L’antepirrema è – nel tono e nel contenuto – agli antipodi dell’epirrema e riflette palesemente una situazione politica, in città, profondamente modificata. Mentre l’epirrema si proponeva di suscitare consenso per una richiesta audace (nella situazione del dicembre 406-gennaio 405) e si esprimeva perciò con abile accortezza, quasi senza punte polemiche, l’antepirrema attacca frontalmente: la vostra politica è una pessima politica che consiste nel dare il potere alla canaglia e calpestare i migliori, i kalokagathoi; però è giunta l’ora di cambiare il ceto politico dirigente, bisogna farlo ora, altrimenti sarebbe troppo tardi.
È un pesante ed esplicito ultimatum, espresso nel linguaggio più inequivocabile: quello usuale nelle eterie oligarchiche. La constatazione che si impone, ed è di immediata evidenza, è che – evidentemente – ora si può parlare in quel modo, apertamente e senza autocensure, reticenze, ammorbidimenti ‘ruffianeschi’ (del genere dei complimenti al demo che punteggiano l’epirrema). Ma se ora si può parlare così, e si può fare una richiesta in altre situazioni più che compromettente, vuol dire che sono intervenuti cambiamenti profondi che hanno letteralmente capovolto gli equilibri e i rapporti di forza. Dopo Egospotami: la perdita di ogni possibilità seria di proseguire vittoriosamente la guerra, l’assedio sempre più soffocante della città da mare e da terra, l’uscita allo scoperto dei gruppi oligarchici che hanno realizzato il ‘colpo’ di arrestare Cleofonte avviandolo a morte sicura. In tale situazione, chi come Aristofane ha parteggiato da sempre per «cavalieri» e kalokagathoi e non ha risparmiato neanche uno dei capi popolari succedutisi al potere, ha ben la possibilità concreta di alzare la voce e lanciare – molto seriamente, nella parabasi – un programma politico di sovvertimento radicale alla cui attuazione del resto altri stanno già lavorando.
L’antepirrema è coevo, come composizione, della coppia ode/antode, e perfettamente coerente con la minacciosa violenza verbale che le caratterizza.
Teramene è già partito per il suo soggiorno presso Lisandro, le eterie agiscono allo scoperto, Satiro ha potuto propiziare la nascita e l’entrata in funzione di un tribunale straordinario (allargato alla Boulé) che sta per decapitare la parte ‘democratica’, si attende solo di sapere quali sono le condizioni che Sparta imporrà e che saranno comunque accettate: e tutti sanno che esse comporteranno (piaccia o non piaccia) l’agognato cambio di regime, corollario ovvio del «rientro degli esuli» (che infatti sarà una delle clausole principali imposte da Sparta per accettare la capitolazione)1. È quasi ovvio che, in questa vigilia di un rivolgimento da tutti percepito, Aristofane esiga apertamente e brutalmente – nella certezza di non compiere più (come mesi prima) un azzardo –: «Gente folle, ora è il momento di cambiare, ridate il potere ai χρηστοί [cioè ai kalokagathoi]!» (Rane, 734-735). Neanche nella Lisistrata aveva adoperato toni così espliciti.
Uno degli aspetti più vistosi di questo appello alle ‘forze sane’ affinché prendano il potere è il linguaggio. Qui Aristofane adotta un concentrato delle principali formule del linguaggio e della propaganda oligarchica: quasi un prontuario dell’agitatore antidemocratico. Questo non accade con tale intensità in nessun’altra commedia. Nemmeno nei Cavalieri, l’altro testo di combattimento: di un combattimento che, col senno di poi e alla luce della crisi nel cui fuoco avvenne la revisione-aggiornamento delle Rane, appare quasi un episodio minore.
