1.
La Boulé terameniana
e i «buleuti dell’anno passato»
(settembre 411-aprile 410)

1.

La caduta della cricca dominante durante il regime dei Quattrocento (Antifonte, Pisandro, Aristarco etc.) avviene a metà-fine settembre del 411. Lo si ricava in modo certo dal dato che Aristotele, per via attidografica, trae da documenti: che cioè, per l’anno 411/410 (= Ol. 92.2) fu in carica per soli due mesi l’arconte messo lì dai Quattrocento. Due dei complessivi «quasi quattro» quanto durò quel governo. L’anno ufficiale 411/410 aveva avuto inizio il 25 luglio1. Dunque il cambiamento avvenne entro la fine di settembre del 411. Subentrò un nuovo arconte – Teopompo –, a significare la rottura, il cambio di regime, e restò in carica per i restanti dieci mesi, fino al luglio del 410.

Quale la situazione e quale la forma dei poteri subentrati al traumatico rivolgimento?

Sembra evidente che il cambio dell’arconte eponimo implichi che anche gli altri arconti furono sostituiti. E che dunque, se si era rimesso in moto il teatro dopo le convulsioni dei mesi precedenti, protrattesi da gennaio a maggio, l’attribuzione del coro – a chi l’avesse già chiesto – dovette essere rimessa in mano ai nuovi arconti. Sarebbe stato ben strano che venisse avallata una scelta, in realtà politica, come tutto ciò che riguarda il teatro, dei concorrenti e dei coreghi, fatta dal regime caduto con tanto fragore. Altra possibilità è che la macchina teatrale non fosse ancora partita e che perciò ai nuovi arconti, installati col nuovo regime ‘terameniano’, sia toccato il compito di «attribuire» il coro in vista delle Lenee e delle Dionisie del 410. Un cambiamento molto netto che non poté non avere effetti sull’orientamento e le scelte degli aspiranti.

2.

Sulle modalità del cambiamento, Aristotele se la cava con una sola frase: «Abbatterono (κατέλυσαν) i Quattrocento e consegnarono il potere ai Cinquemila, reclutati tra gli opliti, e vararono un decreto secondo cui a nessuna magistratura doveva essere corrisposto un salario»2. Soggetto di «abbatterono» è certamente «gli Ateniesi», che è soggetto anche del subito precedente «sconfitti (ἡττηθέντες) nella battaglia di Eretria».

Il resoconto di Tucidide è più dettagliato: «A queste notizie [la defezione dell’Eubea], gli Ateniesi (οἱ Ἀθηναῖοι) riuscirono comunque ad armare venti navi, e convocarono un’assemblea (ἐκκλησίαν), una subito sulla cosiddetta Pnice – dove anche in altre occasioni erano soliti radunarsi –, durante la quale, dichiarati decaduti i Quattrocento, deliberarono – con decreto – di consegnare il potere ai Cinquemila (e che questi rientrassero nella categoria dei cittadini in grado di armarsi a proprie spese), e decretarono anche che nessuna carica venisse retribuita, che, infine, la violazione di tale divieto comportasse la maledizione del colpevole»3.

La formula di «maledizione» comporta l’auspicio che i colpevoli contro cui viene scagliata vadano incontro ad una degna fine. È una richiesta (agli dei) di distruzione del colpevole. Non è la forma dell’antica atimia ma un po’ gli rassomiglia. È a tutti gli effetti una minaccia di morte4: la questione semmai è di capire con quanta effettiva volontà operativa venisse scagliata. Molto opportunamente Andrewes osservò che l’iniziativa in sé nonché la formula adottata «tradiscono il sospetto che ai tentativi di restaurare la paga non si sarebbe potuto a lungo resistere»5.

Aristofane, nelle Tesmoforianti, nell’importante inserto politico dei vv. 330-380 (di cui diremo più oltre), prende a modello questo genere di defixio. L’aralda invoca analoghe «maledizioni» su chi attenta alla democrazia (335), propugna e contribuisce ad installare tiranni (338-339), tenta accordi coi Persiani (337). E il coro delle donne, che costituiscono «il popolo delle donne», ribadisce l’auspicio appesantendo – se possibile – i toni allusivamente politici6.

Il resoconto tucidideo così prosegue: «Ci furono poi molte (πυκναί) altre assemblee, per iniziativa delle quali vararono la nomina di nomoteti e tutto il resto riguardante il regime politico (τἆλλα εἰς τὴν πολιτείαν)».

Segue il celebre giudizio straordinariamente positivo di Tucidide sul periodo e sul modo di governo dei Cinquemila: un giudizio che Tucidide dichiara fondato sulla diretta esperienza7, e che tanto più colpisce perché quasi mai Tucidide si spinge a tali livelli di incondizionata ammirazione per una forma politica8. (Ammira Pericle perché ha ‘svuotato’ il modello democratico riducendolo a mera parvenza9.)

Dopo aver segnalato la propria diretta, e ammirata, esperienza di quel governo, cui attribuisce anche la ripresa militare di Atene10, Tucidide riprende il resoconto sull’attività del nuovo regime, e ancora una volta cita atti pubblici compiuti «dagli Ateniesi», cioè dalla rivitalizzata e in quel momento particolarmente attiva assemblea popolare: «Vararono anche un decreto (ἐψηφίσαντο) che prevedeva il rientro di Alcibiade e di altri con lui e mandarono messi a lui e all’accampamento ateniese a Samo con la viva raccomandazione (διεκελεύοντο: quasi una direttiva, un ordine) di prendere in mano la situazione (ἀνθάπτεσθαι τῶν πραγμάτων)».

L’espressione è volutamente vaga (τὰ πράγματα), ed è qui certamente citazione letterale del messaggio inviato ad Alcibiade redatto o ispirato dallo stesso Teramene. Significa varie cose: «proseguire con impegno le operazioni militari», ma anche «intervenire attivamente sul piano politico». In sostanza un’‘apertura’ che preludeva ad un graduale ripristino dell’ancien régime democratico. Non si spiega altrimenti la curiosa situazione creatasi: un corpo civico ristretto, ma un’assemblea popolare operativa su temi fondamentali: dalla nomina dei nomoteti, al richiamo di alcuni esuli eccellenti, alla decisione – rilevantissima – di stabilire piena collaborazione con l’esercito e la flotta di stanza a Samo.

