«Trovò una donna bella e grande, la camuffò da Atena
e la fece entrare al suo fianco in città: così Pisistrato veniva avanti
e i cittadini si inchinavano al suo passaggio»
Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 14, 4
Sulle Tesmoforianti – anche in ragione della radicale diversità rispetto alla violenta politicità della coeva Lisistrata1 – sono state escogitate le più diverse ipotesi. Ciò è dovuto, almeno in parte, a vari fattori: la natura essenzialmente letteraria dell’impianto principale della commedia; il comodo e abituale bersaglio quasi ‘atemporale’ (Euripide: un obiettivo polemico già al tempo degli Acarnesi); l’inserzione di un paio di ‘tirate’ tra loro in stretto rapporto (e certo nate insieme) di immediata invettiva politica, imbevuta di sano (e un po’ scontato) ‘civismo’ anti-tirannico, che però non può che alludere all’attualità.
I teatrologi ‘puri’ non si sono neanche posto il problema, ma altri, più accorti, lettori si sono posti delle domande: a quali «tiranni» (o «tiranno») si riferiscono quelle due tirate (335-339 + 1143-1144)? Molto ha pesato il dogma secondo cui la data sarebbe il 411 (quantunque nessuna notizia didascalica ci sia giunta per questa commedia). Un lettore attento come Alan Sommerstein2 si era orientato verso l’ipotesi che il ‘tiranno’ fosse Alcibiade nella primavera 411 (siccome Alcibiade ha promesso, o meglio fatto intravvedere, l’aiuto dell’oro persiano3, «fears of a tyranny of Alkibiades are not out of place at the City Dionysia of 411»).
Ma si può osservare che di pericolo di «tirannide» s’era parlato nel 415 dinanzi allo spettacolo devastante e misterioso della simultanea mutilazione delle erme4; nel 411 si parlò, strumentalmente, di «un altro tipo di democrazia»5; e comunque i «tiranni» che ben presto avevano prevalso (Frinico e compagni) erano i nemici di Alcibiade.
Quell’attacco anti-tirannico non è flatus vocis generico, è un evidente inserto, nella trama delle Tesmoforianti perciò stesso intenzionale. Ma vi era ben altro bersaglio da bollare come «tiranni» (ormai caduti e perciò agevolmente insultabili): la cricca ristretta composta da quella parte dei Quattrocento che erano stati sconfitti, dispersi e processati (anche in contumacia) da Teramene.
Il quale ha potuto (e voluto) porsi, non appena ha capito che quello era il solo modo di restare a galla, come il restitutore (graduale) della democrazia tradizionale. Traccia di sbeffeggiamento aristofaneo della cricca sconfitta è anche nel frammento del Triphales rivolto contro Aristarco6, traditore di Oinoe, coi suoi sgherri iberici. Questa scelta di riposizionamento politico da parte di Aristofane la si può collocare tra la vittoria di Teramene (e conseguente dispersione della cricca sconfitta) e la vittoria memorabile degli Ateniesi a Cizico (marzo 410) cui tiene dietro di fatto la restaurazione democratica. Della mutata prassi conseguente alla caduta della ‘cricca’ e alla egemonia terameniana, manifestatasi subito con l’effettiva instaurazione del corpo civico dei Cinquemila, è segnale sintomatico (e spesso dimenticato) il contestuale ripristino – da parte di Teramene – di una attività dell’ekklesia (al di là dei confini del nuovo corpo civico)7.
Ed è in questo clima di rinnovata vitalità (ancora solo de facto) dell’assemblea, che si colloca la scenetta delle Tesmoforianti in cui – dopo solenni preghiere e maledizioni contro i promotori di «tirannide» – un decreto della Boulé indice una ekklesia per il demo tutto (delle donne), per giunta in un giorno in cui non era usuale tenere assemblee (vv. 331-379). Una conferma della data viene anche dal cenno alla morte di Lamaco (v. 841), avvenuta, secondo lo scolio, «quattro anni prima». Poiché la morte di Lamaco è da collocarsi nella primavera del 413 (Tucidide la colloca ben prima dell’arrivo di Gilippo a Siracusa8, Diodoro in concomitanza con esso) è evidente perciò che i quattro anni vanno calcolati dal 414/413 al 411/410. A questo si aggiungano i due cenni ad una funzione giudiziaria della Boulé che ci fu solo nel 410 durante il cosiddetto governo terameniano (vv. 76-80 e soprattutto 943)9.
Come, dopo la ‘battaglia’ contro Cleone (dai Babilonesi ai Cavalieri: 426-424) ha deciso di ‘tirarsi fuori’ (almeno per un po’) e di assumere un bersaglio del tutto diverso, non più direttamente politico (Socrate: Nuvole, 423), così ora Aristofane, dopo l’affondo pesante e alquanto compromettente della Lisistrata (411), sceglie – con procedimento analogo – un bersaglio diverso e non più politico (Euripide: Tesmoforianti, 410). C’è coerenza nella tattica e anche nella scelta del bersaglio di ‘ripiego’: Euripide e Socrate.