Kalokagathoi è la parola-chiave dell’antepirrema (vv. 718-737). Ricorre due volte, ed entrambe le volte in posizione significativa. Anzi l’antepirrema si apre nel nome dei kalokagathoi: «Tante volte ci è capitato di osservare che nei confronti dei kalokagathoi la città si comporta come con le monete: con quelle di una volta e con quelle di ora» (vv. 718-720). E dopo aver sviluppato per un po’ il paragone monetale, riprende: «Così con i cittadini: quelli che conosciamo come nobili (εὐγενεῖς) e saggi (σώφρονας) e giusti (δικαίους) e kalokagathoi (καὶ καλούς τε κἀγαθούς), educati nelle palestre, nei cori e nella musica (τραφέντας ἐν παλαίστραις καὶ χοροῖς καὶ μουσικῇ) noi li brutalizziamo (προυσελοῦμεν)2, e invece affidiamo la città (εἰς ἅπαντα χρώμεθα) a gente di bronzo [allusione alla polarità monetale oro/bronzo], stranieri [solita accusa ai capi popolari di essere cittadini abusivi], canaglie (πονηροῖς) e figli di canaglie (καὶ ἐκ πονηρῶν), gente che un tempo la città non avrebbe adoperato nemmeno come capri espiatori (φαρμακοῖσιν)» (vv, 727-733). Dopo di che segue l’appello ai cittadini, gratificati dell’epiteto di «folli» (ἀνόητοι), a cambiare i governanti immediatamente (νῦν).
L’invettiva ha una topica e vibrante struttura oratoria. All’apice della più aspra sua requisitoria contro Filippo, Demostene sbotta allo stesso modo: «Non è un greco, e nemmeno lontanamente parente dei Greci, e neanche barbaro da una terra da cui è bello dirsi oriundi, ma un miserabile macedone, di una terra da cui non avremmo comprato neanche uno schiavo!» (Terza Filippica, 31).
Per nostra fortuna, nel naufragio della pamphlettistica degli anni della guerra peloponnesiaca, s’è salvato l’opuscolo attribuibile a Crizia e tramandato non per caso tra gli scritti di Senofonte: Sul sistema politico ateniese (Ἀθηναίων Πολιτεία), cui s’è fatto sin qui più volte riferimento. È il testo che meglio di ogni altro, e forse al pari solo di alcune sortite euripidee, ci fa conoscere come si parlava (e si scriveva) nelle eterie oligarchiche. È qui che la polarità canaglie/gente per bene (πονηροί/χρηστοί) percorre l’intero scritto da un capo all’altro. Ed è qui che ricorre – nella parte iniziale, dove si delineano i caratteri fondanti e sustanziali della democrazia – la medesima considerazione che ritroviamo in Aristofane quasi alla lettera: «Là [ad Atene: l’autore non è ad Atene, e comunque il dialogo è immaginato fuori di Atene] il demo ha liquidato [s’intende: politicamente, καταλέλυκεν] quelli che si connotano per la dimestichezza con la ginnastica e con la musica»3. E soggiunge: «perché il popolo sa bene di non essere in grado di praticare queste arti». Dopo di che denuncia come brutalmente il demo abbia fatto in modo di godere di quelle pratiche, ma a spese dei ricchi. Il che significa che il demo non riconosce ai «ben nati» (che sono anche «ricchi») alcuna egemonia che pur spetterebbe loro in ragione della elevata formazione di cui sono dotati: al contrario, li obbliga a mettere a disposizione le loro ricchezze perché quelle pratiche divengano (sottinteso: deteriorandosi) pratiche di massa.
L’invettiva di Aristofane chiarisce il senso della frase dell’opuscolo, e viceversa: καταλέλυκεν («ha fatto fuori», politicamente) è l’equivalente esatto di προυσελοῦμεν («li brutalizziamo», ma anche ἐκβάλλομεν, «li cacciamo», e, se del caso, ἀτιμάζομεν, «li bersagliamo con provvedimenti di atimia).
La perfetta corrispondenza dei due testi dovrebbe anche sgomberare il campo dalle interpretazioni dolcificanti di Sul sistema politico ateniese, I, 13, che per lo più vigoreggiano. Colpisce per esempio, nella recentissima traduzione di Marr e Rhodes (2008), il tentativo di trasformare il chiarissimo καταλέλυκεν nel tortuoso: «the dêmos have made it unfashionable for individuals to engage in athletic exercise and musical activities»4. Nel commento i due interpreti (e duole che uno dei due sia Rhodes) spiegano: «The imagined criticism is that at Athens these activities [ginnastica e musica] have gone out of fashion»5.