Che queste siano state decisioni dell’«assemblea» (che ovviamente include il corpo civico dei Cinquemila) appare certo. Tucidide lo dice in modo inequivocabile: «radunarono l’assemblea: una riunione subito, successivamente ve ne furono molte altre», ἐκκλησίαν ξυνέλεγον μίαν μὲν εὐθύς ~ ἐγίγνοντο δὲ ἄλλαι ὕστερον πυκναὶ ἐκκλησίαι, dove μία / πυκναί ed εὐθύς / ὕστερον stanno a significare che si trattava dello stesso organo, dell’ἐκκλησία.

Questo dato di fatto non ha ricevuto l’attenzione che meritava. Wecklein e van Herwerden hanno anzi provato fastidio per quella notizia e, come si usa, hanno pensato di cambiare il testo: da πυκναί («molte, frequenti») volevano passare al supertautologico ἐν πυκνί («sulla Pnice»), che ha giustamente infastidito Andrewes11. Il quale però non si è posto la domanda: come mai tante «frequenti» assemblee popolari (ἐκκλησίαι) in presenza di un ormai costituito corpo civico ristretto? Con quali poteri e con quali funzioni? È chiaro che questo è il tratto più importante del governo di Teramene: al solito capace di tenere sempre viva anche un’alternativa, che era anche una ‘valvola’ ma che poteva giovare ottimamente ad un trapasso indolore all’ancien régime democratico; come poi avvenne.

Il senso della ‘resurrezione’ – voluta certamente da Teramene – dell’assemblea popolare non viene generalmente inteso appieno: gli studiosi sembrano quasi impazienti di ‘liberarsi’ del periodo dei Cinquemila. Chi ha compreso invece il rilievo, il senso e le implicazioni della vicenda è stato, come in varie altre questioni, Geoffrey de Ste. Croix: «Under that constitution [quella terameniana dei Cinquemila] – as under Solon’s – all citizens had the basic political rights of sitting in the assembly and the courts, while the Council [la Βουλή] and no doubt all other ἀρχαί became the exclusive preserve of the ὅπλα παρεχόμενοι, who consequently could be said to have control of affairs». E precisa cogliendo in pieno la sostanza della questione: «... it was always a precarious control, because it rested on a voluntary concession of power by the whole demos to the upper classes, the demos retaining, and after some months exercising the right of revocation»12. Questo è il quadro esatto degli equilibri di potere tra gli organi in quei primi mesi dopo il settembre 411.

Ma c’è un punto cruciale che va messo in luce ed è invece passato quasi inosservato: in tanto riesce a Teramene l’operazione di convocare un’assemblea popolare che sancisca la decadenza dei Quattrocento e il passaggio dei poteri ai Cinquemila in quanto la lista dei Cinquemila non esisteva13, e dunque non era convocabile nessun altro corpo civico. Era necessario il passaggio attraverso un organo, e l’unico organismo possibile (e di per sé esistente) era per l’appunto l’assemblea.

Così si spiega anche la convivenza de facto di Cinquemila e assemblea (riunione comune, ma ‘votano’ solo i Cinquemila); nonché la percezione, da parte di Teramene, della instabilità e quindi provvisorietà della forma costituzionale escogitata. Ed è ancora una volta solo il racconto tucidideo che rende comprensibile l’esatto sviluppo degli avvenimenti.

Se le riunioni dell’assemblea proseguono, e certamente includono i Cinquemila, si deve pensare che comunque la votazione deliberante fosse riservata ai cittadini pleno iure (agli ὅπλα παρεχόμενοι) presenti, e forse maggioritari, nell’assemblea. Ecco perché Tucidide descrive il sistema instauratosi come «mescolanza (ξύγκρασις)» e perciò «capace di tener conto dei molti e dei pochi (ἐς τοὺς ὀλίγους καὶ τοὺς πολλούς)». La riconfermata abrogazione del salario – eliastico e assembleare14 – non solo scoraggiava dal partecipare alle assemblee i non appartenenti al corpo civico pleno iure ma ribadiva il carattere censitario dell’ordinamento.

Il fenomeno merita attenzione. L’assemblea di ‘tutti’ è una struttura profonda della polis (visibile sin dal tempo di Solone), da cui nessuna oligarchia poté né può prescindere. Anche i Quattrocento avevano avuto bisogno del varo da parte dell’assemblea (quantunque terrorizzata e sotto scacco), una prima e una seconda a Colono15: e persino i Trenta, sia pure formalmente e in condizioni estreme, erano stati designati da un’assemblea popolare16. Giacché, la polis sono tutti; è il livello di potere che può essere ‘graduato’. L’errore principale dei Quattrocento era stato di non tirare mai fuori la lista dei Cinquemila. Dottrinari in preda ad una lucida follia, i Trenta tenteranno una soluzione da filosofi che progettano la politeia a tavolino: svuotare la città fino a far coincidere i Tremila (il loro corpo civico) con «i tutti», ma ne scaturì una feroce guerra civile conclusasi con la loro sconfitta. Dopo d’allora il sistema cambiò più volte, ma nessun esperimento oligarchico fu così radicale. È significativo che, per i Trenta, fosse Teramene il nemico principale e che nella democrazia restaurata dopo la guerra civile Teramene assumesse le fattezze del vero patriota17.

Nel settembre/ottobre del 411, comunque, la soluzione terameniana della «mescolanza» si basava palesemente su di un equilibrio instabile, legato ai rapporti di forza effettivi. Poté reggere per un po’ perché il ‘demo’ aveva subito una sconfitta molto seria: la tradizionale base sociale della democrazia radicale era ancora sotto l’effetto dei colpi patiti durante i mesi del terrore (gennaio-aprile 411); aveva perso via via i suoi capi, ammazzati dalla jeunesse dorée peraltro tuttora impunita (da Androcle «il capo più in vista del demo» agli altri «scomodi» [ἀνεπιτηδείους] eventuali oppositori)18; e la flotta era fuori (soprattutto a Samo), impegnata in modo continuativo. E infatti la reazione attiva contro la cricca che egemonizzava i Quattrocento non era partita dal demo terrorizzato e disperso ma da una parte degli opliti19. Per ora l’equilibrio sbilanciato a favore del nucleo oplitico dei Cinquemila poteva reggere, ma una svolta positiva sul piano militare, ovviamente ormai in mano ad Alcibiade, avrebbe riportato all’ordinamento tradizionale (di cui la rinascita dell’assemblea era una significativa premessa). E Teramene era il primo a saperlo: e perciò mandava messaggi all’esercito combattente, incitandolo ad ἀνθάπτεσθαι τῶν πραγμάτων!