Ora, con le Tesmoforianti aggiusta il tiro e attacca rumorosamente «i tiranni» (vv. 335-339 e 1143-1144). Il fallimentare epilogo dell’avventura oligarchica era stato tale da disgustare anche i simpatizzanti: pochi anni dopo, coi Trenta, accadde qualcosa di analogo. Soprattutto per chi si è esposto, la presa di distanze davanti ad un risultato disastroso e foriero di diffuso disgusto diventa un passo necessario, e anche autentico, proprio per chi si sente in sintonia con quel mondo. Questo meccanismo, ben noto, giova a comprendere le due ‘sparate’ anti-tiranniche al principio delle Tesmoforianti. E «tiranni» vennero chiamati ben presto i Quattrocento10 dopo la loro caduta, con particolare riferimento, ovviamente, a quel ristrettissimo gruppo di essi che Teramene e Aristocrate avevano defenestrato e processato: un gruppo che aveva ostinatamente impedito che la lista dei Cinquemila cittadini pleno iure venisse ad esistenza (o che comunque venisse divulgata sì da renderla operativa); un gruppo che per breve tempo aveva ritenuto di potere, ‘giocando’ anche i compagni di congiura, concentrare nelle proprie mani tutto il potere in una Atene, alfine dopo cento anni, non più «in mano al popolo»11.
Ma per meglio intendere la portata del termine «tiranni» e percepire meglio la suggestione di quel termine nel gergo politico ateniese e nello scontro propagandistico giova ricordare le sinonimie correnti: oligarchia come tirannide. I «tiranni» (prima Pisistrato, poi Ippia) erano stati cacciati ad opera di famiglie aristocratiche (gli Alcmeonidi) in lotta contro un governo che aveva un vasto seguito popolare. Una volta consolidatasi, però, la democrazia assume il «tiranno» come propria antitesi ed usa come sinonimi oligarchico e tirannico. L’ateniese «che muove le navi», che è il fruitore principale del regime democratico in cui si esercita il suo kratos, e che si autodefinisce in tutti gli atti pubblici «il popolo di Atene», è anche portatore di una raffigurazione ideologica della tirannide, che identifica tirannide e oligarchia: perfetto pendant della non meno semplicistica equazione ‘patriottica’ democrazia = libertà.
Il maggiore esperto, oltre che teorico12, del lessico politico del tardo V secolo, cioè Tucidide, conosce bene questo linguaggio e lo critica in due modi: con l’insistente smascheramento delle vere ragioni (non politiche) del tirannicidio13 e con la diretta ironia sulla equiparazione ‘democratica’ dei due concetti14, proprio nel contesto della pagina ‘revisionistica’ sul tirannicidio: «E tutto sembrava loro [al popolo e ai suoi leader] essere stato fatto (tramato) sulla base di una congiura oligarchica e tirannica»15. Tucidide raggiunge il vertice dell’oggettività ironica – una delle sue qualità più spiccate – quando commenta così, in prima persona, il fatto più memorabile della storia ateniese, cioè l’instaurazione di un governo oligarchico: «era la perdita della libertà – per il popolo – un secolo circa dopo la cacciata dei tiranni»16. Qui è perfetta la capacità di incorporare il pensiero popolare corrente (e dall’autore non condiviso) nella propria narrazione e valutazione di quei fatti. Aristofane aveva deriso esattamente allo stesso modo quel lessico politico popolare fondato sulla semplicistica sinonimia oligarchia/tirannide quando aveva fatto sbraitare, nella dialogica parabasi della Lisistrata, i vecchi democratici: «sento odore di Ippia, ma ho il pugnale nel mirto, mi vogliono togliere il salario, hanno tramato tutto questo per stabilire su di noi una tirannide!» (vv. 614-635). Ovviamente questo è delirio anti-tirannico: il classico caso del militante che crede alla sua stessa propaganda. Aristofane lo sbeffeggia già perché, per parte sua, si schiera tutto dalla parte di Lisistrata. Tanto più, perciò, appaiono ‘a freddo’, e beninteso strumentali, le bordate anti-tiranniche innestate nelle Tesmoforianti.
Interpreti, pur ragguardevoli, trascurano l’evidente dileggio del lessico democratico che campeggia in quella parte della parabasi della Lisistrata, si industriano di cercare pruriginosi giochi di parole. Così «odore di Ippia» determina la aberrante nota seguente: «alludit comicus ad ἵππον qui κέλης dicitur, unde κελητίζειν obscoeno sensu» (così Stephan Bergler e Karl Andreas Duker, le cui note sono accolte nell’edizione ‘completa’ di Aristofane a cura di Pieter Burman II°, Aristophanis comoediae undecim, graece et latine, Luchtmans, Leiden 1760). Il punto di partenza per tale interpretazione inutilmente maliziosa, avvalorata e fatta propria anche da Wilhelm Dindorf (Teubner, Leipzig 1825) e da Immanuel Bekker (Aristophanis comoediae cum scholiis et varietate lectionis, IV, Whittaker, London 1829), è rivelatore: è una polemica contro lo scolio, che in realtà giustamente osserva (riflettendo erudizione alessandrina a sua volta ricalcata su Tucidide VI, 55, 1): «ha citato Ippia perché, più anziano degli altri [figli di Pisistrato], aveva ereditato la tirannide, come dice Tucidide». «Ma come! – protestava Bergler – È come se Pisistrato, iniziatore della tirannide, non fosse stato più anziano di suo figlio!» (Aristophanis comoediae undecim, p. 1135). L’osservazione vuol essere irridente verso lo scoliasta. Una buona lettura di Tucidide, e anche di Erodoto che all’episodio del tirannicidio dedica alcune pagine, avrebbe portato questi critici a comprendere che: (a) nella retorica politico-simposiaca ateniese è Ippia il tiranno, perché è colui che rese ferocemente «oppressiva» (Tucidide, VI, 59, 2) la tirannide dopo l’attentato in cui perse la vita Ipparco; (b) il governo di Pisistrato e di Ippia prima dell’attentato era ispirato a «virtù e saggezza» e fondato su di un rigoroso rispetto delle leggi (Tucidide, VI, 54, 5-6); (c) ancora fino a qualche attimo prima dell’attentato, Ippia si comportava con la consueta bonomia scevra da sospetti (VI, 57, 2).
