È poco credibile che tutta quella costosa macchina teatrale servisse solo per far ridere e che i gruppi così esposti finanziariamente per farla funzionare non ne cavassero – all’occorrenza – vantaggi ‘politici’. L’uomo più ricco di Atene, Nicia, «cercava di ottenere la fiducia popolare facendo il corego»1 riferisce Plutarco: non vi potrebbe essere diagnosi più chiara della consapevolezza dell’importanza politica del teatro nell’élite dirigente. Il modo in cui, nella parabasi delle Nuvole (423)2, Aristofane ‘rimprovera’ il pubblico perché, nonostante i Cavalieri (424), hanno ugualmente eletto Cleone stratego sta a dimostrare quanto fosse ben desta, in lui, la volontà di intervenire nella politica quotidiana attraverso lo strumento della scena comica, nonché la fiducia sua nella forza di tale ‘arma’. Il teatro è insieme divertimento, educazione, rinsaldamento nei valori, veicolo di coesione sociale, investimento pubblico, occasione per i ricchi di dimostrare la propria dedizione alla città. Perciò, pagare per farlo funzionare significa «conquistare la fiducia del popolo». La commedia però offre una ulteriore risorsa: (far) dire, in un contesto ‘carnevalesco’, ‘verità’ fortemente corrosive rispetto all’esplicarsi normale (assembleare soprattutto) del conflitto politico. Il cosiddetto pseudo-Senofonte (cioè Crizia) insiste molto – in un opuscolo pur così breve – sull’uso politico del teatro comico: è una testimonianza ovviamente di parte, ma preziosa in quanto rivela una prassi che altrimenti non sarebbe per noi documentata.
Per Aristofane ed Eupoli, che entrano in scena quando Pericle non c’è più ma la sua eredità politica (la guerra) pesa ancora molto, l’avversario non è più il «tiranno» eupatride super partes bensì i capi popolari che dividono la città.
Aristofane è capace di farsi coinvolgere nella lotta dei gruppi ostili a Cleone: è questa la sua battaglia principale nei convulsi cinque anni finali della guerra decennale. Ostenta piena sintonia con le correnti tradizionaliste, presenti in alto e in basso nella realtà ateniese, e perciò ‘maramaldeggia’ contro Socrate ed Euripide accomunati fino all’ultimo nel suo sarcasmo3. È sensibile alla riscossa eversiva e anti-Cleofonte dell’ultimo anno di guerra. Ma è anche talmente convinto del proprio valore come artista da parlare, in una pagina di rilevante critica artistica – cioè nella parte rifatta della parabasi delle Nuvole4 – in termini financo umani e distaccati di Cleone ormai vinto e probabilmente già caduto5.
Il rilievo del ‘caso’ Aristofane è tutto lì. Come altri, è entrato anche lui nella dinamica dell’anti-democrazia e del teatro comico come non saltuario veicolo di essa, ma è stato anche molto di più ed ha serbato consapevolezza del proprio valore: spingendosi persino a deridere la comicità di routine dal successo facile (cui pure ha fatto largamente ricorso) e creando invenzioni nuovissime, inaudite, geniali (lo scarabeo di Trigeo, la città degli uccelli e delle nuvole, il morto che contratta il traghettamento nella palude stigia etc.). Per cui può ben esaltare la sua commedia sconfitta in malo modo come «la commedia più profonda che ho mai scritto» (le Nuvole appunto); e ancora: «sono un poeta di tale levatura che non rimetto in scena le stesse cose ma sto a lambiccarmi il cervello per proporre idee nuove, tutte valide e mai uguali a se stesse»6. La conferma di questa diagnosi – statura intellettuale di Aristofane al di sopra del livello intellettuale anche dei ‘grandi’ come Cratino – viene, ben si sa, da Cratino stesso: da quello sprezzante εὐριπιδαριστοφανίζειν (che spesso viene citato, ma senza che se ne colgano la portata e le implicazioni) che Cratino scagliava contro Aristofane. La spiegazione più ovvia di quel neologismo la dà lo scolio di Areta cui dobbiamo il frammento: «Aristofane veniva deriso dai comici perché dileggiava Euripide, però lo imitava»7.
Ma cogliere la grande levatura e la complessità della sua arte non deve comportare la rimozione dell’altra faccia del ‘caso’ Aristofane. La sua bravura fu anche, e non meno, bravura politica. Le fughe in avanti, o in aria, dei critici che chiudono gli occhi su quest’altro aspetto non giovano. Giova, alle prese con Aristofane, saper distinguere elementi, peraltro non di rado convergenti, quali: la frequentazione di determinati ambienti (e dal Simposio platonico sappiamo quali, così come dalle parole di rimpianto per Agatone all’inizio delle Rane), idem sentire con certi gruppi sociali, suggestione e coinvolgimento esplicito, abilità nel presentare in modo plebeo prese di posizione di attacco alla leadership democratica, coscienza del proprio valore e aspirazione all’indipendenza. Nella piena consapevolezza del proprio ruolo sociale.
Né intellettuale «organico», dunque, né mero professionista della risata.