2.
Dal decreto di Demofanto
al processo degli strateghi

1.

La situazione dei mesi successivi alla restaurazione democratica sancita formalmente dal decreto di Demofanto è così ricostruita in una efficace pagina di Georg Busolt1:

«Fino a quel momento [fino al decreto di Demofanto e onori ai (presunti) uccisori di Frinico] – sotto l’influsso dei moderati –, a parte Antifonte e compagni, erano stati condannati soltanto coloro che erano fuggiti nel campo nemico, dunque oligarchi su cui pesava l’accusa di tradimento, ovvero personaggi come Polistrato [a noi noto grazie al discorso di Lisia in sua difesa]. Ora invece furono posti in stato d’accusa molti cittadini che erano stati semplicemente componenti del Consiglio dei Quattrocento o che sotto il loro dominio avevano rivestito qualche carica o comunque avevano svolto una qualche funzione; furono condannati a pesanti multe (Geldstrafen) ovvero alla perdita dei diritti civili ovvero condannati all’esilio, alcuni addirittura messi a morte e per giunta senza nemmeno una sentenza di condanna da parte dell’assemblea popolare. Coloro i cui beni non erano sufficienti per pagare le multe furono inseriti nei registri dei debitori pubblici e così persero i diritti civili.

In parziale atimia caddero quei combattenti2 che fino all’ultimo erano stati dalla parte dei Quattrocento: e cioè cavalieri e opliti. Essi persero il diritto di essere scelti a sorte per entrare nella Boulé e il diritto di presentare proposte davanti all’assemblea. Tra coloro che furono banditi su impulso di Cleofonte vi era Crizia, quantunque egli avesse ostentato grande zelo contro i potenti ora abbattuti.

Demagogici sicofanti, tra i quali si distinsero Demofanto, Cligene ed Epigene, trasformarono queste azioni accusatorie in fonti di lucro [in un ‘affare’]. Dietro compenso si mostravano indulgenti coi debitori; chi non pagava veniva marchiato come pubblico debitore. Questo andazzo esercitò un influsso corruttore, provocò sfiducia e odio e procurò numerosi nemici alla restaurata democrazia».

La base di queste notizie è nel discorso di Lisia, Difesa di un accusato di attentato alla democrazia [XXV, 25]. In questa pagina di Lisia si parla del comportamento di quei tre, vessatorio e venale3. È forse uno dei discorsi più importanti compresi nel corpus lisiaco. In quanto logografo, Lisia si pone dal punto di vista del suo cliente e deve portare argomenti a favore degli interessi del cliente. Il ‘democratico’ Lisia, che dagli ultra-oligarchi al potere ha patito danni enormi, riesce a porsi nei panni del conservatore messosi al servizio degli oligarchi non però (a quanto pare) autore di crimini né malfattore. Ed escogita perciò la celebre ‘legge’ della lotta politica secondo cui «nessun uomo è per natura oligarchico o democratico»; ed abilmente si appella alla corte: «sicché dipende soprattutto da voi che il maggior numero di cittadini desideri la costituzione attuale [cioè la democrazia restaurata]». Parla dopo la caduta dei Trenta e dei Dieci ma si riferisce anche al dopo 411 per denunciare gli effetti del decreto di Demofanto. (Può farlo con durezza perché è ormai storia passata.) E dice molto chiaramente che, allora, la persecuzione contro chi si era compromesso col governo dei Quattrocento produsse sommarie condanne a morte ed esilii, processi mostruosi, e comportamenti brutalmente estorsivi che precipitarono la città nella lotta civile (τὴν πόλιν εἰς στάσεις καὶ τὰς μεγίστας συμφορὰς κατέστησαν)4. Diagnosi che ritroviamo – con puntuale rispondenza – negli anapesti della parodo delle Rane, dove il coro sacro, presentandosi, ingiunge l’allontanamento di chi «attizza la maledetta lotta civile (στάσιν ἐχθρὰν ~ ἀνεγείρει5, e al termine dell’epirrema (nella parabasi) là dove si evocano, con terminologia archilochea, i marosi (ἐν ἀγκάλαις κυμάτων)6 in preda ai quali si trova la città. «Tempeste» che non si riferiscono alla situazione militare (che nel gennaio 405 è positiva, a ridosso della grande vittoria delle Arginuse) ma alla inesausta conflittualità politica interna. Dai processi innescati da Demofanto in avanti essa non s’è mai placata e, se possibile, si è venuta man mano ulteriormente avvelenando, fino al processo contro gli strateghi, nel corso del quale alcuni capi popolari, ben manovrati, hanno infierito più che mai con l’uso politico della giustizia.

Certo, Lisia parla in quel modo nell’interesse del suo cliente, ma non è così cieco da non vedere gli effetti di una tale prassi vendicativa e persecutoria. Con la consueta sferzante lucidità Wilamowitz sintetizzava così la posizione di Lisia in quel frangente: «Un avvocato radicale, nel momento in cui gli si è presentato come cliente un personaggio ragguardevole, non esita a disvelare spontaneamente il modus operandi dei suoi compagni di partito [Parteigenossen: scil. democratici radicali anch’essi]»7.

2.

Il riferimento puntuale che Lisia fa ai provvedimenti di atimia (XXV, 26: «cittadini scacciati o privati dei diritti») corrisponde al quadro che si ricava dalla parabasi delle Rane e dall’ampia descrizione che Andocide premette alla citazione letterale del decreto di Patrocleide sui provvedimenti di ‘atimia’ emanati in massa8. Aristofane dunque, con questa parabasi, si muove davvero in difesa di un numero consistente di ἄτιμοι. Altrimenti un intervento così impegnativo non avrebbe senso. E, in particolare, per opliti e cavalieri: ulteriore segno della continuità del suo impegno e del rapporto di intrinsichezza proclamato nel 424 (Cavalieri).

La deduzione secondo cui, in blocco, molti cavalieri (forse la gran parte) e opliti – «rimasti in città» sotto i Quattrocento – sarebbero perciò stati colpiti da atimia non può che poggiarsi sulla parola di Andocide (I, 75-77). Ovviamente si tratta di gruppi (certo consistenti). Dei cavalieri non si stenta a credere che si siano schierati in blocco con l’oligarchia9. Quanto agli opliti, come s’è detto a proposito delle cifre tucididee in merito (II, 13), non si deve generalizzare: ci sono opliti a Samo, che, ad un certo punto, si sono posti sotto l’autorità di Trasibulo e Alcibiade; c’è poi un elemento non trascurabile: gli opliti che hanno arrestato Alessicle e costretto Teramene a schierarsi contro chi costruiva il muro di Eezionea sono certamente ‘lealisti’ verso la democrazia. Naturalmente bisogna distinguere tra opliti in servizio come formazione combattente e ‘ceto’ degli ὅπλα παρεχόμενοι. (Analoga distinzione vale per il ceto equestre rispetto ai 1200 cavalieri organizzati come corpo militare.) ‘Perseguibili’ saranno stati soprattutto i secondi, non gli altri.