Il culto stesso di Armodio e Aristogitone in quanto ‘tirannicidi’, celebrati anche nella letteratura simposiaca per il loro gesto, in tanto ha senso in quanto Ippia era il loro bersaglio e Ippia fu il repressore della congiura fallita. La ‘tirata’ (derisa da Aristofane) dei vecchi ateniesi è perfettamente in linea con tale letteratura (ho il pugnale nel mirto, mi collocherò vicino alla statua di Aristogitone [v. 633] etc.). La testimonianza di Aristofane in questi versi è dunque uno dei più antichi e preziosi documenti di questo aspetto fondante della retorica democratica nel suo porsi come anti-tirannica. Friedrich Heinrich Bothe, nella sua edizione lipsiense di Aristofane (Aristophanis comoediae, IV, Hahn, Leipzig 1830, p. 195) coglieva un po’ meglio dei suoi predecessori il senso di questo squarcio di retorica anti-tirannica del coro dei vecchi quando parlava della tirannide di Ippia come divenuta «proverbiale». Blaydes (Aristophanis comoediae, Halle 1880) non commenta affatto quel verso: l’interpretazione maliziosa era definitivamente caduta.
Paulo maiora canamus. «Qui – scrisse Wilamowitz nella sua Lisistrata (1927) – il pericolo della tirannide serve in primo luogo a caratterizzare i vecchi, i quali pretendono di aver vissuto direttamente il periodo dei tiranni; il poeta non si dà pensiero del divario cronologico» (p. 160). E poi spiega che il vero pericolo consisteva nel legame dei circoli oligarchici con Sparta «come si vide pochi mesi dopo»: che infatti è il tema che i vecchi affrontano subito dopo (vv. 620-625). Ma non si tratta di una paradossale cronologia dilatata: si tratta di una genialmente perfida parodia della retorica democratica, che Wilamowitz del resto coglie perfettamente qualche rigo più in là, quando commenta il v. 632: «il corifeo dei vecchi intende andarsi a piazzare accanto all’Aristogitone di bronzo (ἑξῆς mit Dativ)» (p. 161). Culmine della caricatura dei ‘difensori della democrazia’.
Quasi tutti i riferimenti politici espliciti presenti nelle Tesmoforianti parlano di una Atene che ha ormai rimosso i «tiranni»17, e intende cautelarsi contro un loro ritorno. Si lanciano minacce a chi li vuole ‘riportare’ in città perché è ben chiaro a tutti che il loro dominio è finito. Alla maniera del decreto di Demofanto18 che, restaurate ormai la Boulé clistenica e la democrazia tradizionale, vincola con un giuramento tutti gli Ateniesi ad «uccidere con le proprie mani» chi intenda instaurare o restaurare la tirannide (cioè un’altra eventuale oligarchia), la banditrice proclama: «Se qualcuno tende insidie al popolo (delle donne), o cerca di stabilire contatti con Euripide o coi Persiani a danno (del popolo) delle donne, ovvero progetta di assumere la tirannide o di riportare in città il tiranno19 [...] per tutti costoro mandate maledizioni pregando che muoiano in malo modo, loro e le loro famiglie20» (Tesmoforianti, 335-350). E il coro delle donne risponde: «Anche noi con la nostra implorazione chiediamo che queste preghiere si realizzino pienamente per la città, che si realizzino pienamente per il popolo (τέλεα μὲν πόλει, τέλεα δὲ δήμῳ). E abbia la meglio chi fa le proposte migliori»21.
È noto il rituale delle «maledizioni» (ἀραί) contro chi «tratta coi Persiani», preliminare nei lavori delle assemblee ateniesi22. Ed è ben indovinato qui, prima che abbia inizio (372-379) una vera e propria assemblea con un preciso ordine del giorno. Trattative coi Persiani erano state apertamente caldeggiate da Pisandro, e approvate dall’assemblea, nel mese di gennaio 411, allorché le trattative erano state «con Alcibiade e con Tissaferne»23. E qui le trattative da non fare, con minaccia di terribili maledizioni, sono «con Euripide e con i Persiani». Non riconoscere l’allusività di questa trovata è ingenuo, ma altrettanto ingenuo è pensare che Aristofane stia prendendo questa posizione, nel gennaio 411, mentre le eterie, a seguito di quella assemblea, seminano il terrore e la congiura dilaga nella generale convinzione che l’operazione abbia di mira ‘recuperare’ Alcibiade e farsi alleato Tissaferne. È a cose fatte che ci scherza su, mettendo Euripide al posto di Alcibiade: non solo perché è Euripide, di qui in avanti, il bersaglio delle donne in assemblea ma anche perché ben noto era il legame tra i due24. Per non parlare di altre, ancora più compromettenti, amicizie di Euripide.