3.

È facile comprendere che dunque in una tale situazione molto potere spettasse alla Boulé. (Lo si può osservare anche nella gestione dei processi contro la cricca sconfitta, di cui diremo più oltre.) Il punto di partenza è lo scioglimento – deliberato dalla prima assemblea – del Consiglio dei Quattrocento, del resto in parte decimato dalle fughe e dai processi (o, come nel caso di Frinico assassinato al rientro dalla missione segreta a Sparta, dalla proditoria soppressione fisica).

Ma di quale Boulé si trattava e come era composta? E dotata di quali poteri? Un punto fermo è che non poté comunque trattarsi di una Boulé ‘clistenica’ di 500 sorteggiati: non solo perché quello era al più alto grado l’organo distintivo e peculiare della democrazia, ma soprattutto perché – a rigore – un Consiglio di sorteggiati (cioè di non necessariamente ὅπλα παρεχόμενοι) avrebbe finito con l’aver potere su di un corpo civico socialmente ‘superiore’ (a meno di introdurre una limitazione anche al sorteggio: attingere unicamente alla lista dei Cinquemila)20.

Che, comunque, la Boulé ‘terameniana’ non fosse fondata sul sorteggio è stato da molti osservato sulla base di un fondamentale documento, il decreto di Demofanto – varato all’inizio dell’anno amministrativo 410/409 (arconte Glaucippo), e cioè all’inizio della prima pritania (fine giugno 410) – che si apre con le parole: «La validità di questo decreto decorre dall’entrata in carica della Boulé dei Cinquecento eletta a sorte, per la cui prima pritania Cligene faceva da segretario»21. La precisazione – altrimenti pleonastica e mai presente nei decreti – «la Boulé dei Cinquecento eletta a sorte con la fava (ἡ Βουλὴ οἱ πεντακόσιοι <οἱ> λαχόντες τῷ κυάμῳ)» sta ad indicare l’innovazione rispetto alla Boulé in carica nei mesi precedenti, cioè quella in carica sotto i Cinquemila22.

Si procedette dunque effettivamente alla elezione di una nuova Boulé ed essa fu di 500 componenti ma elettiva?

Un’ipotesi che ha avuto un certo successo è che la Boulé terameniana dev’essere stata di 500 perché (?) Alcibiade, quando i messi dei Quattrocento ancora al potere erano venuti a trattare con lui a Samo, aveva accettato la limitazione del corpo civico a 5000 (col correttivo strumentale prospettato dai messi dell’inclusione prima o poi di tutti, a turno, nel novero dei Cinquemila) a patto che cacciassero i Quattrocento e si ripristinasse la Boulé clistenica23. Ovviamente erano condizioni inaccettabili per i Quattrocento, e perciò non se n’era fatto nulla. Ma è congettura arbitraria pensare che Teramene avesse ora ripreso la proposta di Alcibiade ritoccandola però sul punto più importante e dando vita ad una ‘paraclistenica’ Boulé di eletti24.

La premessa, ovvia, è che una Boulé certamente ci fu, e non poteva non esserci, anche nel periodo dei Cinquemila. Anche se Tucidide25 non ne parla, c’è un documento che lo attesta in modo certo: il decreto di Andron26. È il decreto varato dalla Boulé (non un probuleuma, ma un decreto) che deferisce, su denuncia degli strateghi27, tre capi della cricca, appena sconfitta, dei Quattrocento (Antifonte, Archeptolemo e Onomakles) davanti ad un tribunale (εἰς τὸ δικαστήριον) con l’accusa di alto tradimento in favore di Sparta. Questa Boulé non ha evidentemente bisogno del conforto di altri organi per procedere ad un tale provvedimento: ἔδοξε τῇ βουλῇ. Andron è colui che ha formulato l’accusa, e fa ovviamente parte della Boulé che lo ha ascoltato e ha approvato la sua proposta. Orbene, Andron è «uno dei Quattrocento» e in tale veste «presentò il decreto su Antifonte»: lo apprendiamo da un prezioso frammento della raccolta, commentata, dei Decreti attici compilata, nel solco aristotelico, dall’erudito macedone Cratero28. Cratero aveva incluso questo decreto nella Raccolta per il suo rilievo: perché documentava un evento celebre (la condanna a morte di Antifonte), che aveva interessato molto il suo maestro Aristotele29. Nel commento30, chiariva che Andron «artefice di quel decreto» «era uno dei Quattrocento», intendendo senza dubbio dire che in tale veste aveva presentato quel decreto31. Era la resa dei conti tra le due ‘anime’ che avevano cooperato nella congiura ma poi erano giunte a scontrarsi.

Tutto fa dunque pensare che la Boulé di cui faceva parte Andron nel momento in cui condannava Antifonte e compagni fosse quella stessa dei Quattrocento a ranghi rinnovati o meglio epurati (fuori e in disgrazia i fedelissimi del gruppo sconfitto, rimpiazzati con fedeli di Teramene)32, o comunque una ‘nuova’ Boulé (di quattrocento se ci teniamo all’informazione di Cratero) che non molto però differiva da quella appena deposta. Che ci si fosse attenuti alla misura di 400 buleuti si spiega. Oltre tutto 400 è il numero ‘soloniano’ (una tradizione allora ben viva: ritorno a Solone!), di quella ‘costituzione di Solone’ la cui esistenza era data per certa negli ambienti dei congiurati del 41133. E ‘soloniana’ – come ben vide de Ste. Croix – fu anche la trovata di mescolare in assemblea corpo civico pleno iure ed esclusi dal novero dei Cinquemila.

Non si può nemmeno escludere che, per colmare i ‘vuoti’, si sia fatto ricorso anche ad alcuni buleuti scacciati dalla sede del Consiglio al momento della presa del potere da parte dei Quattrocento in giugno.