La descrizione del pesante clima politico determinatosi in Atene dal momento in cui si incominciò a dare applicazione retroattiva al decreto di Demofanto ci viene fornita, come s’è detto, da Lisia, XXV. È un clima di violenza sistematica, condanne alla privazione dei diritti per ‘insolvenza’ a danno di coloro che non erano in grado di pagare multe elevatissime, e persino «condanne a morte senza processo». Sorge, sempre quando si tratta di oratori, la questione del tasso di veridicità o di esagerazione: quale che sia la natura del discorso lisiaco è evidente che il cliente per il quale fu scritto dovette affrontare un tribunale dinanzi al quale non poteva – se non autolesionisticamente – inventare dati inesistenti. Il clima violento e persecutorio lì rievocato era determinato anche dal fatto che al momento della prima restaurazione democratica (prima pritania dell’anno 410/409) non c’era stato alcun accordo di ‘amnistia’. Si può supporre che, solo col rientro, a lungo protratto, di Alcibiade e l’attribuzione a lui di poteri straordinari (αὐτοκράτωρ)10 questa ondata di resa dei conti si sia fermata, anche perché è ovvio che i capi scatenatisi nel biennio 410-408 abbiano perso ascendente con l’arrivo del nuovo ‘astro’, ‘aureolato’ di vittorie decisive dinanzi alle quali i meriti dei ‘professionisti della politica’ impallidivano11.

3.

Nell’aspra rievocazione di quei fatti, Lisia fa dei nomi: Epigene, Demofanto e Cligene. Epigene è personaggio noto da un documento epigrafico della tarda estate dell’anno 40912 come promotore della ripresa dei lavori di costruzione dell’Eretteo: iniziativa che denota la ripresa della politica (a suo tempo spiccatamente periclea) di lavori pubblici in quanto strumento dello ‘stato sociale’, cioè del ‘salario diffuso’ tra i non possidenti. Non sorprende dunque di ritrovare il nome di Epigene in prima fila tra i ‘capi popolari’ responsabili – secondo il cliente di Lisia XXV – dell’ondata repressiva del 410/409.

Gli altri due nomi sono, nell’ordine, Demofanto e Cligene. Nella tradizione manoscritta dei discorsi di Lisia13 si legge Demofane e Clistene. Ovviamente l’argomento di primaria importanza a sostegno della rettifica dei due nomi14 è che – al pari di Epigene – Demofanto e Cligene (due nomi molto rari) furono protagonisti della ondata repressiva avviata col decreto di Demofanto nella prima pritania dell’anno 410/409: Demofanto in quanto promotore del decreto e certamente ispiratore della sua interpretazione ‘estensiva’, Cligene in quanto segretario della Boulé in quella prima pritania. E Cligene è un bersaglio contro cui ferocemente si avventa Aristofane nella iperpolitica parabasi delle Rane (708-709). L’obiezione sollevata contro il ripristino dei due nomi nel loro naturale contesto è piuttosto generica: non sarebbero pensabili due errori a così breve distanza15. Si trascura però di considerare la ben nota tendenza dei nomi meno noti a corrompersi in quelli più diffusi e più conosciuti. E comunque andrebbe considerato ogni singolo caso separatamente. Demofanto è nome rarissimo: nel quinto secolo troviamo con quel nome unicamente il promotore del decreto16. Altri due si segnalano alla fine del IV secolo e uno nel II a.C. Invece Demofane è nome comunissimo; ve n’è un profluvio. Della tendenza del nome Demofanto a corrompersi in un nome più noto abbiamo anche un esempio certo: esso si trasforma in Diofanto nel discorso demostenico Contro Leptine (XX, 159: dove si sta parlando senza dubbio del decreto di Demofanto del 410/9 e del relativo giuramento). La confusione è agevolata dal fatto che altrove Demostene parla più volte (nell’orazione XIX) di Diofanto. Cioè di Diofanto di Sfetto (PAA 367640): ci sono dieci pagine di personaggi di nome Diofanto in PAA. La possibilità di errore (da Δημόφαντος a Δημοφάνης) in Lisia, XXV, 25 era dunque molto elevata.

Ancora più plausibile appare il deterioramento del nome Κλειγένης dal momento che l’unico portatore di quel nome è, nel V secolo, proprio il segretario della Boulé del 410/917. Al contrario, va da sé che Clistene è nome di gran lunga più noto e molto diffuso.

L’odio che Aristofane dimostra nei confronti di questo personaggio – del quale apertamente preannuncia la soppressione fisica – è pari a quello che riversa su Cleofonte. Di ciò diremo più oltre18.

Che Lisia (XXV, 25) intenda riferirsi all’azione di Demofanto e agli effetti del suo decreto si arguisce anche dagli enfatici richiami in Demostene, Contro Leptine (XX), 159 e Licurgo, Contro Leocrate, 127; in entrambi i casi il richiamo a Demofanto è nella peroratio finale dell’orazione, nella parte cioè più emotiva, e che deve essere più efficace perché fa appello a ‘tasti’ psicologicamente sensibili dell’uditorio, e di sicuro effetto. La ‘retorica democratica’ aveva, evidentemente, metabolizzato quella ormai remota ‘resa dei conti’ ‘nobilitando’ i comportamenti di quel biennio 410/408 che assurge così, a distanza di mezzo secolo, a leggenda positiva della città. Lisia – nei due discorsi XX e soprattutto XXV – è costretto ad andare controcorrente, per difendere quel genere di clienti, e fa perciò dell’abile ‘revisionismo’ su quegli anni.

4.

La sistematica ‘persecuzione’ giudiziaria a carico delle persone compromesse col regime dei Quattrocento è ulteriormente chiarita dall’altra orazione confluita nel corpus lisiaco in difesa di un sospetto oligarca (XX: Per Polistrato), di quel Polistrato che fu padre di Lykios (Λύκιος), capo nel 401/399 della cavalleria dei Diecimila19. Un personaggio che, ancora una volta, ci riporta all’intreccio tra cavalleria e oligarchia: Polistrato uno dei Quattrocento (e certo cavaliere egli stesso) e suo filgio Lykios coi Trenta (donde l’arruolamento coi Diecimila).

