono dalle circostanze future lo stesso vantaggio dei geni dell’ospite. Le due serie di geni probabilmente si «metteranno insieme» esattamente per le stesse ragioni per cui si mettono insieme i geni di un singolo organismo. Non ha importanza che alcuni di essi siano «geni dell’insetto» mentre altri sono «geni batterici». Entrambe le serie di geni sono «interessate» alla sopravvivenza dello Xyleborus e alla propagazione delle sue uova, perché entrambe «vedono» le uova come passaporto per il futuro. Così i geni batterici hanno un destino in comune con i geni del loro ospite e nella mia interpretazione dobbiamo aspettarci che i batteri cooperino con lui in tutti gli aspetti della vita.

A questo punto la parola «cooperare» è un po’ debole. Il servizio che i batteri svolgono per lo Xyleborus non potrebbe essere più intimo. Questi insetti sono aplodiploidi, come le api e le formiche (vedi capitolo 10): se un uovo viene fecondato da un maschio si sviluppa sempre in una femmina, mentre un uovo non fecondato produce sempre un maschio. I maschi, in altre parole, non hanno padre. Le uova che danno origine ai maschi si sviluppano spontaneamente, senza essere penetrate da uno spermatozoo. Ma, al contrario delle uova delle api e delle formiche, le uova dello Xyleborus hanno bisogno di essere penetrate da qualcosa. Ed è a questo punto che entrano in azione i batteri, i quali pungono le uova non fecondate attivandole e facendole sviluppare in un maschio. Questi batteri sono proprio il tipo di parassita che, come dicevo, dovrebbe cessare di essere un parassita, proprio perché viene trasmesso nelle uova dell’ospite insieme ai geni «propri» dell’ospite stesso. Alla fine, i loro corpi probabilmente scompariranno e la fusione con il corpo dell’ospite sarà completa.

Un segno rivelatore si può ancora trovare oggi in alcune specie di idre, piccoli animali sedentari tentacolati, simili ad anemoni d’acqua dolce. I loro tessuti tendono a essere parassitati da alghe. Nella specie Hydra vulgaris e Hydra attenuata, le alghe sono veri parassiti delle idre e le fanno ammalare. Nella Chlorohydra vindissima, invece, le alghe non sono mai assenti dai tessuti delle idre e danno un utile contributo al loro benessere, fornendo ossigeno. Il punto interessante è che, come ci aspetteremmo, nel caso della Chlorohydra le alghe si trasmettono alla generazione successiva per mezzo delle uova delle loro ospiti, mentre nelle due altre specie non lo fanno. Gli interessi dei geni delle alghe e di quelli della Chlorohydra coincidono, perché entrambe sono interessate a fare tutto ciò che è in loro potere per aumentare la produzione delle uova di Chlorohydra. Ma i geni delle altre due specie non «sono d’accordo» con i geni delle loro alghe, o per lo meno non altrettanto. Entrambe le serie di geni possono essere interessati alla sopravvivenza dei corpi delle idre, ma soltanto i geni dell’idra stessa danno importanza alla sua riproduzione. Così le alghe, invece di evolvere verso una collaborazione pacifica, restano attaccate all’ospite come parassiti debilitanti. Il punto chiave, lo ripeto, è che un parassita, i cui geni aspirano allo stesso destino dei geni del suo ospite, divide tutti gli interessi del suo ospite e cesserà alla fine di comportarsi da parassita.

Destino, in questo caso, significa generazioni future. I geni della Chlorohydra e i geni delle alghe, i geni dello Xyleborus e dei batteri possono arrivare alle generazioni future soltanto per mezzo delle uova dell’ospite. Perciò, qualunque «calcolo» di politica ottimale i geni del parassita facciano in qualunque frangente della vita, porteranno allo stesso risultato, o quasi, dei calcoli fatti dai geni dell’ospite. Nel caso della lumaca e del suo verme parassita, abbiamo deciso che non erano d’accordo sullo spessore ottimale del guscio. Nel caso dello Xyleborus e dei suoi batteri, ospite e parassita saranno d’accordo sulla lunghezza delle ali e su qualunque altro aspetto del corpo dell’ospite stesso. Possiamo fare queste previsioni anche senza conoscere alcun dettaglio degli scopi per cui l’insetto usa le ali o qualunque altra parte del corpo. Basta partire dal ragionamento che sia i geni dello Xyleborus sia quelli dei batteri faranno tutto ciò che possono per modificare gli eventi futuri in modo che siano favorevoli alla propagazione delle uova dell’insetto.

Possiamo portare questo argomento alle sue logiche conclusioni e applicarlo ai nostri geni normali. I nostri geni cooperano fra loro non perché sono nostri, ma perché condividono la stessa via d’uscita – spermatozoi o cellule uovo – verso il futuro. Se un gene qualunque di un organismo, come siamo noi, potesse scoprire un modo di diffondersi indipendente dalla via convenzionale degli spermatozoi o delle uova, la userebbe e diventerebbe meno cooperativo. Ciò perché si troverebbe in una posizione tale da trarre vantaggio da situazioni future diverse da quelle utili agli altri geni del corpo. Abbiamo già visto esempi di geni che modificano la meiosi a proprio favore. Forse ci sono anche geni che sono sfuggiti del tutto ai «soliti canali» spermatozoo/uovo e hanno inventato delle nuove vie.

Ci sono frammenti di DNA che non sono incorporati nei cromosomi, ma vagano liberi e si moltiplicano all’interno delle cellule, specialmente quelle batteriche. Sono noti sotto vari nomi, come viroidi o plasmidi. Un plasmide è ancora più piccolo di un virus e consiste in genere di pochi geni. Alcuni plasmidi sono capaci di integrarsi perfettamente in un cromosoma. L’integrazione è così perfetta che non è possibile vedere il punto di unione: il plasmide diventa indistinguibile dal resto del cromosoma. Gli stessi plasmidi possono anche staccarsi di nuovo e uscire dal cromosoma. Questa capacità del DNA di staccarsi e di attaccarsi, di saltare dentro e fuori i cromosomi all’istante è uno dei fatti più eccitanti che sono stati scoperti dopo che è uscita la prima edizione di questo libro. Infatti le ultime scoperte sui plasmidi possono essere considerate come bellissime prove a favore delle congetture presentate in questo libro nel cap. 10 (che all’epoca sembravano un po’ azzardate). Da molti punti di vista non ha in realtà importanza se questi frammenti sono comparsi come parassiti invasori o come ribelli che si sono staccati, perché il loro comportamento probabile sarà lo stesso. Parlerò di un frammento staccato per chiarire il mio pensiero.

Consideriamo un tratto ribelle di DNA umano che sia capace di tagliarsi via dal suo cromosoma, di galleggiare liberamente nella cellula, forse moltiplicarsi in molte copie e alla fine inserirsi in un altro cromosoma. Quali vie alternative non ortodosse verso il futuro potrebbe sfruttare un replicatore ribelle di questo tipo? Noi perdiamo continuamente cellule della pelle e infatti buona parte della polvere di casa consiste di cellule morte e cadute. Probabilmente respirando inaliamo continuamente queste cellule, nostre e degli altri. Se ci si passa un’unghia all’interno della bocca vi rimangono attaccate centinaia di cellule vive. I baci e le carezze trasferiscono sicuramente moltitudini di cellule da una persona all’altra. Un tratto di DNA ribelle potrebbe scroccare un passaggio in una di queste cellule. Se i geni scoprissero un modo non ortodosso per passare in un altro corpo (oltre alla via ortodossa di spermatozoi e uova, o in sua vece), la selezione naturale favorirebbe il loro opportunismo e lo migliorerebbe. Per quanto riguarda il sistema che potrebbero usare, non c’è ragione per cui debba essere diverso dai sistemi – facilmente prevedibili per un teorico del gene egoista/fenotipo esteso – usati dai virus.