Merita d’esser rilevata una variante apparentemente giocosa ma significativa. La banditrice aveva adottato il linguaggio dei decreti anti-tirannici, mescolandolo con elementi (anche ridicoli) tratti dalla vita quotidiana delle donne, e perciò il consueto riferimento al «demo» diventa – nel «bando» – «il demo delle donne»; ma, nella risposta del coro, l’auspicio che le minacce (vere e proprie maledizioni mortali), formulate dalla banditrice, si avverino riguarda, senza ammiccamenti o diversivi, tout court il bene «della città e del demo».
È incongruo immaginare che nella primavera 411 – nell’Atene descritta da Tucidide VIII, 65-66 – si potesse inneggiare alla democrazia, maledire chi cerca contatti coi Persiani e chi «instaura la tirannide». È evidente che tutto questo è alle spalle. E perciò ha senso mettere in scena, come avviene nelle Tesmoforianti, una ‘normale’ gestione della vita pubblica (vv. 373-379).
Julius Richter lo aveva ben compreso: «il richiamo – scrive – all’insignificante, in sé, insuccesso di Carmino25 [stratego partecipe della congiura e complice dei Quattrocento], l’allusiva rievocazione del tempo dei Quattrocento [i ‘tiranni’] come di una tempesta fortunatamente ormai passata, lo stato d’animo del poeta felicemente rasserenato – tutt’altro che nella Lisistrata –: tutto questo suggerisce, a mio avviso, che Aristofane ha incominciato a comporre le Tesmoforianti nell’estate del 411, subito dopo che la buona stella aveva ripreso un tantino a splendere, dopo che una qualche tranquillità era ritornata negli animi eccitati degli Ateniesi. Le Tesmoforianti sono un riflesso di questo incipiente rasserenamento, la cui espressione più efficace è nel nobile canto corale (v. 1138) che non posso non riprodurre qui perché vi è in quel corale la migliore descrizione del momento politico»26. Ed è il corale in cui si inneggia a «Pallade, tu che odi i tiranni» (vv. 1136-1147): «È norma per noi27 invitare qui alla danza la vergine Pallade, che ama le danze, lei che sola ha in sua mano l’acropoli nostra, e sola28 detiene il potere visibile (κράτος φανερόν)29, e che viene (perciò) chiamata colei che custodisce le chiavi30. Maniféstati, tu che aborri i tiranni, come è giusto! Il popolo ti invoca, delle donne: Vieni da me, portatrice della serenità propizia alla festa».
È possibile una lettura del tutto opposta di questo corale? La prospettò Wilamowitz, nel 1921, in una delle appendici della Griechische Verskunst31. «Nella prima parte – egli scrive – Atena non soltanto appare come colei cui spetta di portare la pace ma viene anche invocata come nemica dei tiranni». Ma si tratterebbe di parole reticenti e prudenti: «Questa satira – osserva – ha per la situazione del momento più peso di quanto il poeta se la sia sentita di dire apertamente». E spiega perché mai quelle parole, in realtà così esplicite, gli sembrino reticenti: «Incombe sui cittadini il presentimento (Vorahnung) della rivoluzione che scoppiò alcune settimane più tardi: ma donde incombesse il pericolo di una tirannide Aristofane non sapeva, o ebbe soggezione di dire». In realtà la sortita del coro è talmente ‘aperta’ da far ricorso al termine più forte e usuale nel gergo democratico: «tirannide, tiranni». E soprattutto va notato che nella Lisistrata è Aristofane stesso che ridicolizza l’allarme per la minaccia di tirannide (v. 619). È poco credibile che faccia proprio lui la parte dei vecchi «che sentono odore di Ippia»!
La lettura proposta da Richter è dunque molto più aderente al testo.
Questa strofe, in forma di preghiera, introduce un elemento molto significativo, quale l’invocazione a Pallade, anteposta all’invocazione alle due dee Tesmofore. È un mosaico di allusioni – come ben osservò Richter32 – culminante nell’insolito, ma dall’estate 411 quanto mai calzante, epiteto di «odiatrice dei tiranni». Significativo l’affollarsi di connotazioni tutte politiche e tutte riferite ad un recupero di potere legittimo: Pallade è la sola (μόνη posto in straordinaria enfasi) che detiene «il κράτος [parola fondamentale] visibile (φανερόν)»: in evidente antitesi al potere occulto e nocivo tipico dei congiurati. Ed è colei che «detiene (o custodisce) le chiavi»: immagine perfetta per ribadire la tutela, anche materiale, del tempio di Atena dove è il tesoro della città33. Nella parabasi aveva fatto cenno ad un colossale ‘furto’ perpetrato a danno del tesoro di Atena (v. 811) da parte di chi, fino a qualche tempo prima poteva compiere tale ruberia impunemente, alla luce del sole34.