Il quadro che l’autore traccia in quella orazione è del tutto conforme alla denuncia contenuta nell’orazione XXV: «Gli accusatori mettono in salvo gli imputati estorcendo loro denaro; coloro da cui non possono spremere nulla li dichiarano colpevoli»20. E chi sono gli imputati? «Mettono sotto accusa – risponde l’oratore – sia coloro che si erano compromessi presentando proposte nel Consiglio sia quelli che non l’avevano fatto» (XX, 7). È evidente che il «Consiglio» di cui qui si parla è la Boulé dei Quattrocento, di cui Polistrato era membro. Il processo cui si riferisce questo discorso è sintomatico del modo in cui la ‘epurazione’ fu attuata. Polistrato dopo la caduta dei Quattrocento fu portato due volte in tribunale: la prima volta fu in grado di pagare l’ammenda che gli veniva inflitta; nella seconda, ora, si vede minacciato da una multa cui non è in grado di far fronte. Non conosciamo l’esito del processo, ma si capiscono la dinamica e l’approdo di azioni del genere: imporre ammende talmente pesanti e insostenibili da determinare l’iscrizione dell’imputato nel registro dei debitori pubblici, e quindi puntualmente passibile di atimia21. È questo il meccanismo con cui venne ‘gonfiata’ la categoria degli atimoi, soprattutto da quando la pratica vessatoria si estese dai Quattrocento che non erano finiti in tribunale22 alla ben più vasta categoria di coloro che avevano «servito in formazioni militari sotto i Quattrocento»23. In questo modo anche chi non si era esposto con esplicite proposte nella Boulé dei Quattrocento (come Polistrato) o anche era «rimasto in città» svolgendo mansioni che – in quanto tali – potevano aver giovato ai Quattrocento, poiché insolventi di fronte ad ammende spropositate, diventavano debitori pubblici, e dunque atimoi (non più necessariamente in forza di un’accusa δήμου καταλύσεως). Ecco perché Aristofane nella parabasi delle Rane colloca in due distinte categorie «coloro che sono caduti negli inganni di Frinico» (689) e, più in generale (692: εἶτα), gli atimoi («Dico, inoltre, che bisogna che nessuno, in città, sia posto nella condizione di atimos»).

Nelle parole del decreto di Patrocleide – che dopo Egospotami recepirà quanto chiesto da Aristofane in quella parabasi – si apprezza la accurata distinzione tra le varie categorie, tutte precipitate nell’atimia: a) coloro che risultavano tuttora insolventi rispetto ad ammende o cauzioni (προστάξεις ἢ ἐγγύαι); b) coloro che sono stati iscritti nella lista degli atimoi in quanto appartenenti alla Boulé dei Quattrocento (ὅσα ὀνόματα τῶν τετρακοσίων ἐγγέγραπται [scil. nella lista degli atimoi]); c) qualunque altro nome figuri (in lista) in relazione ad azioni compiute durante l’oligarchia (περὶ τῶν ἐν τῇ ὀλιγαρχίᾳ πραχθέντων)24.

E dal 410/9 quei provvedimenti non erano mai stati cancellati. Perciò il decreto di Patrocleide stabilirà – con formule circostanziate e perentorie – la distruzione di tutta la documentazione (sino ad allora conservata) riguardante quei provvedimenti di atimia e rispettive motivazioni. Andocide (che nell’orazione Sui Misteri [la I del corpus] parla dopo anni, nel 399, di quei fatti) rievoca con grande enfasi quel provvedimento: «E voi decideste allora di cancellare tutti quei decreti (πάντα τὰ ψηφίσματα), i loro originali e le eventuali copie (καὶ εἴ τι πού τι ἀντίγραφον ἦν25. Le esatte parole del decreto erano: «Cancellare quei decreti e non consentire che chicchessia ne possieda copia»26.

Ed è significativa la parola con cui il decreto di Patrocleide si concludeva (prima di minacciare la morte27 a chi ne violasse il dettame): μηδὲ μνησικακῆσαι μηδέποτε («e non rivangare mai più quelle colpe»). La parola poi celebre è μὴ μνησικακεῖν (non serbare memoria dei mali subiti e/o perpetrati), che sarà la parola chiave della faticosa e contrastata pacificazione instaurata all’indomani della guerra civile (settembre 403).

Aristofane e poi Patrocleide ottengono quella amnistia dopo cinque anni dal decreto di Demofanto, dopo che, di mezzo, c’è stata l’ondata repressiva che Lisia, o chi per lui, descrivono così efficacemente (XX e XXV): un lungo periodo di privazione di diritti per una grande massa di persone, e dopo che era sopravvenuta, tragicamente risolutiva, la sconfitta senza riscatto di Egospotami.

5.

Uno dei bersagli illustri dell’ondata repressiva era stato Crizia. Senofonte lo attesta in modo esplicito quando descrive l’avvio del governo dei Trenta: Crizia – egli scrive – era «propenso (προπετής: che implica anche la nozione di precipitoso) a far fuori molti (dunque senza processo) in quanto era stato costretto all’esilio (ἅτε φυγὼν) dal regime democratico (ὑπὸ τοῦ δήμου28. Formulazione, quest’ultima, che lascia nel vago le modalità di tale «esilio»: fermo restando che dové trattarsi di un processo politico, sorge la solita questione se si sia giunti alla condanna in presenza dell’imputato o se – come è più probabile – egli si sia sottratto con la fuga (auto-esilio) cui teneva dietro la condanna in contumacia (ἀειφυγία) con tutte le gravi, ben note conseguenze personali. L’espressione «dal regime democratico (ὑπὸ τοῦ δήμου)», se non è una brachilogia, può far pensare financo ad una decisione assembleare (come nel caso del processo contro gli strateghi nel settembre 406). Ci dev’essere stato comunque un accusatore. Il fatto che Aristotele, nella Retorica, mostri di conoscere un passo di invettiva pronunciata da Cleo­fonte contro Crizia, consistente nel rinfacciargli – ricorrendo a parole di Solone – la pessima condotta del suo antenato e omonimo Crizia «dai capelli rossi», può suggerire una possibilità: quella di uno scontro appunto davanti all’assemblea con Crizia presente e Cleofonte che gli si rivolge. Effettivamente Aristotele dice che Cleofonte «si servì (ἐχρήσατο) contro Crizia (κατὰ Κριτίου) di citazioni dalle elegie di Solone»29. È sconsigliabile separare questo intervento – molto elaborato se, come nella pratica oratoria, ricorreva anche a fonti poetiche – di Cleofonte contro Crizia dalla occasione concreta in cui «il demo» (come si esprime Senofonte) cacciò Crizia. Poté anche essere un attacco pubblico cui seguì un’azione giudiziaria. Sta di fatto che non avrebbe senso negare che alla base della cacciata (o fuga) di Crizia da Atene ci fosse il determinante intervento di Cleofonte. Questa resa dei conti con un uomo – Crizia figlio di Callescro – che si era molto compromesso coi Quattrocento30, e che aveva cercato di riciclarsi come fedele esecutore di direttive terameniane fino a farsi promotore già sul finire del 411 del decreto che annullava la condanna di Alcibiade31, va collocata nell’ambito dell’ondata giudiziaria innescata dall’applicazione retroattiva del decreto di Demofanto. Ed è anche un segnale della crescita di Cleofonte come leader ascoltato ed influente. Cacciare Crizia – mentre Teramene, lontano e impegnato nella guerra navale, nulla faceva (né poteva) fare per salvarlo – non era impresa per un gregario.

