3.
Elogio del piuccheperfetto: κατελέλυτο
(gennaio-aprile 411)

1.

Sull’attuazione e, prima ancora, sull’avvio della crisi politica ateniese del 411, culminata nella instaurazione di una dittatura oligarchica, l’unico racconto valido – che è anche una cronaca quasi quotidiana – è quello tucidideo. Ora che a Tucidide è stato restituito il ruolo (attestato peraltro da Aristotele)1 di testimone diretto di quella vicenda, il suo racconto diventa il perno.

Essenziale è chiarire la cronologia; e l’essenziale in proposito lo dice Tucidide al passaggio dal XX (412/11) al XXI (411/10) «anno di guerra». Giova qui ricordare che gli «anni di guerra», fondamento del sistema cronologico adottato da Tucidide, non coincidono con gli anni magistratuali, ma vanno dall’inizio della primavera alla fine dell’inverno2.

Al passaggio dal XX al XXI anno, Tucidide precisa (cosa che non fa sempre) che per «inizio» del XXI anno deve intendersi «l’inizio della primavera» (VIII, 61, 1), e che ciò che sta per narrare – ivi compreso l’epilogo della crisi politica ateniese – avveniva «appena incominciata la primavera (ἅμα τῷ ἦρι εὐθὺς ἀρχομένῳ3.

Gli avvenimenti descritti nei capitoli 61 e 62 (Mileto, Chio) si svolgono dunque nel mese di aprile. Perciò, dato il sincronismo espresso in 63, 3 (dove il racconto ritorna ad Atene, non senza una importante digressione su Taso: 64) anche le vicende ateniesi – a partire dalla seconda venuta di Pisandro e degli altri congiurati in città – hanno inizio in aprile (ὑπὸ τοῦτον τὸν χρόνον).

Il dato principale è che, con il ritorno allo scenario ateniese (63, 3), il racconto comporta un arretramento narrativo (flashback) che riepiloga gli accadimenti in Atene anteriori alla seconda venuta di Pisandro nonché all’inizio del XXI anno. Dunque plausibilmente collocabili in gennaio-marzo del 411.

La frase più importante è: «Circa in quel tempo4 (ὑπὸ τοῦτον τὸν χρόνον) e anche prima (καὶ ἔτι πρότερον) il regime democratico in Atene (ἡ ἐν ταῖς Ἀθήναις δημοκρατία) era stato abbattuto (κατελέλυτο)5» (63, 3).

Chi rettamente intenda queste parole si rende conto che i capitoli che vanno da VIII, 63, 3 a VIII, 65-66 sono un riepilogo di quanto era già accaduto, cioè dell’azione svolta in gennaio-marzo (dunque ancora nel XX anno) ad opera delle eterie. Non dimentichiamo che l’ordine dato, in segreto, da Pisandro alle eterie di entrare subito in azione (54, 4) risaliva alla sua precedente venuta in Atene, fine novembre-dicembre 4126. Tucidide lo aveva detto chiaro: «Pisandro ordinò loro di coordinarsi, di prendere decisioni in comune e di abbattere la fazione popolare [cioè la democrazia, il potere della fazione popolare]: παρακελευσάμενος ὅπως ξυστραφέντες καὶ κοινῇ βουλευσάμενοι καταλύσουσι τὸν δῆμον» e di «non perder tempo» (VIII, 54, 4). Ragion per cui qui può ben dire che Pisandro, quando tornò a primavera, «trovò che le eterie avevano fatto quasi tutto (τὰ πλεῖστα) il ‘lavoro’» (65, 2). L’accostamento di queste due importanti informazioni tucididee, tra loro consequenziali, rende perfettamente comprensibile la frase di 63, 3: ἔτι πρότερον ἡ ἐν ταῖς Ἀθήναις δημοκρατία κατελέλυτο: «Già prima la democrazia era stata ormai liquidata». Ciò che Tucidide sta dicendo a chiare lettere è che l’azione svolta dalle eterie (descritta in flashback in VIII, 65-66) aveva già di fatto liquidato la democrazia, e Pisandro poteva ora formalizzare tale stato di cose instaurando, con l’appoggio dei congiurati ormai padroni incontrastati della città, i nuovi poteri.

È questo il dato, di primaria importanza, che Tucidide esprime, e in tutta chiarezza: ad aprile, quando Pisandro è tornato ad Atene, di fatto la democrazia era già stata messa fuori gioco (κατελέλυτο). E tutta la descrizione di quanto era accaduto fino a quel momento (65-66) sta lì a documentarlo.