4.

Si prospetta dunque una spiegazione di molto preferibile ad altre che sono state tentate dei vv. 808-809 delle Tesmoforianti: versi in cui vengono derisi – e raffrontati con donne di ben altra saggezza – quei buleuti che «l’anno scorso» hanno ceduto ad altri il ruolo di buleuti.

Quei versi sono il solo fondamento certo per la datazione delle Tesmoforianti. Nella parabasi, pronunciata dalla corifea, l’autoelogio delle donne è molto articolato e riguarda i più diversi aspetti del reale. Un concetto campeggia (che fa venire in mente i ‘paradossi’ del quinto libro della Repubblica di Platone) presentato scherzosamente come un raffronto tra nomi propri: le donne fanno meglio degli uomini anche i mestieri degli uomini. Tra gli altri, la guerra e la politica. Nausimaca ed Eubule (nomi parlanti) vengono contrapposte a Carmino (804) e ai «buleuti dell’anno passato» (808). Carmino, si osserva generalmente e giustamente, viene contrapposto ad una Nausimaca («che sa combattere per mare»: ma per lo scolio è anche il nome di una prostituta, come anche colei che viene contrapposta, poco dopo, a Cleofonte) perché in uno scontro, peraltro quasi insignificante, ha perso sei navi (ma ne aveva affondate tre del nemico)34. Ma Carmino è innanzi tutto lo stratego del 412/411 che, a Samo, ha partecipato all’ammazzamento proditorio di Iperbolo35 (il capo popolare ostracizzato nel 418/415 e lì rifugiatosi). Gli strateghi dell’oligarchia erano stati deposti con la fine della dittatura dei Quattrocento, ed è difficile che Carmino sia rimasto al suo posto al momento dell’insurrezione democratica a Samo capeggiata da Trasibulo e Trasillo appoggiati dai Samii36. L’incidente delle sei navi sarà stato propalato e usato contro di lui nel momento della sua cacciata.

Ma veniamo ai molto discussi versi (808-809) in cui alla (immaginaria) Eubule vengono contrapposti «i buleuti dell’anno scorso che hanno consegnato ad un altro il loro potere (τὴν βουλείαν)». Scartiamo subito la spiegazione ‘minimalista’ prospettata da Maurice Croiset (1906)37 e fatta propria da Alphonse Willems (1919)38 secondo cui la frase si riferirebbe al normale passaggio di poteri da una Boulé alla successiva. Se così fosse non si capirebbe perché mai evocare tale comportamento come criticabile! Né si vede in che cosa mai consistesse il comportamento criticabile di quei buleuti, a fronte della ‘saggezza’ di Eubule; e non si capirebbe perché mai – non essendovi nulla di criticabile nei loro comportamenti a parte l’atto dovuto di passare la mano ai successivi – essi sarebbero citati qui in un contesto che oppone le virtù femminili ai difetti (colpe, errori) maschili. Ma, pazienza. Valeva la pena comunque far cenno a questa assurdità in considerazione dell’autorevolezza di coloro che l’hanno sostenuta. Per Croiset si tratta forse della sua inclinazione a sterilizzare Aristofane sul piano politico; per Willems (patriota belga, all’indomani della Prima Guerra Mondiale) ipotizziamo un ‘partito preso’ contro qualunque suggerimento provenga dalla ‘philologie allemande’. Dunque mettiamo da parte questi sforzi miranti essenzialmente a non capire.

Sin dall’inizio parve palmare, e non senza motivo, a tutti gli interpreti39 che qui si facesse riferimento all’unico traumatico e coatto passaggio di poteri dalla Boulé ad «altri» (ἑτέρῳ) accaduto – per viltà – in quel torno di tempo: la cacciata dei Cinquecento dalla loro sede istituzionale ad opera dei Quattrocento e dei loro squadristi tutti bene armati il 14 Targelione del 411 (fine giugno o luglio a seconda dei calcoli). La datazione perciò della commedia nel 410 era ovvia conseguenza di una tale sapida e pertinente stoccata. Alan Sommerstein40 ha richiamato, a questo proposito, le parole con cui Tucidide stigmatizza l’arrendevolezza della Boulé sfrattata dai Quattrocento: «senza batter ciglio», «senza fiatare», οὐδὲν ἀντειποῦσα (VIII, 70, 1). Chi tentò un’altra spiegazione, che parve salvifica al fine di arretrare al 41141, fu Karl Otfried Müller, nel capitolo su Aristofane della sua postuma Storia della letteratura greca [1841]. «Se collocassimo le Tesmoforianti nel 410 – egli scrisse – dovremmo respingere il dato fornito dallo scolio al v. 53 delle Rane42. Dunque il v. 808 sui buleuti destituiti non potrà riferirsi allo sgombero del Consiglio dei Cinquecento da parte dell’oligarchia dei Quattrocento (Tucidide, VIII, 69), che non ebbe luogo se non dopo le Dionisie del 411: evidentemente – ipotizzava – quel verso riguarda un’altra vicenda, quella dei buleuti del 412 (Ol. 91.4) che dovettero cedere una parte delle loro funzioni al collegio dei probuli (Tucidide, VIII, 1)»43.

L’obiezione più ovvia alla proposta, peraltro cautamente formulata, di K. Otfried Müller è che i buleuti, in quell’occasione, non furono soppiantati (e invece «consegnare44 τὴν βουλείαν» significa appunto consegnare, passare le consegne). E la βουλεία non è solo la funzione ma anche la durata della carica di buleuta45: il che si addice ai buleuti cacciati anzitempo e umiliati con la regalía del salario residuo, nel Targelione 411.

Osservò molto sensatamente Rudolf Schöll (1877) che erronea­mente sono stati equiparati – dal punto di vista dei poteri e delle competenze – i probuli ateniesi nominati nel 413 ai probuli tipicamente oligarchici di cui parla Aristotele nella Politica (1299b, 30-40)46. Schöll notava che gli ambiti di intervento dei probuli indicati da Tucidide (VIII, 1, 3) – navi, rifornimenti di legno, risorse economiche – sono quelli che si ricavano dallo scontro dialettico tra il Probulo e Lisistrata (legno per navi [421-422] e risorse soprattutto). E persino per la scelta degli ambasciatori è alla Boulé che ci si rivolge (v. 1011).

