«Era dei nostri»

Non è del tutto vero che della commedia ateniese del V secolo a.C. conosciamo soltanto un manipolo di appena undici commedie, tutte di Aristofane, due delle quali riflettono uno scenario cittadino totalmente modificato, dopo la guerra civile e la fine dell’impero. Abbiamo molti spezzoni di altri, da Cratino a Platone comico ad Eupoli, molti spezzoni dell’Aristofane perduto e, non meno rilevante, ciò che Aristofane dice dei suoi rivali. Abbiamo anche, in molti casi, le notizie sull’esito dei concorsi comici e tanti titoli di commedie, anch’essi in certa misura parlanti.

Il fatto però che, spentosi, nelle epoche seguenti, l’apprezzamento per la commedia politica, sia alla fine sopravvissuto ed entrato nel «canone» soltanto Aristofane e soltanto per quelle commedie, sapientemente selezionate, significherà che in lui, nella sua produzione, era presente – e veniva percepita – una densità e sottigliezza intellettuale (critica filosofica, critica artistica, critica sociale) ben più alta che in altri esponenti della breve stagione della commedia «antica». Vero è che, se di Aristofane avessimo soltanto le invettive contro l’odiato leader ‘popolare’ Cleone e non molto altro (come dei Chironi di Cratino ci restano, staccati dal contesto, i feroci e grossolani insulti contro Pericle e Aspasia), avremmo di Aristofane un’idea unilaterale.

Con tutte le cautele del caso, questo ci consente di affermare che in lui vi fu molto più che un semplice artigiano del divertimento. Forse non si apprezza nel suo pieno significato la trovata di Platone di mettere Aristofane, tra i protagonisti e parlanti, nel Simposio, accanto a Socrate, ad Agatone e ad Alcibiade. Vi è una ‘sentenza’, molto nota, di Benedetto Croce, espressa quando lesse le lettere dal carcere di Antonio Gramsci, appena pubblicate: «era dei nostri». Essa si adatta bene al nostro caso, ad esprimere il significato della inclusione di Aristofane nel Simposio.

Aristofane fu un ‘moderno’ che volle indossare la maschera del tradizionalista ‘all’antica’ per reagire, con un gesto essenzialmente estetico, al fastidioso prevalere della massa popolare e dei suoi capi nella vita pubblica di Atene. Per apparire pienamente coerente con tale scelta estetica e cimentandosi in un’arte a destinazione eminentemente ‘popolare’ come la commedia, Aristofane ‘perfeziona’ quella maschera con un ruvido popolarismo peraltro di continuo insidiato dalla raffinata sua cultura poetica che traspare quasi dovunque, piacevolmente inaspettata. E inoltre, sempre per tener fermo il suo travestimento da «ultravecchio» (come scrisse di lui Nietzsche) egli bersaglia di continuo i simboli della cultura moderna che sta erodendo la coesione della polis: Euripide e Socrate, e Agatone e altri ancora. Ma soprattutto Euripide. Grandi artigiani del teatro comico, ben più anziani di lui, non credettero però all’autenticità di quel travestimento. Cratino, l’«Eschilo della commedia» secondo una diffusa metafora, faceva dire ad un suo personaggio che Aristofane era «per metà un Euripide». E coniò un neologismo efficace per dir questo. Un neologismo che equivarrebbe ad una sentenza di segno opposto a quella con cui abbiamo aperto questa nota: «Non sei dei nostri!».

Quanta parte abbia avuto, in tale equilibrio tra gli opposti, la potente attrazione della politica negli anni infuocati in cui Aristofane operò, cioè quelli della grande guerra e del tracollo dell’impero (431-404 a.C.), diremo nelle pagine che seguono.