Punto fermo in questo sempre più minaccioso turbine giudiziario è la capacità di Teramene di non venire lambito dal netto cambiamento di clima politico. È, a dir poco, ammirevole come non sia scattata a suo carico la clausola che relegava in condizione di atimia «coloro i cui nomi erano iscritti nella lista dei Quattrocento»32, dei quali egli era stato uno dei capi! Nelle Rane, Aristofane, vera ‘antenna’ della politica ateniese di quegli anni, raffigurerà con efficacia (all’indomani della seconda caduta di Alcibiade e dell’eliminazione fisica del collegio degli strateghi quasi al completo) l’inaffondabilità di Teramene. E lo farà con ironia ma anche con qualche cautela. È il coro, in quel caso, che ironizza – con un apparente elogio – sulla capacità di Dioniso di compiere un rapido voltafaccia: «È così che si comporta un uomo saggio [νοῦν ἔχοντος], uno che ha senno [φρένας] e che ha navigato molto: girarsi sempre dalla parte della nave che sta al sicuro piuttosto che restarsene lì immobile come un quadro, sempre nella stessa posizione. Un uomo abile [δεξιός] si gira sempre dalla parte migliore [più comoda: τὸ μαλθακώτερον): questo fa un uomo in gamba, un vero Teramene»33.

Sembra puramente derisoria questa tirata, ma non andrebbe trascurata a questo proposito la discussione intorno al discrimine tra abilità e opportunismo di cui dà conto Aristotele in una pagina elogiativa dedicata proprio a Teramene34. Una pagina in cui Aristotele, di suo ma anche rispecchiando una tradizione filoterameniana, sostiene la positività della figura e dell’azione politica di Teramene con l’argomento che è proprio del buon cittadino cambiar ‘partito’ quando questo va fuori strada, si discosta dal ‘bene’. Questo genere di argomentazioni non è difficile immaginare che avessero corso già vivo Teramene, allorché era sotto gli occhi di tutti la sua capacità di passare indenne attraverso la più agitata stagione della politica cittadina. Nelle Rane daccapo Teramene viene ironicamente elogiato appunto per la sua capacità di ‘cadere in piedi’. L’occasione è data questa volta dalle parole di Euripide, che annovera due ben noti ‘moderati’ tra i suoi allievi – Clitofonte e Teramene35. «Teramene?!» esclama Dioniso. «Un sagace [σοφός]!36 Uno bravo in tutti i campi [δεινὸς εἰς τὰ πάντα: che però significa anche, al tempo stesso, ‘capace di tutto’, πάνδεινος, che a sua volta vuol dire ‘terribile’, ‘vitando’, ma anche ‘abilissimo’]; uno che quando capita in mezzo ai guai e quasi ci sta dentro senza scampo, ecco che casca... fuori dai guai!»37.

6.

Come s’è prima accennato, l’ondata repressiva – che aveva consentito ai ‘capi popolari’ di processare ed epurare – dovette subire una battuta d’arresto quando, finalmente e trionfalmente, rientrò in Atene Alcibiade38. Tale rientro, ancorché duramente avversato da gruppi che si facevano forti del divieto sacerdotale motivato col carattere sacrale dei reati commessi, fu determinato dall’irresistibile prestigio conseguito da Alcibiade con le sue reiterate e determinanti vittorie (più importante di tutte, Cizico), ma anche, e non meno, dagli effetti economici altamente positivi che ne derivarono, con immediato vantaggio del demo. Il successo più vistoso e proficuo, dopo la riconquista di Bisanzio e di Calcedone39, fu il rinnovato controllo di Atene sull’entrata e uscita dal Mar Nero con conseguente ripresa dell’afflusso di grano in città nonché del rinnovato tributo40. La risorgente prosperità41, dopo anni disastrosi, dalla catastrofe siciliana alle defezioni provocate dal governo presto impotente dei Quattrocento, consentiva davvero ad Alcibiade di rientrare come ‘salvatore’ e di ottenere poteri straordinari che neanche a Pericle erano stati concessi in modo formalizzato42.

Si è parlato non a torto, per quei mesi immediatamente successivi al rientro, di ‘dittatura’ di Alcibiade43 o di suoi ‘pieni poteri’44. Plutarco registra addirittura una notizia secondo cui «i poveri» auspicavano in quel momento che Alcibiade assumesse «la tirannide»45. È evidente che, in una tale nuovissima situazione politica, Teramene arretra, ma ormai non ci sono più rischi di rivalse giudiziarie nei suoi confronti. Il vigile Cleofonte ha fatto fuori Crizia ma non sembra essersi mai rivolto contro Teramene, il quale – per parte sua – pur teorico, pochissimi anni prima, della limitazione a 5000 benestanti della cittadinanza, non ha eccepito menomamente sull’iniziativa popolarissima di Cleofonte di usare le entrate per la diobelia per tutti46.

Invece è contro Alcibiade che si mobilita la reazione dei «capi popolari» non appena l’incidente di Notion (407 a.C.) – serio ma certo per nulla catastrofico – ne ha appannato il prestigio47. Nelle Elleniche senofontee non viene fatto alcun nome, si dice semplicemente che «gli Ateniesi in città [οἱ ἐν οἴκῳ Ἀθηναῖοι] se la prendevano con Alcibiade e gli muovevano rimproveri [χαλεπῶς εἶχον τῷ Ἀλκιβιάδῃ]». Eforo (Diodoro) parla di «repentino cambio di atteggiamento della massa popolare» nei confronti di Alcibiade48. Un frammento di informazione recepito dal tardo retore Imerio e serbato a noi da Fozio, chiama in causa Cleofonte come «accusatore» di Alcibiade, quasi certamente in questa circostanza49.