Ma quell’osservazione di Müller si basava comunque su di un calcolo discutibile:

ottobre 413: definitiva notizia ad Atene del disastro siciliano e nomina dei probuli (Tucidide, VIII, 1). (In luglio era incominciato l’anno amministrativo 413/412, arcontato di Cleocrito.) I buleuti che accettano la nomina dei 10 probuli erano entrati in carica da qualche mese: sono i buleuti del 413/412;

412/411 (arconte Callia): in luglio 412 è entrata in carica una nuova Boulé. Anche questa Boulé aveva accettato la limitazione dei propri poteri implicita nella nomina dei probuli.

Se dunque Tesmoforianti, 808 fosse da datare nel febbraio o nell’aprile 411 [anno 412/411] non si vede perché riferirsi (con l’espressione «i buleuti dell’anno passato») a quelli del 413/412 anziché a quelli criticabili per la stessa ragione del 412/411. Anche questi sono nella medesima condizione, di aver ceduto potere in favore dei probuli. Non era una peculiarità di «quelli dell’anno scorso».

Non ha poi senso, se si considera seriamente la notizia sulla nomina dei probuli, parlare di «buleuti che hanno consegnato la loro funzione, il loro ruolo, di buleuti». Chi legga la dettagliata pagina tucididea47 su come si giunse ai vari provvedimenti di emergenza (ivi compresa la nomina dei probuli), si rende conto che si trattò di una decisione presa dall’assemblea, forse addirittura su proposta (se ci fu un probuleuma) della Boulé. Le varie decisioni prese in quella occasione (fare rifornimenti di legno, mettere in sicurezza gli alleati e soprattutto l’Eubea, ridurre le spese, nomina di anziani con vasta funzione di supervisione) sono tutte ricondotte, con puntuale notazione psicologica, da Tucidide a quella «spontanea autodisciplina (ἑτοῖμοι ἦσαν εὐτακτεῖν) che il popolo si dà (ὅπερ φιλεῖ δῆμος ποιεῖν) a fronte e per effetto di paure incombenti (πρὸς τὸ παραχρῆμα περιδεές48.

L’espressione che si legge in Tesmoforianti, 808 evoca tutt’altro: fa pensare a dei buleuti che «consegnano», per viltà e sotto pressione, la loro funzione ad altri. E comunque è un fatto che il ‘probulo’ appare nella Lisistrata, non nelle Tesmoforianti, dove invece c’è come rappresentante del potere, un normalissimo Pritane, cioè il responsabile della pritania che a turno dirige la Boulé.

Se fossimo nell’aprile 411 saremmo in un momento di paralisi degli organismi tradizionali49. Invece nel 410 (Dionisie, o Lenee) quella stoccata ha ben più senso: la umiliante cacciata – l’anno prima (giugno 411) – dei buleuti dalla loro sede era ben viva nel ricordo come memorabile capitolazione. Stoccata tanto più pungente se, nel frattempo, qualcuno dei buleuti scacciati l’anno prima era stato recuperato nella ‘nuova’ Boulé posta in essere da Teramene nell’ottobre del 411.

Julius Richter (1816-1877), notevole interprete di Aristofane e studioso in particolare della diversificata composizione del pubblico della commedia50, che pone alle Dionisie del 410 le Tesmoforianti a noi giunte sulla solida base del cenno (v. 841) alla morte, «quattro anni prima», di Lamaco, ha colto bene il senso di questa parabasi e in particolare della contrapposizione tra Eubule e i buleuti felloni. Quella parabasi – scrive – «rende molto bene il clima subito successivo alla caduta dei Quattrocento, quando gli stati d’animo (die Gemüther) erano ancora tesi (aufregt) e confusi (befangen)». Si chiede quanti, nel pubblico, abbiano colto l’ironia dell’escogitazione del nome Eubule – «la nuova dea Eubule» –, un nome che dovrebbe evocare il ripristinato ordine politico: «lo stesso Aristofane – prosegue – non era ancora del tutto contento del nuovo stato di cose, della ‘nuova dea’ Eubule, e probabilmente non del tutto d’accordo, non si fidava ancora». «E anche questo – conclude – ha a che fare con la cronologia»51.

5.

Ancora a proposito della Boulé terameniana e delle Tesmoforianti. La Boulé delle Tesmoforianti non solo ha il potere di convocare l’assemblea (vv. 372-375)52 ma anche quello di decidere e far eseguire una condanna capitale (vv. 76-80; 938; 942-943). Ovviamente la precisazione (quasi sempre) «Boulé delle donne», «Ekklesía delle donne», inerente alla trama della commedia, non toglie valore al fatto, di immediata comprensione, che comunque vengono mimate istituzioni realmente esistenti. (Il cenno esplicito ai «buleuti dell’anno scorso» conferma ulteriormente che le istituzioni realmente esistenti sono ben presenti.) Sin dall’inizio della commedia, quando Euripide fa sapere con pathos che «oggi si deciderà la vita o la morte di Euripide» (vv. 76-77), Mnesiloco – il «parente» suo che travestito si infiltrerà nell’assemblea delle donne decise a condannare Euripide – gli risponde: «Ma oggi non c’è seduta né dei tribunali né della Boulé» (vv. 78-79). Alla fine Mnesiloco, scoperto, sarà condannato a morte dalla Boulé (v. 943: ἔδοξε τῇ βουλῇ). Con circospezione, Peter John Rhodes osservò, quasi mezzo secolo fa, che «questo brano sembra suggerire che la Boulé al tempo delle Tesmoforianti aveva poteri più grandi che in seguito», sempre che – soggiungeva – «la prendiamo sul serio»53. (Ma non si vede perché no.)

Se ci trovassimo nell’aprile 411 (data prevista per le Dionisie) questo sarebbe impensabile. Prima di essere scacciata dalla sua sede la Boulé in carica allora era un organo svuotato di ogni potere, eterodiretto dai congiurati, i quali non sentirono il bisogno di formali condanne a morte degli avversari ma li facevano liquidare fisicamente senza formalità e impedendo qualunque inchiesta54.