Quando abbiamo un raffreddore o la tosse, normalmente pensiamo ai relativi disturbi come a fastidiosi sottoprodotti dell’attività del virus. Ma in certi casi sembra più probabile che siano provocati deliberatamente dal virus per aiutarsi a viaggiare da un ospite all’altro. Non contento di essere semplicemente respirato nell’atmosfera, il virus ci fa starnutire o tossire violentemente. Il virus della rabbia viene trasmesso con la saliva quando un animale ne morde un altro. Nei cani, uno dei sintomi della malattia è che animali normalmente pacifici e amichevoli diventano feroci e mordaci, con la schiuma alla bocca; e peggio ancora, invece di restare relativamente vicini a casa come i cani normali, si trasformano in vagabondi irrequieti che propagano il virus a lunga distanza. È stato persino suggerito che il ben noto sintomo dell’idrofobia spinge il cane a scuotere via la schiuma dalla bocca, e con la schiuma il virus. Non conosco nessuna prova diretta che dimostri che le malattie trasmesse sessualmente aumentino la libido dei malati, ma direi che varrebbe la pena di controllare. Certamente almeno un presunto afrodisiaco, la mosca spagnola, si dice che funzioni inducendo un prurito... e provocare prurito è proprio il tipo di cosa di cui i virus sono capaci.

Il motivo per cui si confronta il DNA umano ribelle con virus parassiti invasori è che fra di essi non c’è nessuna differenza reale importante. I virus potrebbero davvero essersi originati come un insieme di geni fuorusciti. Se proprio li si volesse distinguere, bisognerebbe parlare di geni che passano da un corpo all’altro usando la via ortodossa degli spermatozoi e delle uova e geni che passano da un corpo all’altro tramite vie non ortodosse «collaterali». Entrambe le classi possono includere geni che si sono originati come geni cromosomici e geni che si sono originati come parassiti invasori esterni. O forse, come ho ipotizzato nel cap. 10 tutti i geni cromosomici «propri» dovrebbero essere considerati parassiti l’uno dell’altro. La differenza importante fra le mie due classi di geni sta nelle circostanze divergenti da cui traggono beneficio nel futuro. Un virus del raffreddore e un gene fuoruscito da un cromosoma umano sono d’accordo nel «volere» che il loro ospite starnutisca; un gene cromosomico ortodosso e un virus trasmesso sessualmente sono d’accordo nel volere che il loro ospite copuli. È sconcertante ipotizzare che entrambi vogliano che l’ospite sia sessualmente attraente. Ancora di più, un gene cromosomico ortodosso e un virus che è trasmesso all’interno dell’uovo dell’ospite sarebbero d’accordo nel volere che l’ospite riesca non soltanto nel corteggiamento ma in ogni aspetto della vita, fino a essere un genitore e persino un nonno leale e premuroso.

La larva dei tricotteri vive dentro la sua casa e i parassiti che ho discusso fino a ora vivono all’interno del loro ospite. I geni, allora, sono fisicamente vicini ai loro effetti fenotipici estesi, vicini quanto lo sono i geni in genere ai loro fenotipi convenzionali. Ma i geni possono agire a distanza; i fenotipi estesi possono esserlo molto. Uno di quelli che, a quanto ricordo, arrivano più lontano è un fenotipo che attraversa un lago. Come la ragnatela di un ragno o la casa di una larva, la diga di un castoro è fra le vere meraviglie del mondo. Non è del tutto certo quale sia il suo significato darwiniano, ma certamente deve averne uno se i castori spendono così tanto tempo ed energie per costruirla. Il lago che crea probabilmente serve a proteggere l’abitazione del castoro dai predatori e fornisce anche una comoda via d’acqua per trasportare tronchi e per viaggiare. I castori sfruttano il galleggiamento per la stessa ragione per cui le compagnie di legname canadesi usano i fiumi e i mercanti di carbone del diciottesimo secolo usavano i canali. Qualunque ne sia il beneficio, un lago di castori è un aspetto caratteristico del panorama. È un fenotipo non meno dei denti e della coda dei castori e si è evoluto sotto l’influenza della selezione darwiniana. Poiché questa deve avere una variazione genetica sulla quale lavorare, la scelta nel caso della diga deve essere stata fra buoni laghi e laghi meno buoni. La selezione ha favorito i geni dei castori che facevano laghi buoni per trasportare alberi, esattamente come ha favorito geni che facevano buoni denti per abbatterli. I laghi dei castori sono effetti fenotipici estesi dei geni dei castori e possono estendersi su parecchie centinaia di metri. Veramente una lunga portata!

Anche i parassiti non sono costretti a vivere dentro i loro ospiti: i loro geni vi si possono esprimere anche a distanza. I piccoli dei cuculi non vivono dentro i pettirossi, né succhiano loro il sangue o divorano i tessuti, eppure non esitiamo a considerarli parassiti. L’adattamento dei cuculi a manipolare il comportamento dei genitori adottivi può essere considerato come l’azione di un fenotipo esteso a distanza dei geni del cuculo.

È facile provare simpatia per i genitori adottivi che vengono indotti con l’inganno a incubare le uova del cuculo. Anche i collezionisti di uova vengono ingannati dalla straordinaria rassomiglianza delle uova del cuculo con quelle di uccelli di specie diverse (razze diverse di cuculi femmine si specializzano in specie ospiti diverse). Ciò che è più difficile da comprendere è il successivo comportamento dei genitori adottivi verso i giovani cuculi che stanno ormai mettendo le piume. Il cuculo è in genere molto più grande, in alcuni casi grottescamente più grande, dei suoi «genitori». Sto guardando una fotografia di uno di questi genitori, così piccolo in confronto al suo mostruoso figlio adottivo che deve salirgli sulla schiena per poterlo nutrire. In questo caso sentiamo meno simpatia per l’ospite: ci meravigliamo della sua stupidità e della sua credulità. Qualunque imbecille sarebbe in grado di vedere che c’è qualcosa che non va in un figlio così.

Io credo che i piccoli del cuculo debbano fare qualcosa di più che semplicemente «ingannare» i loro ospiti, qualcosa di più che fingere semplicemente di essere ciò che non sono. Sembra che agiscano sul sistema nervoso dell’ospite in un modo simile a una droga. Una cosa del genere non è difficile da comprendere, anche per chi non ha esperienza di droghe pesanti. Un uomo può essere stimolato, anche fino all’erezione, da una fotografia del corpo di una donna. L’uomo non è «ingannato» a pensare che il disegno stampato sia davvero una donna; sa bene che sta guardando soltanto dell’inchiostro su carta, eppure il suo sistema nervoso risponde alla fotografia come se fosse una donna reale. Possiamo trovare irresistibili le attrattive di un membro particolare dell’altro sesso, anche se il buon senso della parte migliore di noi ci dice che una relazione con quella persona non è nell’interesse a lungo termine di nessuno. La stessa cosa può essere vera per l’irresistibile attrazione verso un alimento non sano. L’ospite del cuculo probabilmente non è conscio dei suoi interessi a lungo termine e quindi è ancora più facile capire che il suo sistema nervoso possa trovare irresistibili certi stimoli.