Cleofonte – ed è significativo questo aspetto della sua politica – liquida Crizia e contribuisce alla seconda (e definitiva) caduta di Alcibiade. Le accuse mosse contro Alcibiade in quella occasione ci sono note da Eforo-Diodoro. Qui è certo che la fonte sottostante è Eforo, visto che l’addebito principale rivolto ad Alcibiade era di aver trascurato il principale teatro di operazioni (donde lo scacco subito a Notion) per aver preferito lasciarsi andare a sopraffazioni inaccettabili e predatorie a danno della città di Cuma sulla costa asiatica50. Smania di razzia dunque e negligenza come comandante. Queste accuse non paiono una tarda trovata del cumano Eforo. Esse risuonano nelle Rane: «Detesto il cittadino che si mostrerà51 lento nell’aiutare la patria, veloce nel recarle gran danno, profittatore a proprio vantaggio, inutile alla città»52.

7.

Cleofonte – l’artefice molto popolare della diobelia – ha dunque contribuito validamente a rimuovere dalla scena politica ateniese sia Crizia sia, a quanto pare, Alcibiade. Questa azione su due fronti, coronata in entrambi i casi da successo, chiarisce bene le posizioni. Crizia era troppo compromesso per reggere a lungo, nonostante si fosse dato da fare, dopo la caduta dei Quattrocento, per riciclarsi; per parte sua Alcibiade è pur sempre altra cosa rispetto al ‘potere popolare’. Nel 415, quando la grande armata stava per salpare verso la Sicilia, egli era stato bersagliato da denunce provenienti da capi ‘medio-bassi’ dell’ambito popolare: Androcle53, il suo sodale Pitonico54, Teucro55, Dioclide56. E del resto cosa egli pensasse della democrazia come «follia universalmente riconosciuta come tale» lo sappiamo da uno che lo conosceva bene e in fondo lo stimava57.

Ciò che però non può passare inosservato e suscita ammirazione per l’abilità del personaggio è che unico indenne a fronte di questa ripresa del ‘potere popolare’ è rimasto Teramene. Cleofonte – per non dire di Archedemo, Callisseno e gli altri – non ha trovato pretesti o ragioni per sferrare un attacco a Teramene, politico o giudiziario (il che viene allo stesso).

Torniamo dunque a Teramene, e alla circostanziata definizione che Aristofane nelle Rane dà di un suo preciso exploit: «Quando sembrava vicinissimo alla rovina, invece è caduto fuori della trappola» (970: πέπτωκεν ἔξω τῶν κακῶν). Quando esattamente Teramene s’è trovato in tale situazione e ne è uscito a sorpresa indenne? È nel processo contro gli strateghi vincitori alle Arginuse (ottobre 406) che Teramene è riuscito a capovolgere a proprio favore una situazione per lui pericolosissima. Ed effettivamente è quel devastante processo il fatto politico incombente: talmente grave, e tuttora incombente, che nelle Rane si evita di parlarne apertamente (ben singolare prudenza da parte di un apparentemente imprudentissimo e ‘sfacciato’ quale Aristofane) ma vi si fa reiteratamente allusione58, evocando sia la prima vittima (Erasinide: Rane, 1196) che il primo artefice dell’azione contro i generali (Archedemo: Rane, 417), sia – insistentemente – la capriola salvifica di Teramene (vv. 537 e 970 e rispettivi contesti). Per intendere quelle reiterate allusioni giova ripercorrere la dinamica del processo monstre59.

La vicenda trae origine dall’ultima fase della battaglia vinta con molta fatica dagli Ateniesi alle isole Arginuse, tra Lesbo e la costa asiatica (agosto 406). Il denaro depositato nell’accampamento spartano è al centro delle mosse che i protagonisti compiono subito dopo la battaglia. I comandanti ateniesi vorrebbero impadronirsene lanciandosi subito all’inseguimento degli avversari in fuga60. Eteonico, invece, navarco spartano per l’anno seguente (406-405), saputo della catastrofe – che abilmente tiene nascosta ai suoi – provvede a mettere in salvo il denaro (χρήματα)61, con le navi superstiti, fuggendo verso sud, da Lesbo a Chio (in quel momento quasi per intero sotto controllo spartano)62. I generali ateniesi sono stati dapprima divisi sul da farsi; c’è stato un rapido consiglio di guerra: c’era chi proponeva di lanciarsi subito all’inseguimento del nemico in fuga, e dei χρήματα, mentre altri sostenevano la necessità di soccorrere i naufraghi delle navi ateniesi affondate (ben 25)63. Prevalse la proposta di compromesso prospettata da Trasillo: Teramene e Trasibulo, trierarchi, con 47 navi dovevano soccorrere i naufraghi, gli altri comandanti, con il resto della flotta avrebbero inseguito Eteonico (e il bottino sperato)64. Nel corso dell’inseguimento apprendono che Eteonico si è arroccato a Metimna nell’isola di Lesbo, dopodiché puntano prima su Metimna poi direttamente su Chio, ma invano; tornano a mani vuote65. Intanto anche il tentativo di Teramene e Trasibulo di salvare i naufraghi fallisce perché le loro 47 navi sono bloccate in una furiosa tempesta66.

Il duplice fallimento aveva creato un clima di allarme tra i generali. Due di loro nemmeno rientrarono in Atene (uno, Archestrato, era morto durante la battaglia; Conone non aveva preso parte alla fase finale dello scontro e quindi non era perseguibile, comunque neanche lui si fece vedere). I sei rientrati – tra cui il figlio di Pericle, Trasillo, Erasinide – furono immediatamente deposti. E Archedemo, «in quel momento capo popolare più in vista [ὁ τοῦ δήμου τότε προεστηκώς]», denunciò67 tutti davanti alla Boulé (evidentemente per il mancato soccorso ai naufraghi) appesantendo la posizione di Erasinide con una specifica accusa sul piano finanziario: di non aver consegnato alle casse dello Stato i proventi «dall’Ellesponto» (quella tassa, o pedaggio, che Alcibiade aveva imposto dopo la riconquista di Bisanzio e Calcedone). Archedemo era, in quel momento, anche il curator della cassa che distribuiva la diobelia. L’accusa era di sicuro e micidiale effetto, e infatti Erasinide fu immediatamente arrestato.

Intanto incombeva l’altra accusa.