La Boulé è all’opera daccapo – e lo si è visto col decreto di Andron – quando la dittatura della cricca di potere dei Quattrocento è stata sconfitta, e Teramene ha fatto deliberare dalla ‘sua’ Boulé i provvedimenti necessari per eliminare ‘legalmente’ gli avversari sconfitti. «The Tesmophoriazusae is unique if it does imply that the boule’s judicial powers were unlimited»55.

Ed è senza dubbio vero che solo in casi di eccezionale gravità la Boulé fu coinvolta: si possono citare il processo contro ermocopidi e profanatori dei misteri (la cui posta in gioco fu enorme) e il processo agli strateghi delle Arginuse (allorché la Boulé, nel deferire alla giustizia popolare i generali accusati da Teramene, li fece senz’altro arrestare e rinchiudere in prigione prima ancora che venisse espresso il verdetto)56. Nei processi contro la cricca sconfitta dei Quattrocento, promossi e orchestrati da Teramene, il ruolo della Boulé fu altrettanto debordante. Per questo è decisivo, per la cronologia delle Tesmoforianti, il ruolo che vi svolge la Boulé57.

6.

La discussione intorno alle Tesmoforianti ebbe per tutto l’Ottocento grandi protagonisti e ben altro tema (410 o 411?) che non il dilemma Lenee o Dionisie. Lo si ricava con chiarezza dalla lunga trattazione che Wilamowitz dedicò al problema nel 1893 nel secondo tomo di Aristoteles und Athen58. Anche se non sempre si degna di fare i nomi dei suoi interlocutori e preferisce lasciarli nell’ombra, essi giganteggiano ugualmente: il principale (Droysen [1808-1884]) neanche lo nomina ma il lettore avveduto si accorge che quello è il costante bersaglio59; l’altro è Rudolf Schöll (morto nel giugno del ’93 mentre usciva Aristoteles und Athen), il grande amico di Mommsen, e perciò trattato con maggior riguardo, comunque nascondendone la tesi principale. Schöll, l’insigne studioso delle XII Tavole, aveva dedicato una fondamentale trattazione alle ‘magistrature straordinarie’ ateniesi, in un elegante saggio in latino (cui s’è già fatto cenno) incluso nelle Commentationes philologae per il sessantesimo compleanno di Mommsen (1877): De extraordinariis quibusdam magistratibus Atheniensium (pp. 451-470). Qui – affrontando con equilibrio la questione dei probuli nominati nel 413 – Schöll giungeva necessariamente a trattare anche della Lisistrata e delle Tesmoforianti (c’è un probulo nell’una, un pritane nell’altra); per le Tesmoforianti, pur non rifiutando la suggestione di K.O. Müller a proposito dei «buleuti dell’anno passato», notava che non per questo la questione della datazione può considerarsi risolta («fateor quaestionem de actae Thesmophoriazusarum tempore ne nunc quidem profligatam videri»)60. Con agilità occultatrice, Wilamowitz, dopo aver riferito l’osservazione di K.O. Müller, cita Schöll con queste sole parole: «persino R. Schöll non combatte questa proposta»61. Null’altro: anche se Schöll trattava proprio il tema probuli/pritani, su cui Wilamowitz torna subito dopo. Il lettore così non saprà mai cosa Schöll pensasse della data delle Tesmoforianti. Per completare questo quadro sommario, ricordiamo qui gli argomenti addotti da Julius Richter contro Müller e nella scia di Droysen.

Colpisce come, di tutta questa discussione, piuttosto accesa, tra giganti dello studio dell’antichità, si sia persa traccia nei lavori dei recentiores!

Ma che la vera questione fosse per l’appunto la rilevanza non trascurabile degli argomenti a sostegno della datazione 410 (in contrasto con l’ipotesi costruita sul cenno all’Andromeda di Euripide come dramma «dell’anno prima»)62, Wilamowitz lo aveva ben compreso. La sua impegnativa presa di posizione del 1893 – dato il prestigio sempre più accentuato del princeps philologorum – ha influenzato diadochi ed epigoni. Su questo problema delle Tesmoforianti però Wilamowitz non è ritornato in vecchiaia, come ha invece fatto per la questione delle Rane spiazzando chi si era allineato con la sua presa di posizione del 188963. Perciò la più che plausibile data 410 per le Tesmoforianti è stata accantonata. Ma quando si affrontano controversie secolari di questo genere è sempre importante tenersi informati sulla storia degli studi, sulla forza culturale dei protagonisti etc. Altrimenti si perde di vista l’essenziale.

Ma torniamo alle Tesmoforianti. Mentre gli studiosi venuti dopo si sono arrovellati soprattutto intorno all’agone (Lenee o Dionisie), dando per ovvio l’anno, Wilamowitz aveva ben chiaro che il problema principale era l’anno. Perciò nel suo plaidoyer64 cerca di liquidare, anzi sbaragliare, tutto ciò che disturba la sua opzione per il 411:

a) approva senz’altro il suggerimento, presentato con qualche cautela da K.O. Müller, di spiegare il rimprovero ai buleuti «dell’anno precedente» come riferimento all’instaurazione dei probuli (p. 344);

b) la constatazione «ma nelle Tesmoforianti non c’è il probulo bensì il pritane» viene liquidata con mossa abile (p. 345), che mette insieme un’ovvietà («la Lisistrata non può che essere del 411 perché lì c’è il probulo») con una sentenza anapodittica («il pritane delle Tesmoforianti non dimostra nulla per quel che riguarda la cronologia»): l’ovvietà serve a puntellare l’altra affermazione;

c) c’è poi il singolare utilizzo del criterio «für uns» ovvero «per quanto risulta a noi» (p. 346);

c1) «für uns» Cleofonte si affaccia alla politica nel 410/409 (infatti è di quell’anno la sua più nota iniziativa, l’introduzione della diobelia, incentivo contro l’assenteismo)65: ma – obietta Wilamowitz – Aristofane poteva detestarlo già nel 411;