La gola rossa di un piccolo cuculo è così invitante che non è raro per un ornitologo vedere un uccello che lascia cadere del cibo nella bocca di un piccolo cuculo che si trova nel nido di qualcun altro! Un uccello sta volando verso casa portando del cibo per il suo piccolo. Improvvisamente, con la coda dell’occhio, vede la supergola rossa di un piccolo cuculo nel nido di una specie completamente diversa e devia verso il nido estraneo, dove lascia cadere nella bocca del cuculo il cibo che era destinato al suo piccolo. La «teoria dell’irresistibilità» si adatta al pensiero dei primi ornitologi tedeschi che si riferivano ai genitori adottivi come «tossicodipendenti» e al piccolo cuculo come la loro «droga». È onesto aggiungere che questo tipo di linguaggio non è accolto così favorevolmente da alcuni ricercatori moderni. Ma indubbiamente se assumiamo che la gola del cuculo sia un potente superstimolo simile a una droga, diventa molto più facile spiegare ciò che succede, e anche simpatizzare con il comportamento del piccolo genitore appollaiato sulla schiena del suo mostruoso figliolo. Il padre adottivo non è stupido: «ingannato» non è la parola giusta da usare. Le sue reazioni nervose sono determinate da una forza altrettanto irresistibile quanto quella che domina un tossicodipendente senza speranza o un animale da esperimento a cui uno scienziato pianti degli elettrodi nel cervello.

Ma anche se ora sentiamo una maggiore simpatia personale per il genitore adottivo manipolato possiamo ancora chiederci perché la selezione naturale abbia permesso ai cuculi di cavarsela. Perché il sistema nervoso degli ospiti non ha sviluppato una resistenza alla droga della gola rossa? Forse la selezione non ha ancora avuto tempo di completare il lavoro. Forse i cuculi hanno cominciato a parassitare i loro ospiti attuali soltanto pochi secoli fa e tra pochi altri secoli saranno costretti ad abbandonarli e a parassitare altre specie. Esistono alcune prove a favore di questa teoria. Ma non posso fare a meno di sentire che deve esserci qualcosa di più.

Nel «braccio di ferro» evolutivo fra i cuculi e qualunque specie ospite c’è una sorta di inerente disonestà che deriva dal costo ineguale del fallimento. Ogni piccolo cuculo discende da una lunga linea di piccoli cuculi ancestrali, ciascuno dei quali deve essere riuscito a manipolare i suoi genitori adottivi. Qualunque piccolo cuculo che avesse perso, anche per un solo momento, il controllo del suo ospite sarebbe morto. Ma ciascun singolo genitore adottivo discende da una lunga linea di progenitori, molti dei quali non hanno mai incontrato un cuculo in vita loro. E quelli che hanno avuto un cuculo nel nido possono essersi fatti ingannare ma essere sopravvissuti per allevare un’altra nidiata nella stagione successiva. Il punto è che c’è un’asimmetria nel costo del fallimento. I geni che predispongono a non riuscire a resistere alla schiavitù del cuculo possono essere facilmente passati lungo le generazioni di pettirossi. I geni per non riuscire a schiavizzare i genitori adottivi non possono essere passati lungo le generazioni dei cuculi. Questo è ciò che intendo con «inerente disonestà» e con «asimmetria nel costo del fallimento». Questo punto è riassunto in una delle favole di Esopo: «Il coniglio corre più veloce della volpe perché il coniglio corre per salvarsi la vita, mentre la volpe corre soltanto per il pranzo». Il mio collega John Krebs e io abbiamo chiamato questo concetto il «principio della vita/pranzo».

Per il principio della vita/pranzo gli animali talvolta si comportano in un modo che non è nel loro interesse perché sono manipolati da altri animali. In realtà, in un certo senso non è vero che non agiscono nel proprio interesse: il punto del principio vita/pranzo è che teoricamente potrebbero resistere alla manipolazione, ma sarebbe troppo costoso farlo. Forse resistere alla manipolazione da parte di un cuculo richiede occhi più grandi o un cervello più grande che avrebbero un elevato costo generale. Rivali con una tendenza genetica a resistere alla manipolazione avrebbero in effetti meno successo nel passare i loro geni a causa dei costi economici della resistenza.

Ma siamo di nuovo scivolati a osservare la vita dal punto di vista del singolo organismo anziché dei suoi geni. Quando abbiamo parlato di vermi e di lumache ci siamo abituati all’idea che i geni di un parassita potrebbero avere effetti fenotipici sul corpo dell’ospite esattamente nello stesso modo in cui i geni di un animale hanno effetti fenotipici sul «loro» corpo. Abbiamo dimostrato che l’idea stessa di un corpo «loro» era un presupposto gratuito. In un certo senso, tutti i geni di un corpo sono parassiti, anche se preferiamo chiamarli geni «propri» di quel corpo. I cuculi hanno trovato posto nella discussione come un esempio di parassiti che non vivono dentro il corpo dei loro ospiti, ma che manipolano i loro ospiti in un modo molto simile a quello dei parassiti interni, mentre la manipolazione, come abbiamo appena visto, può essere potente e irresistibile come un ormone organico o una droga. Come nel caso dei parassiti interni, dovremmo ora riformulare l’intera materia in termini di geni e di fenotipi estesi.

Nel braccio di ferro evolutivo fra i cuculi e gli ospiti, i progressi delle due parti hanno assunto la forma di mutazioni genetiche originate e favorite dalla selezione naturale. Qualunque cosa ci sia nella gola del cuculo che ha sul sistema nervoso dell’ospite un effetto simile a quello di una droga deve essersi originata come una mutazione genetica. Questa mutazione ha operato tramite i suoi effetti su, diciamo, il colore e la forma della gola del piccolo cuculo. Ma il suo effetto immediato non è stato nemmeno questo: esso ha operato piuttosto su meccanismi chimici invisibili all’interno delle cellule. L’effetto dei geni sul colore e sulla forma della gola è indiretto. E qui veniamo al punto. L’effetto degli stessi geni del cuculo sul comportamento dell’ospite affascinato è soltanto poco più indiretto. Esattamente nello stesso senso in cui parliamo di geni del cuculo che hanno effetti (fenotipici) sul colore e sulla forma della gola, così possiamo parlare di geni del cuculo che hanno effetti (fenotipici estesi) sul comportamento dell’ospite. I geni parassiti possono avere effetti sul corpo degli ospiti non soltanto quando il parassita vive dentro l’ospite, dove può manipolarlo con mezzi chimici diretti, ma anche quando il parassita è completamente separato dall’ospite e lo manipola a distanza. In effetti, come stiamo per vedere, anche influenze chimiche possono agire al di fuori del corpo.

I cuculi sono creature notevoli e istruttive, ma quasi tutte le meraviglie dei vertebrati possono essere superate dagli insetti. Questi hanno il vantaggio di essere estremamente numerosi; il mio collega Robert May ha osservato a ragione che «praticamente tutte le specie sono insetti». Gli insetti «cuculi» sono così tanti che non è possibile enumerarli tutti. I pochi esempi che vedremo sono andati così oltre il comportamento del cuculo da superare qualunque immaginazione che Il fenotipo esteso potrebbe ispirare.

Un cuculo uccello deposita il suo uovo e scompare; alcune formiche «cuculo», invece, fanno sentire la loro presenza in un modo più drammatico. Nomi come Bothriomyrmex regicidus e B. decapitans sono significativi. Queste due specie sono entrambe parassite di altre specie di formiche. Come è noto, tra le formiche i piccoli sono nutriti normalmente non dai genitori ma dalle operaie e sono quindi le operaie che devono essere ingannate o manipolate. Un primo passo utile è quello di eliminare la madre delle operaie che continua a produrre una prole competitrice. In queste due specie la regina parassita, da sola, si introduce nel nido di un’altra specie di formiche, cerca la regina, le salta in groppa e tranquillamente esegue, per citare l’eufemismo volutamente macabro di Edward Wilson, «il lavoro per cui è specializzata: tagliare lentamente la testa della sua vittima». L’assassina viene quindi adottata dalle operaie orfane che senza sospettare nulla accudiscono le sue uova e le sue larve. Alcune vengono allevate a diventare operaie che gradualmente sostituiscono la specie originale nel nido; altre diventano regine che volano via a cercare nuovi pascoli e teste reali da tagliare.