‘Riposizionamento’ evidente, da parte di Aristofane, che nella Lisistrata ha caldeggiato l’iniziativa delle donne, capeggiate dalla loro leader, di sequestrare il tesoro della dea e di precludere l’accesso ai cittadini, arroccandosi sull’acropoli.
Quel groviglio di ben cinque epiteti per Atena, culminanti in «detentrice delle chiavi» (κλῃδοῦχος), mira ad ‘enfatizzare’ il «rapporto speciale di Atena con la sollecitudine del coro per la democrazia»35. All’inizio (v. 319) il coro aveva invocato – tra gli altri – Atena «dalla lancia d’oro» come abitatrice «della città contesa (περιμάχητον)». Con allusione non solo mitica – la lotta tra Atena e Posidone – ma, forse soprattutto, agli avvenimenti, tumultuosi, recenti36.
Sorprende perciò che nessuno dei molti interpreti abbia cercato di spiegare a cosa alluda il φανερὸν κράτος di cui Atena vien qui detta esser dotata37.
Sorprende anche il disinteresse per le parole che nel manoscritto Ravennate, unico testimone per questa commedia, figurano (f. 176r, r. 17 [ora 178r]) subito prima dell’invocazione «appari (φάνηθι) tu che aborrisci (στυγοῦσα) i tiranni come è giusto!» (v. 1144). Le parole in questione sono: στυγνᾶς38 ὡσσε. Quanto mai oscure. Forse però non è saggio liquidarle sulla base dei puntini segnati al di sopra di esse dal copista del Ravennate. Difficilmente quelle parole saranno venute dal nulla. L’aggettivo στυγνός, detto spesso degli occhi, significa «cupo, truce, severo»; ὡσσε fa pensare al duale τὼ ὄσσε (gli occhi). Può trattarsi del ‘relitto’ di uno scolio che intendeva spiegare o parafrasare στυγοῦσα (v. 1144)? Il verbo στυγέω, che ha la stessa radice di στυγνός, significa «odio persequor, abhorreo, exhorresco».
Ma è anche possibile che si tratti del ‘relitto’ di un verso che potrebbe – per esempio – essere completato con una forte negazione iniziale. Il coro inneggia ad un ritorno alla serenità, e Pallade – che riserva bensì il suo odio e la sua repugnanza ai tiranni – è contestualmente richiesta di portare con sé, con la sua «apparizione», la «pace che è amica delle feste (εἰρήνην φιλέορτον)». Si può con tutta la necessaria prudenza ipotizzare che il concetto che prelude all’imperativo implorante (φάνηθι) sia «non più cupezza»: qualcosa come <μηκέτι> στυγνὰ τὼ ὄσσε39. Il senso in tal caso sarebbe una esortazione («Non più occhi cupi!») rivolta affettuosanente dal coro alla dea, che ora – fugati i tiranni che essa detesta e che l’hanno offesa – può fare la sua apparizione (φάνηθι) e apportare la «festosa pace» (εἰρήνην φιλέορτον) che il coro, nel pieno della festa, auspica.
Se questa ipotetica ricostruzione fondata sul ‘relitto’ trascurato fosse legittima, si recupererebbe un ulteriore indizio di quella condizione che Richter coglieva finemente in questo corale: «l’allusiva rievocazione del tempo dei Quattrocento come di una tempesta ormai passata».
In questo corale [vv. 1136-1144] inneggiante a Pallade, nella parodo [vv. 330-371], nonché in alcuni momenti della parabasi [specie 804-813] – e solo in questi tre luoghi – si concentrano i riferimenti politici espliciti di tutta la commedia. E sono tutti anti-tirannici: inserti dettati dal mutamento della situazione politica40.
Lo notava con finezza Benjamin B. Rogers a proposito dell’apostrofe antitirannica a Pallade: «There may possibly be a reference to the downfall of the Four Hundred which occurred a few months previously»41.
Come s’è già osservato al principio di questo capitolo, una ricostruzione si presenta come plausibile: Aristofane, dopo la scelta di campo alquanto compromettente dell’inizio del 411 (Lisistrata), si ‘riposiziona’. Da allora, in pochi mesi la situazione è precipitata e poi cambiata vorticosamente. Alla caduta di Antifonte e compagni, è subentrato un governo incardinato sul ceto oplitico, tradizionale contrappeso rispetto al «popolo che spinge le navi»42, base sociale della democrazia radicale. Un governo che si potrebbe, con qualche approssimazione, definire di tipo ‘cimoniano’, che ha riscosso l’approvazione entusiastica di un politologo in genere controllato come Tucidide.
Vi è, in quel momento, un rigetto verso la cricca dei ‘tiranni’, parte fuggiti, parte platealmente messi a morte. Aristofane che ha costruito una pièce eminentemente letteraria con un bersaglio ‘sicuro’ quale Euripide e su un terreno di comicità ovvia (la ‘lotta’ tra lui e le donne), vi immette degli inserti politici à la page, di appoggio al nuovo governo. Non senza qualche stoccata (v. 805) a demagoghi che potrebbero tornare – o stanno tornando – a galla43. Forse non gli sfugge l’intrinseca instabilità della nuova ‘combinazione’ politica «dei molti e dei pochi»44: sempre che ne abbia inteso fino in fondo la portata e i rischi.