All’origine di questa imbarazzante (e irrealistica) interpretazione vi è una singolarmente ingenua osservazione di Ernst Kalinka formulata quasi un secolo prima (1913). Kalinka si discostava dalla interpretazione fino ad allora vigente che era – nel buon latino di Dübner –: «Eos qui corporum exercitiis ibi musicaeque artis dediti sunt studio, plebs sustulit»6. Kalinka scrive: «Molti intendono l’espressione quelli che praticano la ginnastica e la musica come riferimento all’élite nobile ateniese (die Adelskreise Athens), che sarebbe stata impedita dal praticare ginnastica e musica dall’invidiosa ostilità del popolo o anche per l’intento del demo di impedire le macchinazioni delle eterie che avevano luogo nei ginnasi»; «ma – obietta Kalinka – sarebbe strano che noi non trovassimo traccia di un tale provvedimento!»7. Alla ricerca di un tale (inverosimile oltre che inesistente)8 provvedimento si sono messi i successivi commenti, che si impuntano sul valore di καταλέλυκεν. Chi abbia invece bene inteso l’uso di quell’abile pamphlettista di presentare in forma estremizzata i fenomeni che descrive (e condanna) comprenderà agevolmente che καταλέλυκεν non significa né che li hanno fatti fuori fisicamente né che gli hanno impedito quelle attività artistico-formative, e tanto meno che abbiano vietato tali pratiche, ma, più semplicemente, che il demo ha tolto a costoro il potere, e però – com’è detto subito dopo – li costringe a finanziare quelle attività, peculiari della paideia aristocratica, a beneficio del demo. Aristofane, nei versi che così perfettamente corrispondono al ‘grido di dolore’ del pamphlettista, dice la stessa cosa e perciò proclama l’urgenza di riportare al potere quella gente.
Un altro esempio, che vanifica le tortuosità affacciatesi ad oscurare un testo limpidissimo, ricorre poco prima nell’opuscolo, là dove l’autore proclama: «Nelle città dove vige la potenza navale è fatale (ἀνάγκη) essere schiavi degli schiavi (τοῖς ἀνδραπόδοις δουλεύειν)»9. E sarebbe ben risibile prendere alla lettera questa frase e mettersi alla ricerca di una norma in tal senso! Ma è chiaro che qui δουλεύειν è modo di esprimersi altrettanto ‘estremo’ quanto καταλέλυκεν in I, 13. Anche questa era una delle formule paradossal-propagandistiche (Schlagworte, Catchwords10) del mondo delle eterie. Aristofane ne è ben partecipe quando, nell’epirrema, a proposito degli schiavi affrancati per aver combattuto alle Arginuse, si lascia scappare un «li abbiamo fatti, da schiavi, padroni!» (v. 694).
E sarebbe forse anche comico vedere qualche bravo studioso – debitamente ignaro di politica11 e perciò affascinato da ipotesi fanciullesche – mettersi alla ricerca di una legge o norma corrispondente ad un’altra affermazione ‘estrema’ del pamphlet: che, cioè, in democrazia, è consentito ai «pazzi» (τοὺς μαινομένους) di legiferare12. Va da sé che «pazzi» è il grazioso epiteto con cui, nel mondo sovreccitato delle eterie, si designavano gli elementi attivi o direttivi del demo13. Ragion per cui, in questo aggressivo antepirrema delle Rane, Aristofane – nell’apostrofe conclusiva con cui chiede il cambio di personale politico – apostrofa il suo ideale interlocutore (il demo che popola l’assemblea) con l’epiteto altrettanto gratificante di «folli», ἀνόητοι (v. 734).
Volutamente ‘estrema’ è anche la formula che conclude lo svolgimento di carattere generale con cui l’opuscolo si apre: «Se ci fosse l’eunomia [cioè il governo dei kalokagathoi, dei χρηστοί] il popolo ripiomberebbe nella schiavitù (τάχιστ᾿ἂν ὁ δημος εἰς δουλείαν καταπέσοι»)14. Chiunque capisce che lo scrivente non intende riferirsi alla perdita dell’autonomia personale dei molti componenti del demo o ad una loro riduzione in schiavitù (in quanto formalizzata dipendenza personale), bensì alla subalternità politica e sociale, alla perdita – da parte del demo – dell’(attuale) controllo della città, al doversi rassegnare a conformarsi alla volontà e alla direttiva di altri. Questa frase è il pendant più evidente e chiarificatore della non meno drastica e semplificatoria formula di I, 13: «Il demo ha liquidato quelli che lì [ad Atene] praticano la ginnastica e la musica» → Se invece ci fosse l’eunomia, sarebbe il demo a diventare «schiavo».