Ma tagliare teste è un po’ faticoso, e i parassiti non sono abituati a faticare, se possono farne a meno. Il personaggio che preferisco del libro The Insect Societies di Wilson è il Monomorium santschii. Questa specie, nel corso dell’evoluzione, ha perso completamente la casta delle operaie: ha invece delle operaie ospiti che fanno tutto per i loro parassiti e arrivano a eseguire il compito più terribile, quando, al comando della regina parassita, commettono l’atto di assassinare la propria madre. L’usurpatrice non ha bisogno di usare le proprie mandibole ma si avvale invece dei comandi della mente. Come faccia è un mistero; probabilmente impiega un composto chimico, perché il sistema nervoso delle formiche è in genere molto sensibile a queste sostanze. Se la sua arma è davvero chimica, allora è la droga più insidiosa che si conosca. Pensate al suo effetto: scorre nel cervello delle operaie, afferra le redini dei suoi muscoli, le svincola da doveri inculcati profondamente e le fa rivoltare contro la loro madre. Per le formiche il matricidio è un atto di particolare pazzia genetica e la droga che le spinge a farlo deve davvero essere formidabile. Nel mondo del fenotipo esteso non ci si deve chiedere in che modo il comportamento di un animale è di beneficio ai suoi geni, ma di chi siano i geni a cui è di beneficio.

Non deve sorprendere il fatto che le formiche siano sfruttate da parassiti, non solo da altre formiche ma anche da una stupefacente accozzaglia di profittatori specializzati. Le operaie rastrellano una grande quantità di cibo da una vasta area e la raccolgono in un deposito centrale che è un bersaglio perfetto per i rapinatori. Le formiche inoltre, ben armate e numerose, offrono un ottimo sistema di protezione. Nel capitolo 10 abbiamo visto che gli afidi pagano in nettare le loro guardie del corpo professioniste. Parecchie specie di farfalle vivono il loro stadio di bruchi dentro un nido di formiche. Alcune prendono e basta, mentre altre offrono qualcosa in cambio della protezione e spesso sono dotate di un complesso equipaggiamento per manipolare i loro protettori. Il bruco di una farfalla chiamata Thisbe irenea ha nella testa un organo che produce un suono che richiama le formiche e vicino alla coda una coppia di beccucci telescopici da cui sgorga un nettare tentatore. Sulle spalle ha poi una coppia di ugelli che producono un incanto ancora più sottile: la loro secrezione sembra non sia cibo ma una pozione volatile che ha un effetto straordinario sul comportamento delle formiche. Una formica che ne subisce l’influenza balza in aria con le mandibole spalancate e diventa aggressiva, molto più decisa ad attaccare, mordere e pungere qualunque oggetto che si muova eccetto, naturalmente, il bruco che l’ha drogata. Per di più una formica asservita dal suo spacciatore di droga entra in uno stato chiamato «vincolato» in cui diventa inseparabile dal suo bruco per parecchi giorni. Come l’afide, dunque, il bruco usa le formiche come guardie del corpo, ma fa anche qualcosa di più: mentre gli afidi si affidano al normale istinto aggressivo delle formiche contro i predatori, il bruco emette una droga che suscita istinti aggressivi e per di più, a quanto pare, somministra loro una sostanza che le rende dipendenti.

Ho scelto degli esempi estremi, ma anche su un piano più modesto la natura è piena di animali e piante che manipolano individui della stessa o di altre specie. In tutti i casi in cui la selezione naturale ha favorito geni della manipolazione, è legittimo dire che quei geni hanno effetti (fenotipici estesi) sul corpo dell’organismo manipolato. Non ha importanza in quale corpo si trovi fisicamente il gene: il bersaglio della sua manipolazione può essere lo stesso corpo o un corpo diverso. La selezione naturale favorisce quei geni che manipolano il mondo per assicurarsi la propagazione. Questo ci porta a ciò che ho chiamato il teorema centrale del fenotipo esteso: «Il comportamento di un animale tende a massimizzare la sopravvivenza dei geni “di” quel comportamento, indipendentemente dal fatto che i geni si trovino nel corpo di quell’animale particolare che ha quel comportamento». Quando ho formulato quel teorema mi riferivo al comportamento dell’animale, ma si può applicarlo naturalmente al suo colore, alle dimensioni, alla forma, a qualunque cosa.

È finalmente tempo di ritornare al problema da cui siamo partiti, il contrasto fra l’organismo e il gene come candidati rivali al ruolo centrale nella selezione naturale. Nei capitoli precedenti sono partito dal presupposto che non esistesse alcun problema perché la riproduzione individuale era equivalente alla sopravvivenza del gene e che si potesse dire sia «l’organismo lavora per propagare tutti i suoi geni» sia «i geni lavorano per costringere una serie di organismi a propagarli». Sembravano due modi equivalenti di dire la stessa cosa e la scelta sembrava essere soltanto una questione di gusti. Ma in qualche modo il contrasto rimaneva.

Un modo di risolvere l’intera questione è quello di usare i termini «replicatore» e «veicolo». Le unità fondamentali della selezione naturale, le cose che sopravvivono o periscono, che formano progenie di copie identiche con mutazioni casuali occasionali, si chiamano replicatori. Le molecole di DNA sono replicatori. In genere, per ragioni che vedremo fra poco, essi si raggruppano a formare grosse macchine da sopravvivenza comuni o «veicoli». I veicoli che conosciamo meglio sono corpi come i nostri. Un corpo allora non è un replicatore, ma un veicolo. Devo sottolineare questo punto poiché spesso non è stato compreso. I veicoli non replicano se stessi, ma lavorano per propagare i loro replicatori. I replicatori non hanno un comportamento, non percepiscono il mondo, non catturano prede né fuggono i predatori, ma si costruiscono veicoli che fanno tutte queste cose. Per molti scopi è conveniente per un biologo concentrare la propria attenzione a livello del veicolo. Per altri scopi è invece conveniente concentrare l’attenzione a livello dei replicatori. Il singolo gene e il singolo organismo non competono per lo stesso ruolo di protagonista nel dramma darwiniano: hanno ruoli diversi, complementari e sotto molti aspetti ugualmente importanti, il ruolo appunto del replicatore e del veicolo.

I termini replicatore e veicolo sono pratici per varie ragioni. Per esempio, risolvono una lunga controversia sul piano di azione della selezione naturale. Può sembrare logico, a prima vista, collocare la «selezione individuale» su una sorta di scala di livelli di selezione, a metà tra la «selezione di gene» cui si è accennato al capitolo 3 e la «selezione di gruppo» criticata nel capitolo 7. La «selezione individuale» sembra collocarsi pressappoco a metà strada tra due estremi, e molti biologi e filosofi, lasciandosi indurre a percorrere questa strada facile, l’hanno studiata appunto in questi termini. Ma come abbiamo visto, la questione non si pone affatto in questi termini: mentre l’organismo e il gruppo di organismi possono competere per il ruolo di veicolo, né l’uno né l’altro possono candidarsi al ruolo di replicatore. Di fatto la controversia tra «selezione individuale» e «selezione di gruppo» è una rivalità tra veicoli, mentre quella tra selezione individuale e selezione di gene non è affatto una controversia, perché gene e organismo sono candidati a ruoli diversi e complementari, quelli di replicatore e veicolo.

La contesa fra singolo organismo e gruppo di organismi per il ruolo di veicolo, essendo una vera rivalità, si può anche conciliare. A mio modo di vedere il risultato è una vittoria decisiva del singolo organismo. Il gruppo è troppo poco definito come entità. Una mandria di cervi, un gruppo di leoni o un branco di lupi hanno una certa coerenza rudimentale e un’unità di intenti; ma è ben poco in confronto alla coerenza e all’unità di intenti del corpo di un singolo leone, lupo o cervo. Che ciò sia vero è oggi universalmente accettato, ma perché è vero? I fenotipi estesi e i parassiti ci possono aiutare a capirlo.