Diviene così del tutto comprensibile e consequenziale la distinzione che Tucidide istituisce tra ciò che Pisandro e complici «trovano già fatto ad opera delle eterie» (65, 2) – uccisione dei capi popolari, censura imposta dagli oligarchi su ogni atto della Boulé e dell’assemblea, inerzia attonita dei cittadini terrorizzati, cioè il sostanziale abbattimento7 del regime democratico – e, per altro verso, il «compimento dell’operazione» (67, 1: τῶν λοιπῶν εἴχοντο). Tale compimento consiste in una prima e, poco dopo, una seconda assemblea il cui risultato, ottenuto senza opposizione perché assemblea e Consiglio erano stati già ‘addomesticati’ ed esautorati, è l’abrogazione del «salario», in primis quello dei giudici ovviamente: misura allegramente propiziata da Aristofane, Lisistrata, 624; e, inoltre, il trasferimento, ormai formalizzato, di tutto il potere ai Quattrocento8.

Una volta capito che VIII, 65-66 si riferiscono a fatti avvenuti, in Atene, tra la partenza di Pisandro da Atene (fine 412/inizio 411) e il suo rientro in Atene (aprile 411), si può compiere un ulteriore passo avanti. E osservare che il cenno, contenuto in VIII, 66, al perdurante, ma ormai distorto e pesantemente manipolato, funzionamento della Boulé e dell’assemblea ha senso – evidentemente – solo se basato sull’esperienza di varie sedute dell’uno e dell’altro organo: dunque di un periodo di tempo non breve nel quale i due organi si erano riuniti varie volte, sempre sotto il controllo dei congiurati, ormai operanti alla luce del sole. In quei capitoli si descrive dunque una situazione non già limitata ai pochi giorni immediatamente precedenti l’arrivo di Pisandro9, ma durata alquanto tempo. Il che è anche ovvio: la sovversione è un processo in crescendo.

In altre parole, il senso esatto di quella frase decisiva (ἔτι πρότερον ἡ ἐν ταῖς Ἀθήναις δημοκρατία κατελέλυτο) è dunque il seguente: «In quello stesso torno di tempo veniva dato il colpo finale alla democrazia, e già prima era stata messa in atto la sua dissoluzione». Che inoltre i capitoli 65-66 costituiscano il riepilogo di quanto era accaduto in Atene prima della seconda venuta di Pisandro, dunque nei mesi di gennaio-febbraio-marzo-inizio aprile, è dimostrato dalla rigorosa cornice entro cui quei due capitoli sono inquadrati:

a) 65, 2: Pisandro e compagni giungono ad Atene «e trovano che il più del ‘lavoro’ era stato già fatto dalle eterie» (τὰ πλεῖστα τοῖς ἑταίροις προειργασμένα);

b) 67, 1: in quel momento, dunque, Pisandro e compagni, giunti ad Atene, «misero mano a completare il ‘lavoro’», a «fare quanto restava da fare» (τῶν λοιπῶν εἴχοντο).

2.

Chi abbia memoria delle critiche – peraltro contestate già dalla erudizione antica – rivolte da Dionigi di Alicarnasso e da altri al racconto tucidideo che «fa a pezzi» (διακόπτει) gli episodi, ingabbiato com’è nella cornice annuale-stagionale, può ben capire cosa è avvenuto qui al passaggio dal XX al XXI anno. Tucidide deve seguire gli avvenimenti su due teatri – Samo e la guerra in Ionia per un verso, Atene per l’altro –, e si sforza di seguire quanto possibile la diacronia. (Su scala minore ha avuto lo stesso problema quando, nel VI libro, ha dovuto seguire parallelamente la crisi interna ateniese – gli scandali sacrali e la conseguente raffica di processi – e le operazioni in Sicilia, con la complicanza di dover ad un certo punto dare notizia anche del dibattito interno esploso a Siracusa.)

Questo modo di procedere costringe talvolta a riepilogare fatti e antefatti accaduti, in un determinato teatro di operazioni, nell’anno o nella stagione precedente. Qui, all’inizio del XXI anno, che incomincia con l’arrivo di Pisandro ad Atene e che sarà per molte pagine dedicato esclusivamente al ‘teatro’ ateniese, Tucidide riepiloga ciò che nel frattempo era già avvenuto in Atene a seguito della precedente visita di Pisandro e delle direttive da lui impartite alle eterie.

3.