Se si considera che la data più probabile per la grande vittoria navale ateniese nelle acque di Cizico è il marzo 41045, e che quella vittoria (che parve mettere daccapo Sparta in ginocchio)46 segnava di fatto il ritorno alla democrazia tradizionale, si comprende ancor meglio la scelta aristofanea su entrambi i versanti: una netta presa di posizione «anti-tirannica» per un verso, e, per l’altro, allarme per l’affiorare di nuovi ‘capi’ (Cleofonte). Sempre che l’agone cui furono destinate le Tesmoforianti siano state le Dionisie (aprile 410). Che comunque l’equilibrio politico si stesse daccapo spostando in direzione di un ripristino della politeia di sempre, lo si poté intuire (e i politici professionali ben lo capirono) quando si vide Teramene piantare in asso la sua ‘equilibrata’ democrazia ‘oplitica’ (i Cinquemila) e unirsi – portando con sé 20 navi – alla flotta di Samo ormai al comando di Alcibiade e Trasibulo47. Questo gli consentì ancora una volta di trovarsi dalla parte giusta al momento giusto, di non essere travolto dalla demolizione del suo regime, e anzi di potersi (in certo senso con ragione) annoverare tra gli artefici della vittoria48.
Quanto Aristofane percepisse la veloce mutazione in atto, ma non ancora ‘codificata’ (lo sarà col rientro di Trasillo ad Atene e col decreto di Demofanto) è difficile dire. Nella commedia – che Comparetti (oggi non più creduto) identificava col Triphales – testimoniata da un papiro fiorentino (P.Flor. II, 11249), Aristofane ad un certo punto ‘toccava’ (ma non è chiaro in che tono) i due che per qualche tempo erano o parvero i padroni della situazione: Teramene e Aristocrate. Di loro diceva, o faceva dire, che «hanno in mano tutto» (fr. C, col. I, 20-25).
Non è, in sé, una presa di posizione ostile. Ostilità, semmai, manifestava e con larghezza, nel Triphales contro il fuggiasco e traditore Aristarco, responsabile della perdita di una importante piazzaforte come Oinoe50.
Resta comunque una domanda che investe la trama stessa della commedia: perché questo rigoroso silenzio su Alcibiade e, invece, questa vera e propria aggressione contro Euripide? E perché fare delle donne – protagoniste positive della Lisistrata e anche qui esaltate nella quasi avvocatesca parabasi – le sue accusatrici?
Nel 410 la posizione di Alcibiade rispetto ad Atene era daccapo in movimento rapido. Il suo nome era stato ‘usato’ nelle prime fasi preparatorie della congiura: ed era stato lui a fare la prima mossa. Pisandro, quando era venuto ad Atene nel dicembre 412, aveva constatato che il nome di Alcibiade suscitava ancora molta ostilità e forti resistenze non facilmente superabili; al punto che, nei successivi interventi assembleari, quel nome non l’aveva più fatto, aveva sbandierato unicamente il denaro del Gran Re. Comunque, una volta partito Pisandro, i giovani assassini legati alle eterie avevano ritenuto di mandare un segnale all’esule ammazzando il capo popolare Androcle perché era stato a suo tempo (415) accusatore implacabile di Alcibiade51 profanatore ‘empio’. (Democratici e grandi famiglie della casta religiosa su questo punto andavano d’accordo.)
Quando Aristofane lavorava alle Tesmoforianti (nate come attacco etico-letterario ad Euripide) Alcibiade è ancora l’esule, a giudizio di molti non perdonabile; è anche colui che ha prima millantato di possedere e di poter mettere a frutto influenti legami persiani per poi, invece, unirsi all’anti-Atene arroccata a Samo.
Quando però il lavoro era avanti e si approssimavano le Dionisie (del 410), Alcibiade, la cui condanna è stata ormai cassata, è diventato l’alleato principale del nuovo regime e l’artefice di una riscossa militare neanche ipotizzabile appena pochi mesi prima. Così la commedia anti-euripidea s’è arricchita di motivi politici à la page: prudentemente però su Alcibiade, l’uomo del giorno, neanche una parola. Anzi, in un caso, al posto del nome di Alcibiade – che ci si aspetterebbe – sbuca fuori inopinatamente, come s’è già detto, il nome di Euripide. È al principio del proclama della banditrice52 (uno dei tre ‘inserti’ politici), là dove vengono elencati i crimini contro la democrazia sui cui eventuali responsabili cadono le «maledizioni»: e il secondo dei crimini previsti è «se uno intavola trattative coi Persiani... e con Euripide» (vv. 336-338)!
In tutto questo oscillare, dunque, l’ostilità verso Euripide, verso la sua critica strutturalmente lontana dalle granitiche certezze dell’‘Ateniese medio’, è rimasta una costante. Segno di accorta navigazione questo tacere su Alcibiade; segno di insofferenza caratteriale prima ancora che politica questo sfogare comunque la vis comica su Euripide (poco importa se intimamente apprezzato), nella certezza di strappare così l’applauso all’‘Ateniese medio’.