Gli strateghi, prima ancora di rientrare in Atene, si erano cautelati su questo punto inviando una lettera «al consiglio e all’assemblea popolare» in cui dicevano che responsabile del mancato salvataggio era stata la tempesta in mare68. È evidente che in pericolo, a questo punto, erano soprattutto Teramene e Trasibulo poiché a loro era stato affidato (con ben 47 navi) il compito di salvare i naufraghi. Questo era per Teramene il momento più critico. E qui rifulse la sua bravura di spericolato giocatore. Giocò d’anticipo prima di essere tirato in ballo. Poiché gli strateghi (i cinque non ancora arrestati) venivano contestati davanti all’assemblea popolare69 da elementi del popolo per non aver salvato i naufraghi, Teramene si unì al coro degli accusatori ed anzi assunse un ruolo di punta sfoderando l’arma decisiva: la lettera degli strateghi che «accusavano la tempesta»70. Se la procurò e ne diede lettura: poiché gli strateghi stessi non accusavano i trierarchi ma «la tempesta» era evidente – argomentò – che i trierarchi (cioè lui e Trasibulo) non avevano alcuna responsabilità. Ed anzi era altrettanto chiaro che proprio gli strateghi dovevano essere chiamati a dar conto del mancato salvataggio dei naufraghi!

Inchiodati dalla loro stessa lettera, gli strateghi, costretti a parlare e a giustificarsi dinanzi all’assemblea ormai ostile, non poterono che confermare quanto avevano scritto. Ricordarono di aver diviso le forze – parte all’inseguimento del nemico, parte ai soccorsi (affidati, precisavano, «a uomini sperimentatissimi come Teramene e Trasibulo») – e ribadirono nobilmente: non perché ora ci accusano diremo che responsabili sono loro, ribadiamo che il salvataggio dei naufraghi fu reso impossibile dalla tempesta71.

A questo punto Teramene non solo era definitivamente salvo ma passava dalla parte degli accusatori. E fu infatti il grande regista (e anche scenografo72) dell’indignazione popolare contro gli strateghi, cui nulla valse l’appoggio del più importante esponente del clan di Alcibiade, Euryptolemos73. Pericle il giovane, Trasillo, Erasinide e gli altri furono tutti messi a morte con procedura sommaria e privati del diritto ad un giudizio individuale74. Teramene – che aveva manovrato, o lasciato scatenare, i capi popolari medio-bassi – rimaneva sulla scena unico vincitore. Cleofonte che non era intervenuto nel processo, taceva, privo di iniziativa.

È questo passaggio dal massimo rischio al massimo successo che Aristofane descrive non senza allarmata ammirazione quando fa dire a Dioniso che Teramene «quando è vicinissimo alla rovina, invece cade fuori dalla trappola» (Rane, 970). Ed è certamente allusivo il fatto che, a commento, tiri fuori la metafora del colpo peggiore (il colpo di Chio: χῖος) che nelle sue mani si converte in quello migliore (di Cos, o di Ceo se scartiamo la variante nota ad Aristarco). Lui non è andato a Chio, come invece gli sventurati strateghi. E poiché tutta la vicenda, piena di colpi di scena, della battaglia – la più grande battaglia navale di tutta la guerra – e dell’immediato seguito di essa si è svolta su navi in tempesta, è quanto mai calzante l’immagine cui ricorre il coro quando definisce «un vero Teramene» chi – al momento in cui si rischia e la nave è sbilanciata – si trova prontamente «con una piroetta [μετακυλίνδει] nella parte della nave che emerge dall’acqua [πρὸς τὸν εὖ πράττοντα τοῖχον]» (vv. 537 e 540).

È davvero, nelle Rane, la vicenda delle Arginuse, del processo e dei suoi effetti, il fatto dominante: dal prologo (Dioniso che assurdamente legge l’Andromeda sulla nave mentre è in atto la battaglia) alla parabasi (dove si parla ampiamente – nell’epirrema – del controverso affrancamento degli schiavi combattenti alle Arginuse e dell’attribuzione loro della cittadinanza ‘plateese’) alle allusioni ai tre attori principali del processo (Erasinide, Archedemo, Teramene), al quesito finale: se cioè convenga richiamare Alcibiade a risanare il panorama drasticamente spopolato della scena politica ateniese. Quesito che innerva la commedia in due punti nevralgici: l’antiepirrema (vv. 718-737) e la finale risposta, quasi concorde, dei due poeti in gara sull’urgenza di un nuovo personale politico cui affidarsi per «salvare la città» (vv. 1446-1459).

Né ciò stupisce se si considera che mai era avvenuto sino ad allora (e mai sarebbe accaduto in seguito) che venisse condannato a morte in blocco e con unica sentenza tutto il vertice militare e politico della città. E ciò era accaduto attraverso una procedura palesemente illegale e nella convergenza tra assemblea popolare e ‘capi’ medio-bassi per l’occulta regia dell’inaffondabile Teramene. Un trauma del genere, tale da intimidire anche le tempre più salde o cinicamente scanzonate, era inevitabile che imponesse alle residue forze in campo la ricerca di una via d’uscita.

8.

Aristofane compone dunque (non semplicemente ritocca) le Rane dopo l’esito del processo, cioè dopo l’ottobre-novembre 406 (il processo si data sulla base delle feste Apaturie il cui svolgimento75 interruppe per qualche giorno i lavori dell’assemblea chiamata a giudicare gli strateghi)76.

L’atteggiamento suo verso Teramene può sembrare sottotono, se non ambiguo. Quando vuol attaccare qualche politico, Aristofane è ben altrimenti aspro. Qui invece è ironico ma cauto e per certi versi quasi ammirativo. Per capire questa scelta conviene ancora una volta rifarsi alle divisioni interne al generico campo dei kalokagathoi77, alla ‘geografia politica’ di quei mesi. Gli uomini con cui Aristofane è in rapporto, e per conto dei quali ha lanciato l’impegnativo (e rischioso) appello a cancellare gli effetti del decreto di Demofanto, sono quelli che, dopo Egospotami, manderanno avanti Patrocleide; e che intanto hanno dato vita in segreto ad una specie di ‘governo clandestino’ (i cinque «efori» di cui parla Lisia78, capeggiati da Crizia rientrato – è l’ipotesi più plausibile – clandestinamente dall’esilio)79. Essi sanno che debbono fare i conti con Teramene (che non possono liquidare come faranno di lì a poco con Cleofonte). Ma certo non lo amano né si fidano di lui.

Teramene lo sa, e anche questa volta tenterà di giocare d’anticipo. Nel momento più critico dell’assedio spartano di Atene e approfittando dell’impasse in cui sono bloccate le trattative per la resa saprà prontamente farsi avanti come ‘salvatore’ della città e acquisire il merito di averle evitato il trattamento feroce (ἀνδραποδίζειν) auspicato dagli ex-alleati divenuti nemici. Ha saputo, e potuto, battere tutti sul tempo, in particolare prevenendo coloro che sa approssimarsi sempre più al potere sulla punta delle armi spartane. Ora anche lui ha meriti agli occhi di Sparta e di Lisandro perché ha piegato la volontà di resistenza disperata di una parte del demo. Il gruppo di Crizia (gli «efori»), di cui Patrocleide cancellando l’atimia appare come la longa manus, sa, per parte sua, che, per un tratto di strada almeno, dovrà convivere con Teramene, e deglutirà il suo ingresso nel collegio dei Trenta80. Ma era sottinteso che alla prima occasione avrebbero cercato di sbarazzarsene: del che Teramene è consapevole e perciò renderà quanto più possibile pubblico il suo dissenso.