Conviene a questo punto dare la parola al testimone, cioè a Tucidide, onde rendersi conto del clima e della situazione concreta in cui si svolsero le Lenee (metà febbraio 411) e si sarebbero svolte le Dionisie a metà aprile:

«[VIII, 65] Pisandro e gli altri che lo accompagnavano si misero in mare seguendo la costa e, obbedendo alle istruzioni ricevute, abbattevano via via i regimi democratici nelle varie città, avendo con sé un buon numero di opliti fidati presi di qua e di là; e approdarono ad Atene. [2] Qui trovarono che la gran parte del ‘lavoro’ era stato già fatto dalle eterie. Ecco come. C’era un certo Androcle, uno che stava a capo della fazione popolare10 e aveva contribuito non poco all’esilio di Alcibiade: alcuni dei giovani11 si mettono d’accordo e lo ammazzano. L’avevano fatto fuori per tutti e due i motivi: per la militanza con la fazione popolare e per far piacere ad Alcibiade, di cui sapevano che sarebbe rientrato e avrebbe propiziato l’amicizia di Tissaferne12. E così anche altri elementi ‘scomodi’ (ἀνεπιτήδειοι) li fecero fuori allo stesso modo, in agguati. [3] Era poi stata costruita e messa in giro13 una specie di parola d’ordine: che non ci doveva più essere salario se non per chi era sotto le armi, e il diritto di far politica e prendere decisioni doveva essere riservato a non più di cinquemila persone, in particolare quelli in grado di rendersi utili con le loro risorse, economiche e militari. [66] Ma erano solo parole di facciata dette per tener buona la massa: di fatto gli organizzatori del rivolgimento politico intendevano prendere il controllo della città. Comunque l’assemblea popolare e il Consiglio [la Boulé dei Cinquecento] continuavano a funzionare e a riunirsi, ma si decideva solo ciò che otteneva l’approvazione preliminare dei congiurati; gli unici oratori che intervenivano erano uomini loro e gli interventi erano sottoposti a censura preventiva da parte loro. [2] Ormai nessuno degli altri osava fiatare, per paura, e vedendo l’ampiezza della congiura. Se poi qualcuno osava opporsi, prontamente – in un qualche modo appropriato14 – lo si trovava morto, né si ricercavano gli assassini né contro i sospettati si avviava una qualunque azione giudiziaria. Al contrario, la parte popolare era immobile, atterrita: di un terrore tale da considerare già un vantaggio, in cambio del silenzio, non subire analoga violenza. [3] Inoltre, sopravvalutavano le dimensioni della congiura al di là della sua effettiva estensione: e così essi erano vinti già nella volontà, non essendo in grado di scoprirli a causa della grandezza della città e della reciproca non conoscenza tra le persone. [Non avevano la possibilità di indagare essi stessi15.] [4] E proprio per questa ragione era impossibile, presi da indignazione per ciò che accadeva, aprirsi con qualcuno, magari per preparare una qualche forma di riscossa: chi l’avesse tentato si sarebbe trovato davanti o uno sconosciuto, con cui parlare, o magari una persona conosciuta, ma infida. [5] Tutti quelli che stavano con il popolo sospettavano gli uni degli altri; di chiunque si poteva temere che fosse coinvolto: giacché in effetti ce ne furono che nessuno avrebbe mai potuto sospettare che fossero passati con l’oligarchia. E furono proprio questi casi che fecero crescere al massimo il sospetto tra il popolo; e furono questi che giovarono al massimo alla sicurezza degli oligarchi (τῶν ὀλίγων) seminando nella parte popolare ineludibile sfiducia16.

[67] In questo momento dunque [inizio della primavera: 61, 1] Pisandro e i suoi accoliti, sbarcati ad Atene, subito misero mano al completamento del ‘lavoro’ [all’inizio della digressione aveva scritto (65, 2): arrivati, trovano che le eterie avevano fatto il grosso]».

Questa è una delle pagine tucididee più dense di sapienza psicologica, in particolare nella comprensione della psicologia di massa. (È quasi incredibile che si sia a lungo pensato che tutto ciò egli scrivesse di seconda mano, sulla scorta delle notizie di qualche informatore17.)

Il racconto prosegue con la descrizione delle due assemblee pilotate da Pisandro, in particolare quella tenutasi a Colono, fuori città, sotto il controllo diretto degli opliti fedelissimi ai congiurati, esplicitamente invitati a rimanere a disposizione e a non tornare ai posti di guardia18 (o di combattimento, in caso di attacco spartano, ormai sempre possibile), e conclusasi con l’‘assalto’ alla sede del Consiglio (Bouleuterion)19 condotto dai Quattrocento, armati essi stessi di pugnali nascosti sotto la veste20 e scortati dai 120 «giovani», «di cui – puntualizza Tucidide – si servivano quando si trattava di passare alle vie di fatto»21. Espugnazione senza colpo ferire del Bouleuterion, aggravata – se così può dirsi – dall’umiliazione dei buleuti legittimi, buttati fuori con la beffa dell’elargizione del salario residuo (che essi accettarono)22, e conclusa – nella totale passività dei popolari23 – con una nuova raffica di omicidi politici mirati («subito fecero fuori alcuni, non molti, quelli che parve opportuno togliere di mezzo»)24 sempre a cura dei 120 «giovani» pronti a «passare alle vie di fatto» (χειρουργεῖν).