Se si considerano le persone cui Euripide veniva associato dalla tradizione antica (da Anassagora a Socrate, a Protagora, a Prodico per tenerci unicamente all’ambito filosofico, cioè a quello maggiormente bersagliato da Aristofane) si può meglio comprendere come Euripide sia apparso – in quei mesi più che mai – ad Aristofane il rappresentante di una élite che gli si rivelava alla prova dei fatti come l’esatto contrario degli adorati καλοκἀγαθοί. Ovviamente parliamo di ambienti nei quali l’oscillazione e le convergenze temporanee complicano costantemente il quadro.
1 Kindlers Neues Literatur-Lexikon, I, Kindler, München 1988, p. 686.
2 Aristophanes and the Events of 411, «Journal of Hellenic Studies» 97, 1977, pp. 112-126: p. 122.
3 Peraltro sfumato rapidamente all’orizzonte.
4 Tucidide, VI, 60, 1.
5 Tucidide, VIII, 53, 1.
6 Fr. 564 K.-A.
7 Cfr. supra, cap. 1, La Boulé terameniana.
8 Questo dato era stato chiarito da Julius Richter nel lontano 1845 (Aristophanisches, Nauck, Berlin 1845, pp. 11-12). «Unfortunately» Douglas Olson non se n’è accorto (Austin-Olson, p. XXXV).
9 Su ciò si possono vedere le prudenti pagine di P.J. Rhodes, The Athenian Boule, Clarendon Press, Oxford 1972, pp. 185-186.
10 Andocide, I, 75; e inoltre Plutarco, Alcibiade, 26, 3 (che non attinge solo a Tucidide); cfr. ancora Eschine, II, 176: i Quattrocento come i Trenta.
11 Tucidide, VIII, 68, 4.
12 Nei capitoli di analisi lessicale, che prendono spunto dalla guerra civile a Corcira (Tucidide, III, 80-82).
13 I, 20; VI, 53-60, 1.
14 VI, 60, 1.
15 Ibid.
16 Tucidide, VIII, 68, 4. (Cui segue il sarcasmo sul popolo abituato per metà di quei cento anni a toglierla agli altri la libertà.)
17 Tesmoforianti, 335-351; 1136-1144 (importante anche la parabasi).
18 Andocide, I, 96-97.
19 Συγκατάγειν τὸν τύραννον.
20 «Αὐτὸς καὶ γένος» è formula di obbligo in queste sanzioni: si pensi al decreto su Artmio (Demostene, Terza Filippica, 42 etc.).
21 Tesmoforianti, 352-356.
22 Isocrate, Panegirico, 157.
23 Tucidide, VIII, 54, 2.
24 Plutarco, Alcibiade, 11; Wilamowitz, Einleitung in die griechische Tragödie, Weidmann, Berlin 1889, p. 13.
25 Si riferisce alla stoccata contro costui nella parabasi (v. 804).
26 Aristophanisches cit., p. 12.
27 Per il valore di ἐμοί (se il nesso è νόμος ἐμοί) – «the mores of a particular group» – si apprezza un cenno del tutto incidentale di J.K. Davies (rec. a M. Ostwald, Nomos and the Beginnings of the Athenian Democracy, Clarendon Press, Oxford 1969, «The Classical Review» 23, 1973, pp. 224-227: p. 226). Forse ci si può chiedere però se la collocatio verborum (ἐμοὶ δεῦρο) non dia ad ἐμοί il valore di dativo etico, «qui, accanto a noi».
28 La collocazione della parola (ἣ ... μόνη) dimostra che μόνη va riferito ad entrambi i concetti. Sul valore di μόνος in una preghiera cfr. E. Norden, Agnostos Theos. Untersuchungen zur Formengeschichte religiöser Rede, Teubner, Leipzig-Berlin 1913, p. 245, n. 1.
29 Sulla scia di Droysen («Sichtbar einzig des Landes herrscht») Van Daele («qui seule y détient visiblement le pouvoir»). Meglio Willems: «seule en possession d’un visible pouvoir». «Sola ha nome di potenza certa» (Del Corno) non chiaro; «che ne tiene il potere visibile e le chiavi» (Paduano: si perde del tutto μόνη); «qui seule détient notre acropole et la puissance manifeste» (Thiercy: di gran lunga il migliore; tra l’altro s’è ricordato che πόλις senza articolo è l’acropoli: cfr. Tucidide II, 15, 6); «che sola tiene la nostra città e il potere manifesto» (Mastromarco).
30 Su questo epiteto vedi infra, l’Appendice 2, al termine di questa Parte IV.
31 Griechische Verskunst, Weidmann, Berlin 1921, p. 591.
32 Nonché Prato, Aristofane. Le Donne alle Tesmoforie, traduzione di D. Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 2001.
33 Bene Austin e Olson ad loc.: «if any particular keys are in question, they are more likely those of the city’s temple storerooms than of its gates» (Austin-Olson, pp. 334-335).
34 Su ciò cfr. supra, cap. 2, Furti da oligarchi.
35 C.A. Anderson, Athena’s Epithets. Their Structural Significance in Plays of Aristophanes, Teubner, Stuttgart-Leipzig 1995, p. 63.
36 È stata da taluni negata la pur ovvia allusività, nel 411/410, di un tale epiteto. Così uno studioso di Yale, che trentacinque anni fa spiegò al mondo che l’aggettivo περιμάχητος significa: «an object for which two or more parties contend in rivalry» (J.F. Gannon, Thesmophoriazusae restitutae. An essay in annotation and interpretation, Diss. Yale 1982, pp. 62-63): il che è ovvio, ma non esclude un riferimento alla contesa per ἔχειν τὴν πόλιν nei mesi del governo, crisi e caduta dei Quattrocento. Ricordiamo anche la ἀμφίπτολις ἀνάγκη in Coefore, 75-76.