c2) Carmino, stratego66, viene attaccato al v. 811; poiché «für uns» l’ultima vicenda che lo riguarda è la scaramuccia in cui fu coinvolto nei primi mesi del 411, è impensabile che nel 410 Aristofane ancora lo attaccasse per quella vicenda. Come dire che il criterio «ciò che a noi risulta» (für uns) di un personaggio vale se fa comodo alla nostra tesi; altrimenti, se è scomodo, si invalida. In realtà il cenno, quantunque stupidamente ostile, a Cleofonte («lo annovera tra i cinedi» ipotizza uno scolio) è un argomento non da poco a favore del 410. Nel pieno del terrore dei mesi gennaio-aprile 411 i capi democratici o erano morti o si ritiravano. Cleofonte non può che essere tornato alla ribalta quando i Quattrocento sono entrati in crisi: dunque un cenno, ovviamente ostile, a lui si spiega nel 410. Alla ripresa (luglio 410) della pienezza dei poteri dell’assemblea popolare Cleofonte presenterà il decreto sulla diobelia, per contrastare l’assenteismo (il terrore aveva lasciato il segno)67. Perciò per il momento (Dionisie 410) Aristofane non ha ancora questo motivo per attaccarlo, lo attacca perché rappresenta ai suoi occhi il riaffacciarsi degli odiati ‘demagoghi’;

d) e veniamo all’elemento forse più cogente, che Wilamowitz ha il merito di non occultare (come invece è stato fatto dopo di lui), ma che affronta con ragionamenti fragili: si tratta del cosiddetto ‘furto dei cinquanta talenti’. Lo affronteremo nel capitolo seguente.

1 B.D. Meritt, The Athenian Year, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1961, p. 218.

2 Costituzione degli Ateniesi, 33, 1.

3 La formula εἰ δὲ μὴ κτλ. è trascrizione quasi letterale di formule di decreti («se qualcuno presenterà un decreto o parlerà contro quanto qui disposto etc.»). Anche per quel che riguarda il contenuto della minaccia (ἐπάρατον εἶναι o simili) ci sono attestazioni in documenti conservati. Andrewes rinvia opportunamente a Meiggs-Lewis, nr. 49, righi 20-22. Molto ben fatta la nota di Hornblower (Commentary, III, p. 1032), mentre i vecchi commenti qui tacciono. È dunque evidente che qui Tucidide mostra di conoscere ed è in grado di citare testualmente persino un sommamente effimero decreto: il decreto con cui il regime terameniano ribadiva il divieto di salario (sia dicastico che assembleare). Altrettanto evidente è che un così detestabile decreto, presto cassato, non sarà stato conservato nel più che sommario ‘archivio’ di Atene. Eppure Tucidide ne ha conoscenza diretta e lo parafrasa quasi ad litteram.

4 Cfr. Syll.3 37-38.

5 HCT, V, p. 330, giustamente apprezzato da Hornblower (Commentary, III, p. 1032).

6 Così Austin nel commento alle Tesmoforianti (Austin-Olson, commento ai vv. 349-351) e Hornblower apprezza (Commentary, III, p. 1032).

7 Tucidide, VIII, 97, 2: ἐπί γε ἐμοῦ.

8 Frase che ha dato tanto tormento ai credenti nell’«esilio ventennale» di Tucidide.

9 Tucidide, II, 65, 9-10.

10 ἐκ πονήρων τῶν πραγμάτων ἀνήνεγκε τὴν πόλιν.

11 HCT, V, p. 330.

12 G.E.M. de Ste. Croix, The Constitution of the Five Thousand, «Historia» 5, 1956, pp. 21-22.

13 Informazioni entrambe di Tucidide (VIII, 97, 1 e 92, 11). Non così Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi.

14 Giustamente, da Poppo a Steup, viene qui ricordato che, per un teorico esperto quale Aristotele, sono ἀρχαί, cioè «organi di governo», anche la funzione di giudice (Eliea) e la funzione di componente dell’assemblea (Politica, III, 1, 5).

15 Tucidide, VIII, 67, 1-2.

16 Senofonte, Elleniche, II, 3, 1-2; Lisia, XII, 74-75.

17 Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 28, 4; Diodoro, XIV, 3, 6-5, 2.

18 Tucidide, VIII, 65, 2.

19 Tucidide, VIII, 92, 10. È bene non dimenticare che gli opliti erano (nel 431) ben 13.000 (Tucidide, II, 13, 6); i 5.000 erano quelli, tra loro, in grado di pagarsi l’equipaggiamento.

20 Ma in tal caso non sarebbe stato un meccanismo del tutto agevole da maneggiare, dovendo ogni tribù approntare una lista da cui estrarre 50 nomi.

21 Il testo ci è conservato da Andocide, Sui Misteri, 96-98.

22 In tal senso K.J. Beloch, Griechische Geschichte, II.2, Trübner, Strassburg 19162, p. 314; C. Hignett, A History of the Athenian Constitution to the End of the Fifth Century B.C., Clarendon Press, Oxford 1952, p. 372; de Ste. Croix, The Constitution of the Five Thousand cit., p. 22; P.J. Rhodes, The Athenian Boule, Clarendon Press, Oxford 1972, p. 7.

23 Tucidide, VIII, 86, 3-6.

24 Lo ipotizzò con molta esitazione Hignett, A History of the Athenian Constitution cit., p. 378; Rhodes, The Athenian Boule cit., adotta analoga prudenza a p. 7, ma a p. 217 l’ipotesi gli è diventata, cammin facendo, una certezza: «The size of the Boule in this intermediate regime reverted to five hundred»[?]. Per lo meno Hignett (p. 378) aveva cercato una qualche motivazione a sostegno della sua (prudente) ipotesi: che cioè Teramene e i nuovi leader volevano compiacere Alcibiade (in quanto ne avevano decretato l’eventuale rientro). Ovviamente non è un ragionamento sostenibile: Alcibiade aveva chiesto il ripristino della Boulé sorteggiata.

25 Tucidide, VIII, 97, 1-2.

26 [Plutarco], Vite dei dieci oratori, 833E-F.

27 Uno dei quali è Teramene.

28 L’essenziale è in Jacoby FGrHist 342 F 5. Jacoby mantiene la lezione tràdita («nono libro» della Raccolta dei decreti attici), nonostante le ottime ragioni addotte da A. Meineke, nella dissertazione posta in calce alla sua edizione del Lessico geografico di Stefano di Bisanzio (Stephani Byzantii Ethnicorum quae supersunt, ex recensione A. Meinekii, Reimer, Berlin 1849), per mutare «nono» in «quinto» [non θ ma ε].