Abbiamo visto che quando i geni di un parassita lavorano tutti insieme ma contro i geni dell’ospite (che a loro volta lavorano tutti insieme con ogni altro gene) è perché le due serie di geni hanno metodi diversi di lasciare il veicolo che hanno in comune, il corpo dell’ospite. I geni della lumaca lasciano il veicolo comune attraverso gli spermatozoi e le uova della lumaca. Poiché tutti i geni della lumaca hanno le stesse probabilità di entrare in ogni spermatozoo e in ogni uovo, partecipando tutti alla stessa meiosi imparziale, essi lavorano insieme per il bene comune e perciò tendono a rendere il corpo della lumaca un veicolo coerente con uno scopo definito. La ragione reale per cui un verme è separato dal suo ospite, la ragione per cui non fonde i suoi scopi e la sua identità con gli scopi e l’identità dell’ospite è che i geni del verme non hanno in comune con i geni dell’ospite il metodo di lasciare il veicolo e non partecipano alla lotteria meiotica della lumaca: hanno una propria lotteria. Perciò, per questo aspetto e soltanto per questo, i due veicoli rimangono separati come lumaca e verme, riconoscibile quest’ultimo come entità distinta dentro di essa. Se i geni del verme venissero passati nelle uova e negli spermatozoi della lumaca, i due corpi evolverebbero fino a diventare un’unica entità. Non saremmo probabilmente neanche più in grado di accorgerci che un tempo c’erano stati due veicoli.

Organismi individuali «singoli» come noi sono il risultato finale di molte fusioni di questo tipo. Il gruppo di organismi – lo stormo di uccelli, il branco di lupi – non si fonde in un unico veicolo precisamente perché i geni dello stormo o del branco non hanno in comune il metodo di lasciare il veicolo attuale. È vero che un branco può generare un branco figlio, ma i geni del branco genitore non passano in quello figlio in un singolo veicolo in cui tutti hanno una quota uguale. I geni di un branco di lupi non sono tutti in una posizione tale da guadagnare qualcosa dalla stessa serie di eventi futuri: un gene può coltivare il proprio benessere futuro favorendo il suo singolo lupo a spese degli altri lupi. Un singolo lupo perciò è un veicolo degno del suo nome, mentre un branco di lupi non lo è. In termini genetici, la ragione di ciò è che tutte le cellule, eccetto quelle sessuali, di un lupo hanno gli stessi geni mentre, per le cellule sessuali, tutti i geni hanno la stessa probabilità di essere in ciascuna di esse. Le cellule di un branco di lupi però non hanno gli stessi geni né hanno le stesse probabilità di trovarsi nelle cellule dei branchi nuovi che vengono generati; hanno perciò tutto da guadagnare a lottare contro i rivali che si trovano nei corpi degli altri lupi (sebbene il fatto che un branco di lupi sia molto probabilmente formato da parenti mitigherà la lotta).

La qualità essenziale di cui ha bisogno un’entità, se deve diventare un veicolo di geni efficace, è questa: deve avere un canale di uscita nel futuro imparziale per tutti i geni che contiene. Ogni singolo lupo possiede questa qualità. Il canale è il flusso di spermatozoi o di cellule uovo che si formano per meiosi. Il branco di lupi invece non la possiede. I geni hanno qualcosa da guadagnare dal favorire egoisticamente il benessere del proprio corpo a spese degli altri geni del branco. Un alveare, quando sciama, sembra riprodursi per gemmazione, come un branco di lupi. Ma se osserviamo più attentamente vediamo che, per quanto riguarda i geni, il loro destino è in gran parte comune. Il futuro dei geni nello sciame è, almeno in gran parte, nelle ovaie di una sola regina. Questo spiega – è soltanto un altro modo di esprimere il messaggio dei capitoli precedenti – come mai la colonia di api sembra un singolo veicolo veramente integrato e si comporta come tale.

Ovunque vediamo che la vita è di fatto organizzata in veicoli separati, ciascuno con il proprio scopo, come i lupi e gli alveari. Ma la dottrina del fenotipo esteso ci ha insegnato che non è necessario che sia così. In sostanza tutto ciò che possiamo aspettarci dalla nostra teoria è un campo di battaglia di replicatori che giostrano e combattono per un futuro nella genetica a venire. Le armi sono gli effetti fenotipici, inizialmente effetti chimici diretti che hanno luogo nelle cellule, ma in seguito piume e zanne e anche effetti più remoti. Senza dubbio è successo che questi effetti fenotipici si sono in gran parte uniti in veicoli separati, ciascuno con i suoi geni disciplinati e ordinati perché tutti hanno in comune gli spermatozoi o le uova come via di uscita nel futuro. Ma non bisogna dare tutto per scontato. È un fatto che merita di essere considerato con attenzione. Perché i geni si sono riuniti in grossi veicoli, ciascuno con una singola uscita genetica? Perché i geni scelgono di raggrupparsi e di fare grossi corpi per viverci dentro? Nel mio libro Il fenotipo esteso ho cercato di trovare una risposta a questo difficile problema. Qui posso riportare brevemente una parte di quella risposta, ma ho anche, come ci si potrebbe aspettare dopo sette anni, qualcosa di nuovo da dire.

Dividerò la domanda in tre parti. Perché i geni si sono uniti in cellule? Perché le cellule si sono unite in corpi multicellulari? E perché i corpi hanno adottato quello che io chiamo un ciclo vitale «con un collo di bottiglia»?

Per prima cosa allora perché i geni si sono uniti in cellule, perché questi antichi replicatori hanno rinunciato alla libertà di cavalieri erranti nel brodo primordiale e hanno cominciato a formare enormi colonie? Perché cooperano? Possiamo in parte rispondere osservando il modo in cui le moderne molecole di DNA cooperano in quelle fabbriche chimiche che sono le cellule viventi. Le molecole di DNA fanno proteine. Le proteine funzionano come enzimi, catalizzando particolari reazioni chimiche. Ma spesso una singola reazione non è sufficiente a sintetizzare un prodotto finale utile. In una fabbrica farmaceutica umana la sintesi di un prodotto chimico utile richiede una linea di produzione, perché il prodotto chimico di partenza non può essere trasformato direttamente nel prodotto finale desiderato, bensì bisogna sintetizzare in una sequenza precisa una serie di intermedi. Gran parte dell’ingegno di un ricercatore chimico serve a immaginare vie di intermedi possibili fra i prodotti chimici di partenza e i prodotti finali desiderati. Nello stesso modo singoli enzimi di una cellula vivente non possono in genere, da soli, riuscire a sintetizzare un prodotto finale utile da un dato prodotto di partenza. È necessaria un’intera serie di enzimi, uno che catalizzi la trasformazione del materiale grezzo nel primo intermedio, un altro che catalizzi la trasformazione del primo intermedio nel secondo e così via.