37 Tranne Blaydes, che almeno s’è posto la domanda ma ha suggerito un intervento peggiorativo: κρατεῖ φανερῶς (F.H.M. Blaydes, Aristophanis comoediae, I, Halle 1880).
38 Non στυγνάς come si legge nell’apparato dell’edizione Wilson (Aristophanis Fabulae, Clarendon Press, Oxford 2007).
39 O, comunque, una sequenza interpretabile come un ferecrateo (verso ben presente in questo corale ‘libero’ o composizione astrofica).
40 C. Prato (Aristofane, Le Donne alle Tesmoforie cit., p. 329) ne ha rilevato anche una possibile traccia metrica. Meineke (Aristophanis comoediae, Tauchnitz, Leipzig 1860) si liberava dei vv. 352-372 bollandoli come «carmen spurium». Ostwald (The Athenian Legislation against Tyranny and Subversion, «TAPhA» 86, 1955, pp. 103-128) vanificava l’impatto notevole delle ἀραί contro «chi tratta con i Persiani o progetta la tirannide o vuol riportare in città il tiranno», sostenendo che si tratti di formule: come antecedente indicava la controversa «legge contro la tirannide» di cui parla Aristotele (Costituzione degli Ateniesi, 16, 10) che immaginava costantemente richiamata nella prassi corrente. A proposito dell’altro ‘inserto’ anti-tirannico MacDowell, Aristophanes and Athens: an Introduction to the Plays, University Press, Oxford 1995, p. 252 parlava di «comune formula di elogio» di Atena (1143-1144). Escogitazioni miranti a liberarsi di un problema. L’iniziale proposito apolitico e puramente letterario delle Tesmoforianti si trova nella parabasi: «Nessuno si aspetti da parte mia attacchi personali, κακῶς λέγειν» (964-965). (Ancora una volta il ‘gioco’ è che chi parla è una donna, e dunque dice κακῶς λέγειν ἄνδρας – parlar male degli uomini.) Sul rilievo di questo preannunzio vedi C.F. Russo, Aristofane autore di teatro, Sansoni, Firenze [1962] 19842, p. 296.
41 The Thesmophoriazusae of Aristophanes, G. Bell and Sons, London 1920, p. 123 (commento al v. 1143).
42 Come si esprime, con fastidio frammisto a odio, [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 2.
43 E comunque aggiunge nella parabasi anche un tocco del tutto slegato da qualunque nesso con la trama, di ‘politicamente corretto’: un quadretto comparativo del pessimo Iperbolo e dell’eroico Lamaco (836-844), morti entrambi da tempo.
44 Come si esprime Tucidide, VIII, 97, 2: «μετρία γὰρ ἥ τε ἐς τοὺς ὀλίγους καὶ τοὺς πολλοὺς ξύγκρασις ἐγένετο».
45 G. Busolt, Griechische Geschichte, III.2, Perthes, Gotha 1904, p. 1527 e nota 2; R. Meiggs, The Athenian Empire, Clarendon Press, Oxford 1972, p. 369.
46 Diodoro Siculo, XIII, 52, 2; Cornelio, Alcibiade, 5, 5; Filocoro, FGrHist 328 F 139.
47 Senofonte, Elleniche, I, 1, 12-13.
48 Senofonte, Elleniche, I, 1, 22-23. Teramene ha lasciato Atene, nella certezza che – saldatasi la riconciliazione (da lui auspicata) con Samo, Alcibiade e Trasibulo – il ritorno alla democrazia tradizionale fosse uno sbocco obbligato. E non era così ingenuo da opporvisi. Al contrario è stato capace di passare per colui che ha contribuito alla restaurazione democratica; con la sua partenza da Atene onde trovarsi al fianco della flotta combattente, ha già decretato di fatto la fine dell’‘equilibrato’ regime di Cinquemila. Esso d’altra parte si fondava sull’ambiguità del ritorno in funzione dell’assemblea (col sottile discrimine che ‘cittadini’ erano solo i Cinquemila: ma questo è un ‘argine’ che viene travolto nei fatti e sarà cancellato anche formalmente con la prima pritania del 410/409). Nelle Tesmoforianti è l’assemblea che funziona e delibera anche se il potere della Boulé è ancora così forte. Ciò rispecchia perfettamente la trasformazione in atto. Gli ammiratori del ‘modello’ Cinquemila, come ad esempio Tucidide, non avranno gradito questo disinvolto ‘salto della quaglia’ di Teramene. Senza fremiti ha buttato a mare i ‘moderati’, salvo liquidare poi il clan di Alcibiade. E nella stessa circostanza (processo degli strateghi) manderà a morte anche Aristocrate, suo alleato contro Antifonte.
49 Mertens-Pack3 157. Datato al II secolo d.C.; CLGP, I.1.4, 2006 (Aristophanes 28).
50 Tucidide, VIII, 98.
51 Tucidide, VIII, 65, 2.
52 Tesmoforianti, 335-338.