Non meno ‘estrema’ – del resto – è la maniera in cui l’autore esprime la tesi secondo cui è un criminale qualunque politico faccia politica in democrazia pur non essendo di estrazione popolare: anzi, è senz’altro uno che vuol tener nascosti i suoi misfatti (II, 20). Qualcosa del genere, ben si sa, pensava Aristofane: non va dimenticato che Cleone, presentato nei Cavalieri nel modo demonizzante che ben sappiamo, apparteneva alla classe di censo dei cavalieri, coi quali – nota Plutarco – aveva rotto15.
Insomma, per non attardarci ulteriormente sull’ovvio, possiamo rendere quella frase – peraltro limpida – sull’‘abbattimento’ dei kalokagathoi dediti alla ginnastica e alla musica (che Aristofane così efficacemente fa propria) con le parole della traduzione di Pierre Chambry: «Le peuple athénien a retiré le pouvoir à ceux qui s’adonnent à la gymnastique et cultivent la musique»; e annota: «La phrase de notre auteur signifie donc que l’aristocratie, qui seule recevait une éducation libérale complète, a dû céder le pouvoir au peuple»16.
Per comprendere il senso di questa frase bastava in verità il ‘commento’ – ci si passi questa definizione – di Aristofane: «(Qui ad Atene) brutalizziamo (προυσελοῦμεν) coloro che sono stati allevati (τοὺς τραφέντας) nelle palestre e nella musica». E per dissipare ogni dubbio bastava osservare che, per Aristofane, in quella vera e propria dichiarazione programmatica, «allevati nella ginnastica e nella musica» è sinonimo di εὐγενεῖς («nati bene»), di καλούς τε κἀγαθούς (kalokagathoi) e di σώφρονας (detentori della σωφροσύνη: vedremo perché). I tre termini – «nobili» (cioè rampolli di grandi famiglie), σώφρονες e «allevati nella ginnastica e nella musica» – trovano in kalokagathoi la sintesi concettuale conforme alla concezione ‘naturalistica’ delle classi sociali tipica del pensiero aristocratico greco (alla Teognide), onde le classi hanno caratteri ‘innati’. Nel caso degli oligoi: bellezza ed elevatezza morale. Se ben ricordiamo quanto osservato, al principio di questo volume, sulla struttura composita dell’antidemocrazia17 ateniese (vi si ritrovano, in più o meno durevole intesa, Pisandro e Frinico, Antifonte e Crizia, ma anche Teramene, e persino Sofocle e Socrate: ‘sospetto’ è invece Alcibiade, eupatride sì, ma di quella inaffidabile famiglia che «aveva acquisito il demo nella sua eteria»18), allora ancor più si comprendono questi versi programmatici dell’antepirrema.
Aristofane, per nascita non più che cliente di queste grandi famiglie19, guarda ‘dal basso’ con entusiasmo ai ‘signori’, ai ‘grandi’ di quel composito blocco sociale, e li esalta e ne chiede il ritorno alla guida della città, perché convinto che questo poteva essere il loro momento. E in parte lo fu. Non ne consegue però che simpatizzi con i vari Nicomaco, Satiro e simili (come a suo tempo Frinico o Pisandro), che della auspicata svolta radicale, forse già in atto, possono essere al più gli strumenti. Li conosce troppo bene per apprezzarli. Ha fatto sua la Weltanschauung aristocratica che distingue la società con un abisso tra ‘noi’ e ‘loro’.
E nella spietatezza con cui preconizza una brutta fine a Cleofonte o a Cligene, sembra di avvertire – in questo momento terribile, di resa dei conti, in cui ai capi popolari si possono ragionevolmente rinfacciare i moltissimi morti per fame causati dalla loro ostinazione bellicista – un indurimento sul piano umano: tipico di quelle situazioni irripetibili. Dopo, quando ritorna la ‘normalità’, quasi ci si stupisce di essere stati capaci di tanto. A illuminare quella fase violenta, sovviene l’esordio del celebre, lucidissimo discorso di Crizia riferito da Senofonte nel racconto della guerra civile: «Se qualcuno di voi – dice Crizia – ritiene che stia morendo [= stiamo facendo fuori] più gente del necessario, si ricordi che questo accade dovunque viene abbattuto un regime politico e se ne instaura un altro»20. E commenta: «È inevitabile che i nemici dell’oligarchia [cioè passibili di esser liquidati] siano qui molto più numerosi che altrove: perché Atene è di gran lunga la città più popolosa della Grecia e inoltre perché molto più a lungo che altrove qui il demo ha potuto fare il proprio comodo (per l’esattezza: ‘pascersi nella libertà’, ἐν ἐλευθερίᾳ τεθράφθαι)»21. E ancora: «Noi tutti sappiamo quale intollerabile regime (χαλεπὴν πολιτείαν) sia stata la democrazia verso gente della nostra qualità (τοῖς οἵοις ἡμῖν)»22. E più oltre: «Tutti i rivolgimenti costituzionali (μεταβολαὶ πολιτειῶν) sono mortiferi (θανατηφόροι)»23, cioè – detto con ‘franchezza’ – comportano una certa percentuale di morti.