29 Fr. 137 Rose = 125 Gigon; Etica Eudemia, 1232b, 7-8.

30 Cratero commentava i decreti: cfr. Plutarco, Aristide, 26, 2.

31 Arpocrazione, Lessico dei dieci oratori, s.v. Ἄνδρων, cui dobbiamo il frammento di Cratero, mette in sequenza le due affermazioni e le trae, palesemente, entrambe da Cratero, il quale dunque le metteva in relazione tra loro.

32 Tucidide, VIII, 92, 2 segnala che, tra i Quattrocento, non pochi «erano d’accordo» con Teramene e Aristocrate, i due affossatori del gruppo di Antifonte.

33 Cfr. l’«emendamento di Clitofonte» in Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 3.

34 Tucidide, VIII, 42, 3.

35 Tucidide, VIII, 73, 3.

36 Tucidide, VIII, 75, 2-3.

37 Aristophane et les partis à Athènes, Fontemoing, Paris 1906, p. 238.

38 Aristophanes, II, Hachette-Lebègue, Paris-Bruxelles 1919, p. 568.

39 Dalle Exercitationes di Le Paulmier (Palmerius, Exercitationes in optimos fere auctores Graecos, Leiden 1668) ad Henri de Valois (presso l’edizione Maussacus di Arpocrazione: Harpocrationis Dictionarium in decem Rhetores, Parisiis 1614, p. 141). Ne dà conto Küster (Aristophanis Comoediae undecim, Amsterdam 1710), a p. 222 delle Adnotationes.

40 Aristophanes and the Events of 411, «Journal of Hellenic Studies» 97, 1977, pp. 112-126: p. 116.

41 Sembrava cogente il riferimento all’Andromeda euripidea (412) ai vv. 1059-1061 di cui diremo più oltre. Vedi anche la nota seguente.

42 È lo scolio che colloca l’Andromeda di Euripide «nell’ottavo anno» precedente l’anno di rappresentazione delle Rane (406/405), cioè nel 413/412. E in Tesmoforianti, 1059-1061 si allude all’Andromeda come «dell’anno passato». Il che collocherebbe le Tesmoforianti nel 412/411.

43 Citiamo dall’edizione francese curata magnificamente da Karl Hillebrand (il segretario di Heine dopo la fuga in Francia a seguito della repressione contro-rivoluzionaria del 1849): Histoire de la littérature grecque, jusqu’à Alexandre le Grand, par Otfried Müller, II, Durand, Paris 1865, p. 425, n. 1. Eduard Müller, curatore dell’edizione postuma di quest’opera, segnalò qui, in calce alla nota, la confutazione di questa ipotesi da parte di Julius Richter [1845]. Wilamowitz (Aristoteles und Athen, II, Weidmann, Berlin 1893, p. 344) avallò l’osservazione di Karl Otfried Müller e questo contribuì a darle autorevolezza persino presso un non simpatizzante come M. Croiset (p. 238).

44 Παραδούς (v. 808).

45 Cfr. la nota di Küster ad loc.: «Etymologus: ὁ χρόνος τοῦ βουλεύειν».

46 De extraordinariis quibusdam magistratibus Atheniensium, in Commentationes philologae in honorem Theodori Mommseni scripserunt amici, Weidmann, Berlin 1877, pp. 451-470: p. 454. L’opposta visione dei probuli ha comunque continuato ad aver corso. Basti, per tutti, la voce πρόβουλος della RE, XXIII, 1957, coll. 1226-1227 a cura di Hans Schaefer.

47 VIII, 1, 3-4.

48 Ad ogni modo non sappiamo quale equilibrio si sia effettivamente determinato tra la Boulé in carica ed i nuovi magistrati.

49 Tucidide, VIII, 66, 1.

50 Aristophanisches, Nauck, Berlin 1845, pp. 28-37. Richter appartiene al novero degli studiosi che – come Kierkegaard nella memorabile dissertazione dottorale sull’ironia – hanno compreso il nesso Platone-Aristofane. Non si può capire Aristofane senza Platone.

51 Richter, Aristophanisches cit., p. 13.

52 Ἔδοξε τῇ βουλῇ [...] ἐκκλησίαν ποιεῖν.

53 The Athenian Boule cit., pp. 185-186.

54 Tucidide, VIII, 65-66.

55 Rhodes, The Athenian Boule cit., p. 186.

56 Senofonte, Elleniche, I, 7, 3-4.

57 Sugli originari poteri repressivi della Boulé va visto il controverso capitolo di Aristotele (Costituzione degli Ateniesi, 45, 1) col relativo commento di Rhodes (A Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, Clarendon Press, Oxford 1981).

58 Aristoteles und Athen cit., II, pp. 344-355.

59 Si era già sfogato in privato contro la sua opera in generale («buoni» e «cattivi» romanzi), scrivendo a Mommsen: Mommsen und Wilamowitz. Briefwechsel 1872-1903, hrsg. von E. Schwartz, Weidmann, Berlin 1935, p. 94.

60 De extraordinariis quibusdam magistratibus Atheniensium cit., p. 454.

61 Aristoteles und Athen cit., II, p. 344.

62 Tesmoforianti, 1059-1061. Su ciò torneremo più oltre.

63 ‘Riforma’ in extremis causata dalla morte di Sofocle. Vd. infra, Parte V, capitoli 13 e 14.

64 Aristoteles und Athen cit., II, pp. 342-354.

65 Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 28, 3. IG I2, 304, rigo 12 e passim.

66 Tucidide, VIII, 73.

67 Con la diobelia ricomincia l’aggravio dei ‘costi della democrazia’ sul tesoro dello Stato. Per Aristofane quello sarà un bersaglio polemico ancora molti anni dopo, al tempo delle Ecclesiazuse (vv. 293, 308). Ed il ripristino, ben presto, della Boulé clistenica farà altrettanto: se lo stipendio dei 500 buleuti era di una dracma al giorno, sono 6 oboli per 300 giorni. Si può valutare, con qualche approssimazione, che il calcolo complessivo oscillava tra i 20 e i 34 talenti annui. Cfr. Andreas M. Andreades, Storia delle finanze greche dai tempi eroici fino all’inizio dell’età greco-macedonica, [1928], CEDAM, Padova 1961, p. 298.