Il racconto di un testimone oculare quale Senofonte dimostra che lo scontro tra Teramene e Crizia è incominciato già subito, non appena il governo dei Trenta ha mosso i primi passi. E Teramene ha incominciato sin da subito a contestarne i provvedimenti: dalla limitazione a 3000 unità del corpo civico, all’assalto ai meteci ricchi, e più in generale al ceto benestante ‘compromesso’ col passato regime (democratico).

Solo se si ha chiara questa partita a scacchi giocata in quei mesi dai gruppi politici ateniesi si coglie il senso della ‘politica’ di Aristofane nelle Rane: dall’attacco omicida contro Cleofonte, alla pressante richiesta di un ricambio del personale politico, alla circospetta ostilità verso l’«elegante (κομψός)» Teramene. Il quale non a caso viene ascritto, insieme con Clitofonte81, al novero degli ‘allievi’ di Euripide (v. 697): a significare una presa di distanze satura di diffidenza nei confronti del côté ‘filosofico’ dell’antidemocrazia82.

1 Griechische Geschichte bis zur Schlacht bei Chaeroneia, III.2, Der peloponnesische Krieg, Perthes, Gotha 1904, pp. 1541-1542. Sulla interpretazione e applicazione retroattiva del decreto di Demofanto, sempre utile G. Gilbert, Beiträge zur innern Geschichte Athens im Zeitalter des peloponnesischen Krieges, Teubner, Leipzig 1877, pp. 352-353 (descrive gli addebiti che venivano costruiti per sorreggere l’ondata di processi).

2 È la parafrasi di Andocide (I, 75) del decreto di Patrocleide.

3 Cfr. E. Schwartz, Quellenuntersuchungen zur griechischen Geschichte, «RhM» 44, 1889, p. 121, n. 1: Epigene, Demofanto e Cligene (ma i nomi tràditi sono Demofane e Clistene).

4 Lisia, XXV, 26.

5 Rane, 359-360.

6 Rane, 704-705.

7 Aristoteles und Athen, II, Weidmann, Berlin 1893, p. 361, n. 12.

8 Sui Misteri, 73-75.

9 Cfr. Senofonte, Elleniche, II, 3-4, e Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 38, 2 («soprattutto i cavalieri paventavano il rientro degli uomini di File»). Nonché i 300 mandati presso Tibrone «perché ci lasciassero la pelle» (Elleniche, III, 1, 4).

10 Senofonte, Elleniche, I, 4, 20; Cornelio Nepote, Alcibiade, 7, 1; Plutarco, Alcibiade, 32, 2. Cfr. J. Hatzfeld, Alcibiade, PUF, Paris 1940, p. 297.

11 L’elegia indirizzata da Crizia ad Alcibiade può ben essergli stata indirizzata da lontano, dall’esilio in Tessaglia. Crizia, sospinto da Cleofonte, ha dovuto andarsene anche lui nonostante lo zelo dimostrato nel processo postumo a Frinico, e forse in quella elegia chiedeva ad Alcibiade – in nome dell’aiuto arrecatogli – di agevolare il suo rientro.

12 IG I, 322 = IG I2, 372, col. 1, l. 5.

13 Che si fonda sul solo Palatino greco 88 di Heidelberg (manoscritto di fine XII secolo).

14 Suggerita da Schwartz, Quellenuntersuchungen cit., p. 121.

15 Per un quadro completo della discussione cfr. il pregevole commento di D. Piovan (Lisia, Difesa dall’accusa di attentato alla democrazia, Antenore, Roma-Padova 2009, pp. 87-89).

16 PAA 320605.

17 PAA 575065: IG I2, 304; Andocide, I, 96; Aristofane, Rane, 708-709.

18 Nel cap. 8, «Cleofonte deve morire!».

19 Anabasi, III, 3, 20; IV, 7, 24; Davies, APF, p. 468.

20 Di questa pratica estortiva abbiamo un’accurata (e forse un po’ ironica nell’intento di Socrate) descrizione nei Memorabili di Senofonte (II, 9) a proposito dell’utilizzo – peraltro non gratuito – che Critone dové fare (non sappiamo esattamente quando) del capo popolare Archedemo per liberarsi dell’assedio di sicofanti che intendevano ‘spellarlo’, sapendolo molto ricco. Che l’Archedemo di cui parlano Socrate e Critone nei Memorabili senofontei sia il politico che, con una specifica accusa contro Erasinide, innescò, o contribuì ad innescare, il processo degli strateghi è molto probabile (cfr. in proposito l’osservazione di L.-A. Dorion, in Xénophon, Mémorables, II, 1, Les Belles Lettres, Paris 2011, pp. 254-255). Egli è certamente un ‘capo’ autorevole nel 406 (Senofonte, Elleniche, I, 7, 2, ὁ τοῦ δήμου τότε προεστηκὼς ἐν Ἀθήναις), ed è additato come bersaglio dal coro delle Rane (417-421) in quanto ‘capo popolare’, ‘farabutto’ (ἔστι τὰ πρῶτα τῆς ἐκεῖ μοχθηρίας), attivo da sette anni, e, al solito, sospettato di non essere propriamente ateniese.

21 Cfr. Lisia, XXV, 25: ἀτιμοῦσι («rendono atimoi»).

22 Quelli che non erano ‘fuggiti’ (cfr. Lisia, XIII, 73).

23 Andocide, I, 75: [ὅσοι] στρατιῶται ἐπέμειναν ἐπὶ τῶν τυράννων ἐν τῇ πόλει.

24 Andocide, I, 78.

25 Andocide, I, 76.

26 Andocide, I, 79: ἐξαλεῖψαι μὴ κεκτῆσθαι ἰδίᾳ μηδενὶ ἐξεῖναι.

27 Contrappunto all’analoga minaccia contenuta nel decreto di Demofanto.

28 Senofonte, Elleniche, II, 3, 15.

29 Aristotele, Retorica, I, 1375b, 31-34.

30 I dubbi contro la precisa testimonianza di [Demostene], LVIII, 59 sono ridicoli.

31 Tucidide, VIII, 97, 2; Crizia, fr. 3 Diehl = 5 VS (= Plutarco, Alcibiade, 33, 1); cfr. Cornelio Nepote, Alcibiade, 6, 4: «suffragante Theramene».