Ciascuno di questi enzimi è fatto da un gene. Se è necessaria una sequenza di sei enzimi per una particolare via sintetica, tutti i sei geni per produrli devono essere presenti. È molto probabile che vi siano due vie alternative per arrivare allo stesso prodotto finale, ciascuna con sei enzimi diversi, senza che vi sia alcun motivo per sceglierne una piuttosto che l’altra. Sono cose che capitano nelle fabbriche chimiche. La scelta della via può avvenire per caso o essere il risultato di una pianificazione deliberata da parte del chimico. Nella chimica della natura la scelta non sarà mai, naturalmente, una scelta deliberata ma sarà dovuta alla selezione naturale. E in che modo la selezione naturale fa sì che le due vie non si mescolino ma che emergano gruppi cooperanti di geni compatibili? In un modo molto simile a quello che ho suggerito nella mia analogia con i rematori inglesi e italiani (capitolo 5). La cosa importante è che un gene destinato a realizzare uno stadio della prima via abbia successo in presenza dei geni degli altri stadi della stessa via e non in presenza dei geni della seconda via. Se la popolazione è già dominata dai geni della prima via, la selezione favorirà altri geni analoghi, penalizzando i geni della seconda via e viceversa. Per quanto sia allettante, è decisamente sbagliato parlare dei geni dei sei enzimi della seconda via come se fossero selezionati «come gruppo». Ciascuno di essi è selezionato come gene egoista separato, ma è vincente soltanto in presenza della giusta serie di altri geni.

Oggi questa cooperazione fra geni avviene all’interno delle cellule. Deve essere cominciata come cooperazione rudimentale fra molecole che si autoreplicavano nel brodo primordiale (o in qualunque cosa fosse quell’ambiente). Le pareti cellulari si formarono forse come dispositivo per tenere insieme prodotti chimici utili e impedirne la perdita. Molte delle reazioni chimiche nella cellula avvengono in effetti nel tessuto della membrana; essa agisce come una combinazione di nastro trasportatore e di provette di reazione. Ma la cooperazione fra i geni non è limitata alla biochimica cellulare. Le cellule si sono unite (o non si sono separate dopo la divisione cellulare) a formare corpi multicellulari.

Questo ci porta alla seconda delle mie tre domande. Perché le cellule si sono unite insieme? Perché si sono formati dei robot semoventi? Questa è un’altra domanda sulla cooperazione. Ma qui ci spostiamo dal mondo delle molecole a una scala più grande. Gli organismi multicellulari non si osservano al microscopio: possono diventare anche elefanti o balene. Essere grandi non è necessariamente una cosa positiva, visto che la maggior parte degli organismi sono batteri e molto pochi sono elefanti. Ma quando i modi di vivere possibili per i piccoli organismi sono stati tutti utilizzati, esistono ancora modi di vivere in cui grandi organismi possono prosperare. I grossi organismi possono mangiare quelli più piccoli, per esempio, e possono evitare di essere mangiati da loro. I vantaggi di trovarsi in un club di cellule non si fermano alle dimensioni. Le cellule del club si possono specializzare e ciascuna diventare più efficiente nel suo compito particolare. Cellule specializzate servono altre cellule del club e traggono anche beneficio dall’efficienza di altre cellule specializzate. Se vi sono molte cellule, alcune possono specializzarsi come sensori per individuare le prede, altre come nervi per trasmettere il messaggio, altre come pungiglioni per paralizzare la preda, come muscoli per muovere tentacoli e afferrarla, come solventi per dissolverla e assorbirne i liquidi vitali. Non dobbiamo dimenticare che, almeno nei corpi moderni come i nostri, le cellule sono un clone. Tutte contengono gli stessi geni, anche se geni diversi saranno attivati nelle diverse cellule specializzate. I geni di ciascun tipo cellulare beneficiano direttamente le proprie copie nella minoranza di cellule specializzate per la riproduzione, le cellule della linea germinale immortale.

E quindi la terza domanda: perché i corpi partecipano a un ciclo vitale che ha un «collo di bottiglia»?

Per cominciare, che cosa intendo per collo di bottiglia? Indipendentemente da quante cellule possono esserci nel corpo di un elefante, l’elefante inizia la vita come una singola cellula, un uovo fertilizzato. L’uovo fertilizzato è uno stretto collo di bottiglia che, durante lo sviluppo embrionale, si allarga nei miliardi di miliardi di cellule di un elefante adulto. E indipendentemente da quante cellule, non importa di quanti tipi specializzati, cooperino per svolgere il compito incredibilmente complicato di far funzionare un elefante adulto, gli sforzi di tutte quelle cellule convergono verso la meta finale di produrre di nuovo singole cellule, spermatozoi o cellule uovo. L’elefante non solo ha inizio in una singola cellula, un uovo fecondato, ma la sua fine, nel senso della sua meta o del suo prodotto finale, è la produzione di cellule singole, uova fecondate della generazione successiva. Il ciclo vitale del grosso e ingombrante elefante inizia e finisce con uno stretto collo di bottiglia. Questo collo di bottiglia è caratteristico dei cicli vitali degli animali multicellulari e della maggior parte delle piante. Perché? Quale ne è il significato? Non possiamo rispondere a questa domanda senza considerare ciò che la vita potrebbe essere altrimenti.

Sarà di aiuto immaginare due specie ipotetiche di alghe marine chiamate alga bottiglia e alga liberale. L’alga liberale cresce come un insieme di rami amorfi e mobili nel mare; ogni tanto un ramo si rompe e se ne va alla deriva. Queste rotture possono avvenire ovunque nella pianta e i frammenti possono essere grandi o piccoli. Come per le piante da giardino, i frammenti sono capaci di crescere proprio come la pianta originale. Questo rilascio di parti è il metodo di riproduzione della specie. Come avrete notato, non è in realtà diverso dal suo metodo di crescita, eccetto che le parti in crescita sono fisicamente staccate l’una dall’altra.

L’alga bottiglia ha lo stesso aspetto e cresce nello stesso modo disordinato. Ma c’è una differenza cruciale: si riproduce rilasciando spore unicellulari che fluttuano via e crescono a formare nuove piante. Come nel caso dell’alga liberale, non vi sono sessi. Le figlie di una pianta consistono di cellule che sono tutte cloni delle cellule della pianta parentale. L’unica differenza fra le due specie è che l’alga liberale si riproduce rilasciando pezzi di se stessa che consistono di un numero indeterminato di cellule, mentre l’alga bottiglia si riproduce rilasciando pezzi di se stessa che consistono sempre di una sola cellula.

Immaginando queste due specie di piante, abbiamo puntato sulla differenza cruciale fra un ciclo vitale a collo di bottiglia e uno non a collo di bottiglia. L’alga bottiglia si riproduce restringendosi a ogni generazione attraverso un collo di bottiglia unicellulare, mentre l’alga liberale semplicemente cresce e si divide in due: non si può neanche dire che possieda «generazioni» distinte o che consista di «organismi» distinti. Cosa si può dire invece dell’alga bottiglia? Lo dirò subito, ma possiamo già avere un’idea della risposta. L’alga bottiglia non dà già una sensazione più distinta di «organicità»?

L’alga liberale, come abbiamo visto, si riproduce usando lo stesso processo che usa per crescere: dunque in effetti non si riproduce. L’alga bottiglia invece fa una separazione netta fra crescita e riproduzione. Ma ora che abbiamo messo in evidenza la differenza, che cosa significa? Che importanza ha? Ci ho pensato molto a lungo e credo adesso di sapere la risposta. (Per inciso, è stato più difficile trovare la domanda che la risposta!) La risposta può essere divisa in tre parti, di cui le prime due hanno a che fare con il rapporto fra evoluzione e sviluppo embrionale.

Per prima cosa pensate al problema dell’evoluzione di un organo complesso da uno più semplice. Non è necessario restare nel regno vegetale e a questo punto della questione potrebbe essere meglio passare agli animali, perché hanno organi più complicati. Di nuovo non c’è bisogno di pensare in termini di sesso: qui non si tratta di contrapporre la riproduzione sessuata a quella asessuata. Possiamo immaginare i nostri animali che si riproducono emettendo spore non sessuate, singole cellule che, a parte le mutazioni, sono geneticamente identiche l’una all’altra e a tutte le cellule del corpo.