È impressionante la frequenza di assassini politici, impuniti e terroristici, messi in atto tra febbraio e maggio: pugnali, morti abbandonati per le strade come ammonimento, assalto a mano armata al «palladio della democrazia»25, la Boulé, hanno piegato il «demo», cioè la fazione democratica, ipnotizzata e soggiogata dagli avversari di sempre.

4.

L’azione dei comici, dei vari Cratino, Ermippo – autori travestiti ‘alla popolaresca’ –, o del raffinato Aristofane o del suo rancoroso coetaneo Eupoli, aveva martellato per decenni in un’unica direzione, con ogni sorta di intrecci e di trovate: al solo fine di indurre il ‘popolo’ al disgusto verso i suoi capi e di screditare i pilastri del ‘sistema’ democratico (a cominciare dal più odiato di essi: il sistema giudiziario ed il salario per i giudici popolari)26, usufruendo peraltro degli spazi di comunicazione di massa che proprio il ‘sistema’ democratico assicurava. E alla fine, nell’inverno-primavera 411, l’obiettivo era stato raggiunto. Non è fuor di luogo evocare, a questo proposito, l’asettico commento di un prudente pubblicista ateniese, che in quell’anno terribile aveva venticinque anni: Isocrate. Nel discorso-pamphlet Sulla pace, scritto molti anni dopo, egli così descrive, in modo apparentemente oggettivo, l’accaduto: «Non è forse vero che, a causa dei demagoghi-canaglie, il demo stesso desiderò [qui esagera] l’instaurazione dell’oligarchia dei Quattrocento?» (§ 108).

1 F 137 Rose (= 125 Gigon). La presenza di Tucidide in Atene nel 411 comincia ad essere ‘senso comune’ anche per chi continua a credere nell’improbabile ‘esilio’ ventennale. Gaudeamus.

2 Sempre utile far capo a Tucidide, V, 20.

3 Qui Classen (VIII, 18852, p. 94) annotò «März»; che Steup mutò in «Frühling» (VIII, 19223, p. 143).

4 Cioè lo stesso indicato in 61, 1 e 63, 1 (ἐν τούτῳ).

5 È la lectio difficilior, presente in tutta la tradizione manoscritta tranne il Laur. plut. 69.2 che banalizza in κατελύετο: un antico lettore non aveva capito che qui ha inizio un riepilogo di fatti già accaduti.

6 G. Busolt, Griechische Geschichte bis zur Schlacht bei Chaeroneia, III.2, Perthes, Gotha 1904, p. 1468 e nota 2; Tucidide, VIII, 49. Se n’è parlato nel capitolo precedente.