32 Cfr. Andocide, I, 78.

33 Rane, 534-541. Cfr. Senofonte, Elleniche, II, 3, 31: «Ecco perché [Teramene] viene soprannominato coturno, la scarpa adatta ad entrambi i piedi» (è Crizia che parla).

34 Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 28, 4.

35 Rane, 967. Anche Clitofonte (‘terameniano’) fu dei Quattrocento: Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 3; 34, 3.

36 Notare quanti epiteti elogiativi dell’intelligenza di Teramene si accumulino nei due luoghi delle Rane in cui si parla di Teramene.

37 Rane, 968-970. La battuta di Dioniso si completa con un cenno al gioco dei dadi: «Non è [Teramene] di Chio [χῖος è il colpo peggiore] ma di Ceo [secondo Plutarco, Nicia, 2, Teramene era originario di Ceo]» e qui ci sarebbe gioco tra Κεῖος e Κῷος, ‘di Cos’, che è il colpo migliore. Ma dallo scolio al v. 970 apprendiamo che Aristarco spiegava il verso come se vi trovasse scritto Κῷος. [Van Leeuwen accoglie senz’altro Κῷος nel testo]». Vedremo il senso di questa battuta.

38 Il resoconto più attendibile è nelle Elleniche, I, 4, 11-20. Non rievocheremo qui l’intera vicenda.

39 Senofonte, Elleniche, I, 3, 2-10 e 11-22.

40 Senofonte, Elleniche, I, 3, 8-9. Secondo Cornelio Nepote (Alcibiade, 5, 7), Alcibiade e i suoi colleghi rientrano in Atene «praeda onusti, locupletato exercitu».

41 Un esempio concreto: per le Panatenee del 410 vengono stanziati ben 6 talenti (IG I2, 304). Questa medesima, preziosa, epigrafe, contenente i rendiconti dei tesorieri di Atena, documenta anche l’esborso del sussidio quotidiano di 2 oboli ad ogni ateniese introdotto appunto nel 410/9 da Cleofonte: cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 28, 3, e Wilamowitz, Aristoteles und Athen cit., II, p. 212, nonché P.J. Rhodes, A Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, University Press, Oxford 1981, pp. 355-357.

42 Senofonte, Elleniche, I, 4, 20 (ἡγεμὼν αὐτοκράτωρ); Plutarco, Alcibiade, 33, 2; Cornelio Nepote, Alcibiade, 7, 1.

43 H. Houssaye, Histoire d’Alcibiade et de la république athénienne, II, Didier, Paris 18742, pp. 336-339.

44 Hatzfeld, Alcibiade cit., pp. 297-298. Sulla portata dei poteri concessi ad Alcibiade va visto, beninteso, anche K.J. Beloch, Attische Politik seit Perikles, Teubner, Leipzig 1884, pp. 285-286.

45 Plutarco, Alcibiade, 34.

46 Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 28, 4.

47 Senofonte, Elleniche, I, 5, 15-16.

48 Diodoro Siculo, XIII, 74, 1 (ταχύ).

49 Imerio, Eclogae, XXXII, 15 (= Fozio, Biblioteca, 377a, 18-19). Nel 415 si era impadronito della casa di Andocide, ma contro Alcibiade si era mosso Androcle (perciò ucciso dalle eterie nel 411).

50 Diodoro Siculo, XIII, 73, 3-4.

51 Φανεῖται (se ritorna). È la lezione del Ravennate. Banalmente il Veneto dà qui πέφυκε. Donde la superflua congettura di Hamaker: πέφανται.

52 1427-1429. È quest’ultimo verso (πόριμον ἑαυτῷ τῇ πόλει ἀμήχανον) che allude alla vicenda (o calunnia che fosse).

53 Tucidide, VIII, 65, 2.

54 Andocide, I, 11.

55 Plutarco, Alcibiade, 20.

56 Andocide, I, 37, etc.

57 Tucidide, VI, 89, 6.

58 Ben lo osservò Adam Ruppel (Konzeption und Ausarbeitung der aristophanischen Komödien, Diss. Darmstadt 1913, pp. 41-46), traendone le necessarie conseguenze sul piano compositivo.

59 Il racconto analitico del processo, che si trova nelle Elleniche senofontee (I, 7), è la riprova, se ce ne fosse bisogno, dell’enormità, sul piano politico, di quella vicenda.

60 Senofonte, Elleniche, I, 6, 37 e 7, 29.

61 Probabilmente, almeno in parte, i donativi di Ciro.

62 Avendo certo in animo di raggiungere poi la roccaforte spartana, Mileto.

63 Elleniche, I, 6, 34.

64 Elleniche, I, 7, 29 (e I, 6, 34-35).

65 Elleniche, I, 6, 38.

66 Elleniche, I, 6, 36.

67 Elleniche, I, 7, 2.

68 Elleniche, I, 7, 4.

69 In questo caso organo giudiziario straordinario.

70 Elleniche, I, 7, 4.

71 Elleniche, I, 7, 5-6.

72 Elleniche, I, 7, 8 (la messinscena da lui organizzata dei parenti in lutto dopo che una prima votazione, annullata, stava per salvare i generali).

73 Elleniche, I, 7, 16-33. Euryptolemos è l’inviato di Alcibiade a Crisopoli per la stipula dell’accordo con Farnabazo (Elleniche, I, 3, 12-13); è, soprattutto, l’«amico e congiunto» la cui presenza al Pireo, al momento del rientro, rassicura Alcibiade e lo convince di poter scendere a terra (Elleniche, I, 4, 19: «solo quando vide il suo congiunto Euryptolemos scende a terra e si avvia verso la città»).

74 Elleniche, I, 7, 34.

75 Cfr. la voce Apaturia di Fritz Graf nel Neue Pauly, I, 1996, col. 825.

76 Senofonte, Elleniche, I, 7, 7-8.

77 Rinviamo ancora una volta a Parte I, cap. 1, Il «popolo ateniese».

78 XII, 43 e 46.

79 Data la situazione di Atene assediata, col probabile aiuto spartano.

80 Episodio su cui è significativo che si siano formate tradizioni opposte (Diodoro Siculo, XIV, 3-4, versus Lisia, XII, 73-76).

81 Terameniano di sicura fede: cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 34, 3. Ma anche intestatario di un dialogo platonico.

82 Si vedano i sensati distinguo espressi da Wattenbach, a proposito del complessivo magma dei kalokagathoi, supra, Parte I, capitolo 1, «Il popolo ateniese».