Gli organi complicati di un animale sviluppato come l’uomo o di un piccolo isopode si sono evoluti per gradi dagli organi più semplici dei loro progenitori. Ma gli organi ancestrali non si sono letteralmente trasformati negli organi più evoluti, come spade da cui a colpi di martello vengono ricavate lame di zappa. Non solo non l’hanno fatto, ma quello che più importa è che non avrebbero potuto farlo. Sono pochi i mutamenti che si possono realizzare per trasformazione diretta, del tipo da spada a lama di zappa. Cambiamenti veramente radicali possono avvenire soltanto tornando indietro «al tavolo da disegno», gettando via il progetto precedente e creandone uno interamente nuovo. Quando gli ingegneri fanno questo, non buttano necessariamente via le idee contenute nel progetto vecchio, ma nemmeno cercano letteralmente di deformare il vecchio oggetto fisico per dargli la forma di quello nuovo. Il vecchio oggetto è troppo appesantito dal fardello della sua storia. Forse si può ricavare da una spada una lama di zappa, ma cercate di trasformare a martellate un motore a elica in uno a reazione! Non si può. Bisogna scartare il motore a elica e tornare al tavolo da disegno.

Gli esseri viventi naturalmente non sono mai stati progettati su di un tavolo da disegno. Ma a ogni generazione si torna al tavolo, si ricomincia da capo. Ogni nuovo organismo inizia come una singola cellula da cui cresce. Eredita le idee del disegno ancestrale sotto forma del programma del DNA, ma non eredita gli organi fisici dei suoi progenitori. Non eredita il cuore dei suoi genitori: inizia da zero, come una singola cellula, e forma un cuore nuovo usando lo stesso programma di disegno dei suoi genitori, magari apportandovi dei miglioramenti. Ecco la conclusione a cui voglio arrivare: una cosa importante di un ciclo vitale «a collo di bottiglia» è che rende possibile l’equivalente del ritorno al tavolo da disegno.

C’è poi una seconda conseguenza correlata: fornisce un «calendario» che può essere usato per regolare i processi dell’embriologia. In un ciclo vitale a collo di bottiglia, ciascuna nuova generazione procede approssimativamente attraverso la stessa serie di eventi. L’organismo inizia come una cellula singola che cresce per divisione cellulare e si riproduce, formando cellule figlie. Presumibilmente alla fine muore, ma questo fatto è meno importante di quanto sembra a noi mortali; per quanto concerne questa discussione la fine del ciclo viene raggiunta quando l’organismo attuale si riproduce e inizia il ciclo della nuova generazione. Sebbene in teoria l’organismo possa riprodursi in qualunque momento della sua fase di crescita, possiamo aspettarci che alla fine emergerà un tempo ottimale per la sua riproduzione. Organismi che rilasciano spore quando sono troppo giovani o troppo vecchi finiranno con meno discendenti dei rivali che prima si irrobustiscono e poi rilasciano un numero massiccio di spore quando sono all’apice delle forze.

Ci stiamo muovendo verso l’idea di un ciclo vitale stereotipato che si ripete regolarmente. Non soltanto ciascuna generazione inizia con un ciclo vitale a collo di bottiglia, ma ha anche una fase di crescita – l’infanzia – di durata più o meno fissa. La durata fissa, la stereotipia, della fase di crescita rende possibile che succedano cose ben precise in tempi ben precisi dello sviluppo embrionale, come se questo fosse governato da un calendario osservato strettamente. In grado diverso a seconda dei diversi tipi di creature, le divisioni cellulari avvengono durante lo sviluppo in sequenze rigide che si ripetono a ogni nuovo ciclo vitale. Ciascuna cellula ha il suo posto e tempo di comparsa nell’elenco delle divisioni cellulari. In certi casi, anzi, la precisione è tale che gli embriologi possono dare un nome a ciascuna cellula e si può dire che una data cellula di un organismo ha la sua controparte esatta in un altro organismo.

Quindi il ciclo di crescita stereotipato fornisce un orologio o calendario per mezzo del quale gli eventi embriologici possono essere attivati. Pensate alla facilità con cui noi usiamo i cicli della rotazione giornaliera della Terra e della sua circumnavigazione annuale attorno al sole per strutturare e ordinare le nostre vite. Nello stesso modo, i ritmi di crescita ripetuti all’infinito imposti da un ciclo vitale a collo di bottiglia serviranno – sembra quasi inevitabile – a ordinare e strutturare l’embriologia. Geni particolari possono essere attivati e spenti in momenti particolari perché il calendario a collo di bottiglia del ciclo di crescita assicura che esistono questi momenti particolari. Queste regolazioni ben temperate dell’attività dei geni sono un prerequisito per l’evoluzione di embriologie capaci di formare organi e tessuti complessi. La precisione e la complessità dell’occhio di un’aquila o dell’ala di una rondine non possono emergere senza meccanismi a orologeria che stabiliscono quando e dove ogni cosa debba andare.

La terza conseguenza di una storia a collo di bottiglia è una conseguenza genetica. Qui ci torna utile l’esempio delle alghe. Partendo, di nuovo per semplicità, dal presupposto che entrambe le specie si riproducano asessuatamente, pensate al modo in cui potrebbero evolvere. L’evoluzione richiede un cambiamento genetico, una mutazione. La mutazione può succedere durante qualunque divisione cellulare. Nell’alga che rilascia lunghi rami, le linee cellulari sono molto numerose, l’opposto del collo di bottiglia. Ciascun ramo che si stacca e fluttua via è multicellulare. È quindi perfettamente possibile che due cellule dell’alga figlia siano meno parenti fra loro di quanto ciascuna di esse lo sia con cellule della pianta madre. (Per «parenti» intendo letteralmente cugini, nipoti e così via. Le cellule hanno linee di discendenza ben definite e queste linee si ramificano così che parole come secondo cugino si possono usare senza problemi anche per le cellule di un corpo.) L’alga bottiglia sotto questo aspetto è molto diversa. Tutte le cellule di una pianta figlia discendono da una singola spora, così che tutte le cellule di una data pianta sono cugine più strette (o come le volete chiamare) l’una dell’altra che di qualunque cellula di un’altra pianta.

Questa differenza fra le due specie ha conseguenze genetiche importanti. Pensate al destino di un gene che è appena mutato, prima nell’alga liberale e poi nell’alga bottiglia. Nella prima la nuova mutazione può avvenire in una cellula qualunque, in qualunque ramo della pianta. Poiché le piante figlie si producono per gemmazione, i discendenti della cellula mutante possono trovarsi a occupare piante figlie e nipoti insieme a cellule non mutate che sono cugine relativamente distanti. Nell’alga bottiglia, invece, l’antenata comune più recente di tutte le cellule di una pianta non è più vecchia della spora che ha dato inizio alla pianta. Se quella spora conteneva il gene mutante, tutte le cellule della nuova pianta conterranno il gene mutante. Se la spora non lo conteneva, allora nessuna lo conterrà. Le cellule nell’alga bottiglia saranno geneticamente più uniformi in ogni singola pianta (a parte qualche occasionale mutazione inversa). Nell’alga bottiglia, la singola pianta sarà un’unità con un’identità genetica e meriterà il nome di individuo. Le piante dell’alga liberale avranno una minore identità genetica e avranno meno diritto al nome di «individuo».