Il risultato di tutto questo è – nella loro visione – l’eunomia (come la definisce lo stesso Crizia nel pamphlet sull’ordinamento ateniese): se ci fosse l’eunomia il demo cesserebbe di essere libero (ἐλεύθερος) ma ricadrebbe in schiavitù e finalmente le leggi le scriverebbero le persone capaci (δεξιώτατοι), che provvederebbero prontamente a punire (κολάζειν) la canaglia (τοὺς πονηρούς: sinonimo di demo)24.
Per questo scrittore-militante i kalokagathoi sono infatti i portatori della γνώμη, cioè dei requisiti per rettamente valutare e decidere. Il demo possiede, semmai, una γνώμη perversa e perciò coerente coi suoi interessi.
Ne consegue che nel linguaggio oligarchico, σωφροσύνη (saggezza) è sinonimo di ordinamento oligarchico, ed è antitesi di δημοκρατία. In una pagina molto allusiva – che rinvia ad una discussione tra oligarchi di cui egli è consapevole – Tucidide25 adopera, facendo suo il lessico dei protagonisti della vicenda che sta narrando, σωφροσύνη per dire oligarchia. Ecco la vicenda. A Taso giunge uno dei congiurati del 411, lo stratego Diitrefe. Il suo compito è quello di favorire l’instaurazione di un regime oligarchico nell’isola. Due mesi dopo la sua partenza, il nuovo regime di Taso – con l’aiuto di oligarchi fuoriusciti che avevano trovato rifugio a Sparta – procede senz’altro a defezionare dall’alleanza ateniese. Tucidide commenta: «non avevano più bisogno dell’aristocrazia a fianco degli Ateniesi, ma puntavano direttamente alla libertà propiziata da Sparta», giacché «le città, una volta conseguita la saggezza [σωφροσύνην λαβοῦσαι: cioè un governo oligarchico] aspiravano senz’altro alla libertà anziché accontentarsi di una eunomia di marca ateniese, e perciò sospetta»26. «This is – nota Andrewes – an extreme instance of the oligarchic colouring of this word»27.
La qualifica di σώφρονες, che Aristofane attribuisce ai kalokagathoi, si comprende alla luce appunto di questo linguaggio e di questa consolidata auto-rappresentazione dei «pochi», degli ὀλίγοι. Il demo, come Aristofane (Rane, 734) e Crizia (Sul sistema politico ateniese, I, 9) lo qualificano, è invece il depositario della «follia».
Constatare la rispondenza tra il linguaggio del pamphlet criziano e l’antepirrema delle Rane comporta anche una considerazione, che rischia di sfuggire se ci si limita ai pur necessari raffronti lessicali e concettuali. Entrambi quei testi attaccano frontalmente il sistema politico vigente: ma l’uno, il pamphlet, lo fa all’interno di una eteria, di una cerchia ristretta omogenea e segreta; l’altro figura – nella massima enfasi – nella parabasi di una commedia, cioè nel cuore di uno strumento destinato per definizione alla massima diffusione di fronte ad un pubblico di norma addirittura più ampio di quello abituale dell’assemblea. È questo il segno più evidente di quanto la situazione politica fosse mutata in favore delle forze decise ormai a farla finita col predominio del demo e dei suoi capi, bollati e delegittimati in blocco, in questi versi, come «stranieri», «ultimi venuti», «mezzi schiavi» di chi sa quale origine (vv. 730-732).
È in questo clima radicalmente mutato che Aristofane rielabora le Rane.
1 Non va trascurato che Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 34, 3 e Diodoro (Eforo), XIV, 3, 2 inseriscono il cambio di regime addirittura tra le clausole della capitolazione. Dicono una ‘verità’ sostanziale.