7 Perciò adopera κατελέλυτο!

8 Tucidide, VIII, 69-70. Che così debba intendersi κατελέλυτο in 63, 3 è sempre stato chiaro agli interpreti pensanti: Classen (VIII, 18852, p. 97); Steup (VIII, 19223, p. 154: «Bis zum Ende von c. 66 werden die προειργασμένα [...] berichtet, worauf c. 67.1 die Erzählung wieder aufgenommen wird»); Busolt, Griechische Geschichte cit., III.2, pp. 1475-1476; K.J. Beloch, Griechische Geschichte, II.1, Trübner, Strassburg 19142, pp. 384-385. Anche il buon Delebecque (Thucydide, Livre VIII, Éditions Ophrys, Aix-en-Provence 1967, p. 83) si rendeva confusamente conto dello stato della questione ma tendeva a schiacciare tutto ciò che è raccontato in 65-66 dopo la partenza di Pisandro da Samo (64, 1) – anziché collocarlo dopo la precedente partenza di Pisandro da Atene (54, 4) – ed escogitava una trovata: i fatti narrati in 65-66 avvengono «à l’extrême fin de l’hiver 412/411» perché la traversata di Pisandro da Samo ad Atene durò a lungo! Totalmente fuori strada Andrewes (HCT, V, 1981, p. 153) e Hornblower (Commentary, III, p. 938) che riferiscono κατελέλυτο all’assemblea di Colono! In difesa di κατελύετο (variante facilior, dovuta a chi non aveva chiaro che qui siamo in sede di riepilogo) si era espresso un tucidideo di rango quale K.W. Krüger (1796-1874) nel saggio giovanile Dionysii Halicarnassensis Historiographica, Gebauer, Halle 1823: «Vulgarem lectionem κατελύετο [...] tuendam puto. Nam status popularis nondum antiquatus erat» (p. 370, nota). Palesemente non tien conto di καὶ ἔτι πρότερον. L’imbarazzo di alcuni studiosi era forse dovuto al presente ἀποκτείνουσι (presente atemporale ovvero ‘storico’ che drammatizza il racconto-riepilogo) che segue immediatamente al perfetto προειργασμένα (oltre che al piuccheperfetto κατελέλυτο); ma forse bastava osservare, subito dopo, προείργαστο, un altro piuccheperfetto che conferma che siamo in sede di riepilogo di fatti avvenuti in precedenza. Dedichiamo ai perplessi la splendida definizione del Präsens historicum nella Satzlehre di Kühner e Gerth (I, Hahn, Hannover 18983, p. 133): «Oft wird der Präsens in der Erzählung vergangener Ereignisse gebraucht, indem der Redende sich in die Zeit zurückversetzt, wo die Handlung sich abspielte (Praesens historicum). Auch diese Ausdrucksweise ist allen Sprachen gemein, und zwar nicht bloss als Form der lebendigen und anschaulichen Schilderung». A dir vero pochi moderni si sono invaghiti della variante facilior κατελύετο né è mancato qualche tortuoso intervento (J. Brandis, Zu Thukydides, «RhM» 9, 1854, p. 637, voleva riferire tutta la frase alla situazione di Samo, mutando in : netto e inconcludente peggioramento del testo tràdito). Erano tentativi maldestri di trasferire il quadro di Atene sotto il terrore dalla fine del XX anno (gennaio-marzo 411) all’inizio del XXI.

9 Come sembra pensasse Delebecque.

10 Perciò bersaglio dei comici: di Aristofane (Vespe, 1187) e degli altri citati dallo scolio a quel verso.

11 Qui Tucidide dà per ovvio che una parte dei congiurati costituisse un gruppo definibile come «i giovani». In 69, 4 dimostra di sapere che questo gruppo dei «giovani» era composto di 120 elementi che costituivano la guardia del corpo dei Quattrocento.

12 È ciò che Pisandro aveva detto all’assemblea (Tucidide, VIII, 53) in dicembre. Come si vede, la congiura era (come sempre) strutturata per cerchi concentrici. Alcuni sanno solo alcune cose, altri, più in alto, di più. Questi «giovani» killer (che ritroviamo in 69, 4) dovevano fare il lavoro sporco e sapere il minimo necessario. Tucidide invece sa tutto di tutti loro e sa anche chi era stato il vero artefice e primo iniziatore, Antifonte (68, 1).

13 Προείργαστο si può intendere così.

14 È impressionante come Tucidide dica e non dica, lasciando intravedere ben altro, del non detto.

15 Questa parrebbe una glossa.

16 Qui Tucidide si sta ponendo la domanda se il successo degli ὀλίγοι fosse evitabile.

17 U. Köhler (Der thukydideische Bericht über die oligarchische Umwälzung in Athen im Jahre 411, «SBAW Berlin» 38, 1900, p. 814 e nota 3) cercò di immaginarsi un ‘doppio’ di Tucidide come informatore: uno «fuggito dall’Atene dei Quattrocento» o un émigré. Ma dimentica VIII, 97, 2 dove Tucidide dice la sua personale impressione anche sul regime formatosi dopo la caduta dei Quattrocento. Il che renderebbe necessario un secondo ‘doppio’...

18 Tucidide, VIII, 67, 2 e 69, 2-3.

19 Tucidide, VIII, 69, 1.

20 Tucidide, VIII, 69, 4.

21 Ibid.: εἴ τί που δέοι χειρουργεῖν (sic!).

22 Ibid. (sub fine).

23 Tucidide, VIII, 70, 1: οἱ ἄλλοι πολῖται οὐδὲν ἐνεωτέριζον, ἀλλ᾿ἡσύχαζον.

24 Tucidide, VIII, 70, 2.

25 G. De Sanctis, Postille tucididee, «Rendiconti della Reale Accademia Nazionale dei Lincei» s. VI, 6, 1930, p. 318 [= Studi di Storia della Storiografia greca, La Nuova Italia, Firenze 1951, p. 97; Scritti minori, IV, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1976, p. 514].

26 Le Vespe da cima a fondo. Cfr. [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, III.