Non è soltanto una questione di terminologia. Con tutte le mutazioni che avvengono, le cellule di una pianta di alga liberale non avranno tutte a cuore lo stesso interesse genetico. Un gene in questa situazione ha da guadagnare se favorisce la riproduzione della sua cellula. Non è detto invece che abbia da guadagnare se favorisce la riproduzione della sua pianta. Le mutazioni renderanno poco probabile che le cellule di una pianta siano geneticamente identiche, così esse non collaboreranno con entusiasmo fra loro nella costruzione di organi e di nuove piante. La selezione naturale sceglierà fra le cellule invece che fra le «piante». Nell’alga bottiglia, al contrario, tutte le cellule di una pianta hanno ogni probabilità di avere gli stessi geni perché possono essere divise soltanto da mutazioni molto recenti. Perciò collaboreranno con gioia a costruire macchine da sopravvivenza efficienti. Le cellule di piante diverse avranno più probabilità di avere geni diversi. Dopo tutto, cellule che sono passate attraverso colli di bottiglia diversi possono essere distinte in base a tutte le mutazioni eccetto le più recenti, e ciò significa la maggioranza. La selezione giudicherà allora piante rivali e non cellule rivali. Possiamo così aspettarci di vedere l’evoluzione di organi e sistemi che servono a tutta la pianta.

A proposito, soltanto per coloro che hanno un interesse professionale, qui c’è un’analogia con gli argomenti contro la selezione di gruppo. Possiamo pensare a un organismo come a un «gruppo» di cellule. Una forma di selezione di gruppo può funzionare se esiste un mezzo di aumentare il rapporto fra la variazione fra gruppi e quella all’interno del gruppo. Il sistema riproduttivo dell’alga bottiglia ha esattamente l’effetto di aumentare questo rapporto, mentre il sistema dell’alga liberale ha esattamente l’effetto opposto. Esistono anche somiglianze, che possono essere rivelatrici ma che non approfondirò, fra il «collo di bottiglia» e altre due idee che hanno dominato questo capitolo. Per prima abbiamo considerato l’idea che i parassiti coopereranno con l’ospite nella misura in cui i loro geni passano alla generazione successiva nelle stesse cellule riproduttive dell’ospite, costrette attraverso lo stesso collo di bottiglia. In secondo luogo si è detto che le cellule di un corpo che si riproduce sessualmente cooperano fra loro soltanto perché la meiosi è scrupolosamente imparziale.

Riassumendo, abbiamo visto tre ragioni per cui un’esistenza impostata «a collo di bottiglia» tende a favorire l’evoluzione dell’organismo come un veicolo distinto e unico. Potremmo chiamare le tre ragioni «di nuovo al tavolo da disegno», «ciclo temporale ordinato» e «uniformità cellulare». Qual è stato il primo, il ciclo vitale a collo di bottiglia o l’organismo distinto? Mi piacerebbe pensare che si siano evoluti insieme. In effetti ho il sospetto che l’organismo singolo si possa definire come un’unità che inizia e finisce con un collo di bottiglia costituito da un’unica cellula. Se il ciclo vitale è definito da un collo di bottiglia, il materiale vivente sembra destinato a essere inscatolato in organismi unitari separati. E più il materiale vivente viene inscatolato in macchine da sopravvivenza separate, più le cellule di quelle macchine da sopravvivenza concentreranno i loro sforzi su quella classe speciale di cellule che sono destinate a portare i loro geni attraverso il collo di bottiglia nella generazione successiva. I due fenomeni, ciclo vitale a collo di bottiglia e organismi distinti, vanno mano nella mano. L’evoluzione dell’uno rinforza quella dell’altro. I due si rinforzano a vicenda, come la spirale dei sentimenti di un uomo e di una donna durante una storia d’amore.

Il fenotipo esteso è un lungo libro e non è facile condensare il suo soggetto in un capitolo. Sono stato obbligato ad adottare qui uno stile condensato, piuttosto intuitivo, persino impressionistico. Spero tuttavia di essere riuscito a rendere il succo dell’argomento.

Lasciatemi finire con un breve manifesto, un riassunto del mio modo di intendere la vita alla luce della teoria del gene egoista e del fenotipo esteso. È una lettura, ne sono convinto, che vale per tutte le cose viventi dell’intero universo. L’unità fondamentale, il primo motore di ogni esistenza, è il replicatore. Un replicatore è qualunque cosa nell’universo di cui vengano fatte copie. I replicatori incominciano a esistere, all’inizio, per caso, per l’incontro casuale di piccole particelle. Una volta che il replicatore esiste, è capace di generare una serie indefinita di copie di se stesso. Tuttavia nessun processo di copiatura è perfetto e la popolazione di replicatori comincia a comprendere varietà che differiscono l’una dall’altra. Alcune di queste varietà perdono la capacità di riprodursi e la loro specie cessa di esistere quando esse stesse cessano di esistere; altre possono continuare a replicarsi, ma con minore efficienza; ad altre ancora capita di possedere doti nuove, che ne fanno replicatori più efficienti dei loro predecessori e dei loro contemporanei. I loro discendenti domineranno la popolazione. Con il passare del tempo, il mondo si riempie dei replicatori più potenti e ingegnosi.

Gradualmente, vengono scoperti modi sempre più elaborati di essere un buon replicatore. I replicatori sopravvivono non solo in virtù delle loro proprietà intrinseche, ma anche per virtù delle loro conseguenze sul mondo. Queste conseguenze possono essere molto indirette: basta che alla fine le conseguenze, per quanto tortuose e indirette, abbiano un effetto di retroazione e rinforzino nel replicatore la sua capacità di farsi copiare.

Il successo che un replicatore ha nel mondo dipenderà dal tipo di mondo in cui si trova, dalle condizioni preesistenti. Fra le più importanti ci saranno gli altri replicatori e le loro conseguenze. Come i rematori inglesi e tedeschi, i replicatori che sono di vantaggio reciproco si troveranno a predominare in presenza l’uno dell’altro. In un dato momento dell’evoluzione della vita sulla Terra questo raggrupparsi di replicatori reciprocamente compatibili iniziò a formalizzarsi con la creazione di veicoli distinti: cellule e, più tardi, corpi multicellulari. I veicoli che avevano evoluto un ciclo vitale a collo di bottiglia prosperarono e divennero sempre più autonomi e sempre più caratterizzati appunto come veicoli.

Questa introduzione di materiale vivente in veicoli distinti divenne una caratteristica così saliente e dominante che, quando i biologi arrivarono sulla scena e cominciarono a porsi domande sulla vita, si rivolsero soprattutto ai veicoli: i singoli organismi. Questi divennero dunque il più importante oggetto di studio per il biologo mentre i replicatori – noti adesso come geni – vennero considerati come parte del macchinario usato dai singoli organismi. Fu necessario uno sforzo mentale deliberato perché i biologi si volgessero dalla parte giusta e si ricordassero che i replicatori erano i primi, sia in senso cronologico che per importanza.

Un modo per ricordarcelo è riflettere che, anche oggi, non tutti gli effetti fenotipici di un gene restano all’interno del corpo in cui si trova. Certamente, in linea di principio, e anche nella realtà, il gene si esplica attraverso il corpo e così manipola gli oggetti del mondo esterno, alcuni inanimati, alcuni viventi, alcuni molto distanti. Con un po’ di fantasia possiamo immaginare il gene al centro di una ragnatela centrifuga di potere fenotipico esteso, mentre un oggetto nel mondo è il centro di una ragnatela centripeta di influenze di molti geni che si trovano in molti organismi. La lunga portata dei geni non conosce confini percepibili. Il mondo intero è attraversato in tutte le direzioni da frecce causali che uniscono i geni agli effetti fenotipici, vicini e lontani.

È un fatto ulteriore, troppo importante in pratica per essere chiamato incidentale ma in teoria non abbastanza necessario da essere chiamato inevitabile, che queste frecce causali abbiano formato dei fasci. I replicatori non sono più sparsi liberi nel mare ma sono uniti in enormi colonie: i singoli corpi. E le conseguenze fenotipiche, invece di essere distribuite uniformemente nel mondo, sono in molti casi congelate in quegli stessi corpi. Ma l’esistenza del singolo corpo, così familiare sul nostro pianeta, non era inevitabile. L’unica specie di entità che deve esistere perché esista la vita, in qualunque parte dell’universo, è il replicatore immortale.