2 Esichio spiega προυσελεῖν con προπηλακίζειν: «oltraggiare», «coprire di fango». Suidas, π 2635: «scacciamo». Lo scolio a questo verso delle Rane parafrasa ἀτιμάζομεν, che è forse la spiegazione più calzante.
3 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 13.
4 The ‘Old Oligarch’. The Constitution of the Athenians Attributed to Xenophon, Aris and Phillips, Oxford 2008, p. 41.
5 Ivi, p. 80.
6 Xenophontis opera, Didot, Paris 1838, p. 694. Così già Sébastien Castalion, Xenophontis oratoris et historici opera, Basel 1540, 1555, p. 673.
7 Die pseudoxenophontische Athenaion Politeia, Teubner, Berlin-Leipzig 1913, p. 137.
8 Ma immaginato da Franz Bücheler in un articolo per il «RhM» 40, 1885, p. 312, secondo cui al divieto della professione di maestro di ginnastica e di musica si sarebbe giunti in Atene per colpire Damone, maestro di musica di Pericle, e considerato (ancora da Plutarco) suo ispiratore politico. Dopo di che un buon numero di anglo-americani si sono dati da fare a spiegare che ad Atene, invece, c’era «libertà d’insegnamento». Quando un falso problema diventa una montagna.
9 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 11.
10 Titolo di un memorabile capitolo (l’XI) di The Roman Revolution di Ronald Syme.
11 Nonché dell’ammonimento di Beloch: «Chi in campagna elettorale sta otto sere alla tribuna impara più che in otto anni a tavolino» (Einleitung in die Altertumswissenschaft, hrsg. von A. Gercke und E. Norden, III, Teubner, Leipzig-Berlin 19142, p. 156).
12 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 9.
13 Per (la fonte di) Aristotele, Costituzione degli Ateniesi sia Cleone che Cleofonte assumevano, in assemblea, comportamenti antitetici ad ogni forma di equilibrio (28, 3; 34, 1). Anzi, per Aristotele, Cleone fu, sotto questo riguardo, «il primo» di una serie.
14 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 9.
15 Plutarco, Precetti politici, 806F-807A.
16 Xénophon, Anabase, Banquet [...] République des Athéniens, traduction, notes et notices par Pierre Chambry, Garnier, Paris 1933, pp. 512 e 543, nota 269. L’educazione ‘all’antica’ era una fisima di Aristofane: dai Banchettanti alle Nuvole (vv. 960 e ss.). Tutto sommato interessante anche la traduzione-parafrasi di Hans Bogner, inclusa nel suo volume anti-weimariano del 1930 Die verwirklichte Demokratie: «Die Zunft [la consorteria, ma potrebbe anche intendersi ‘l’eteria’] di coloro che praticano ginnastica e musica (der Turner und Berufmusiker) lì il popolino (das gemeine Volk) l’ha sciolta (aufgelöst)» (p. 99). Curiosamente debole dal punto di vista del rispetto della sintassi la traduzione di G.W. Bowersock (1968) per il VII volume del Senofonte della «Loeb Classical Library»: «The people have spoiled the athletic and musical activities at Athens» (p. 481). Come non vedere un caso concreto di «abbattimento» della «gente per bene» nella retata di χρηστοί (presunti) ermocopidi? Tucidide lo dice con parole analoghe: «prestando fiducia alle delazioni di canaglie (πονηρῶν) gettarono in galera molta gente del tutto per bene (πάνυ χρηστούς)» (VI, 53, 2; 60, 2).
17 Ricordiamo la efficace pagina di Wattenbach, in proposito (De Quadringentorum Athenis factione, Diss. Berlin 1842, p. 27).
18 Erodoto, V, 66.
19 Forse figlio di cleruco.
20 Senofonte, Elleniche, II, 3, 24.
21 È lo stesso pensiero di Tucidide, VIII, 68 (sub fine).
22 Senofonte, Elleniche, II, 3, 25.
23 Senofonte, Elleniche, II, 3, 32.
24 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 9.
25 VIII, 64, 2-5: in particolare il § 5.
26 Tucidide, VIII, 64, 5.
27 HCT, V, 1981, p. 159. Cfr. Tucidide, III, 82, 8 (sull’uso specioso di ἀριστοκρατία σώφρων da parte oligarchica) nonché Platone, Gorgia, 519a. Più in generale va visto il saggio di Helen North, Sophrosyne. Self-Knowledge and Self-Restraint in Greek Literature, Cornell University Press, Ithaca 1966, pp. 100-115.