2.
Popolo e demo

«Per quelli, tra voi, che dalla politica
si tengono lontani egli si è battuto»

Vespe, 1038-1040

La ‘chiave’ sta dunque nei due diversi significati della bella parola demo (δῆμος): la base sociale della democrazia radicale si autodefinisce demo; la parola diventa sinonimo di sistema democratico. E questo va bene ad entrambi gli schieramenti in lotta: anche ai nemici o avversari o critici del sistema democratico per i quali ‘abbattere il demo’ (λύειν τὸν δῆμον) significa sia liberarsi del sistema che liquidare il predominio politico-sociale della base che lo sorregge. Atenagora di Siracusa, capo popolare reso emblematico dal modo in cui Tucidide lo fa parlare, dice la ben nota frase: «Il demo è tutto»1. Egli si esprime in modo inequivoco: «La parola demo denota la totalità, mentre oligarchia indica solo una parte [una fazione]». È dal seguito delle sue parole che si comprende che per lui demo significa οἱ πολλοί, dunque non tutti. Egli è cioè sulla stessa linea dell’Otanes erodoteo, che conclude la sua argomentazione a favore della democrazia con l’aforisma «nel molto / nei molti / nella maggioranza c’è l’intero / la totalità»2. Con ciò rende esplicita la forzatura su cui si regge il ‘sistema’ (o regime) ‘democratico’ di tipo ateniese (ma esportato, o riprodotto, dovunque il demo aveva il potere). Nei prescritti delle deliberazioni assembleari, varati per lo più da una minoranza numerica che parla e delibera a nome dell’intera comunità, quella forzatura assume fattezze anche formali e cogenti.

In quella formula di Atenagora vi è tutto il ‘giacobinismo’ della ‘democrazia’ di tipo ateniese, cioè radicale-classista-interventista (ciò che Benjamin Constant cercò di esprimere con la formula del «pouvoir social», ma indebolì la sua scoperta opponendo al pouvoir social non il resto del popolo ma l’individuo)3.

È proprio nei momenti di crisi che ‘gli altri’ si manifestano e vogliono, per una volta, contare. Come accade dopo il primo anno di guerra (431/430) che segna anche il tracollo verticale della popolarità di Pericle (il quale l’assenso alla guerra l’aveva ottenuto dal demo, non dal popolo). Fanno sentire la loro voce i contadini rovinati dalla scelta tattica di non reagire alla devastazione spartana delle campagne4: perché la guerra ha distrutto quel poco che hanno, mentre anche i ricchi provano fastidio della guerra ma hanno comunque altre risorse e altre possibilità di ripresa.

Questo è ‘il popolo di Aristofane’. È stato varie volte osservato (Wilamowitz, Jaeger tra gli altri) che la ‘campagna’ è per Aristofane il ‘luogo dell’anima’, il contesto in cui si sente a proprio agio. Ed è vero, ma lo è, non meno, in quest’altro senso: nel suo farsi portavoce della protesta della massa extra-politica e a-politica delle campagne, che però è portata dal disagio intollerabile della guerra a voler ‘parlare’, a voler contare in contrasto con la massa urbana e ‘democratica’ del demo. Diceopoli non a caso è il personaggio in cui egli si identifica: ma attraverso una operazione mentale, intellettuale, che lo porta ad immedesimarsi, politicamente e umanamente, pur restando il raffinato conoscitore di letteratura poetica e drammaturgica che traspare ad ogni passo della sua opera. Ed è anche questo un tratto tipico dell’intellettuale ‘di opposizione’ che, per farsi ascoltare, per avere efficacia, ‘si fa popolare’, si mette a quel livello, indossa quei panni: dei ‘suoi’ contadini, da lui idealizzati anche nei loro difetti e nella loro grettezza. Ridere di loro con loro. E, nel far questo, bersagliare quegli altri, quella egemonica minoranza popolare (il demo) che, in rapporto di circolarità e reciproco appoggio coi ‘capi’ porta la città alla rovina.

Sulla presenza privilegiata (‘vezzeggiata’) dei contadini nella commedia tutta, non solo in quella di Aristofane, va visto il terzo capitolo (Gli agricoltori) del sempre prezioso libro di Victor Ehrenberg, The People of Aristophanes (19512)5. Ehrenberg apre il capitolo osservando: «In numerosissimi casi noi vediamo i poeti comici che descrivono dei contadini, e degli agricoltori, li elogiano o mettono leggermente in ridicolo la loro vita, il loro lavoro e ne proclamano l’importanza per il popolo e per lo Stato». Aristofane non ha dubbi: «Solo i contadini lavorano!» (Pace, 511). Aristofane esalta i contadini perché ce li ha davanti, nel pubblico. Essi sono il suo pubblico (a parte i ‘signori’ cui non lesina elogi in quanto καλοκἀγαθοί). Nella politica sono gli assenti, ma a teatro ci sono. E a causa della guerra ormai spesso sono in città e Aristofane li incita ad agire, a farsi valere, a non subire il ‘sistema’ (capi-fannulloni-sicofanti-eliasti).

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Sia qui consentita una ‘divagazione’ diacronica. Esperimenti di potere democratico fondati su di una minoranza numerica, che però sosteneva di esprimere gli interessi «di tutto il popolo», hanno preso corpo a partire dalla dittatura giacobina (1793/4). Il «popolo» del «grande» Comitato di salute pubblica erano gli attivisti e frequentatori delle ‘sezioni’ parigine, struttura di auto-organizzazione della sanculotterie impostasi dopo l’arresto del re (10 agosto 1792): ma le loro istanze di perequazione sociale trovavano eco in strati popolari più vasti, soprattutto a Parigi. Nel lessico socialista s’è imposta ed è poi a lungo rimasta la formula «Arbeiterklasse» (classe lavoratrice) per indicare il referente e soggetto dell’organizzazione (singoli partiti e Internazionale) con le varianti «classe ouvrière», «classe operaia», cui corrispondeva una lontananza di fatto dei e dai contadini. Quando gruppi, consistenti, di operai socialisti danno vita, a Parigi, nel giugno 1848 ad un tentativo rivoluzionario contro gli equilibri politici scaturiti dalla rivoluzione del febbraio ’48 e dalla composizione a prevalenza moderata dell’Assemblée Nationale, Victor Hugo (allora deputato) ne parlerà come di una insurrezione «contro il suffragio universale»6. La «conquista della maggioranza» è stato il problema principale ed il cruccio, per tutta la sua storia, del movimento socialista nelle sue varie articolazioni. Quella ‘bolscevica’ risolse il problema accantonandolo e puntando sul concetto neo-giacobino di minoranza ‘cosciente’, ‘avanguardia’ organizzata (in alcune fasi: dittatura degli operai sui contadini etc.); fino all’ultima Costituzione (1976) che tentava di lanciare la formula «Stato di tutto il popolo». Ma a lungo la contrapposizione del ‘popolo’ alla ‘classe’ (ora ‘operaia’ ora ‘lavoratrice’) fu considerata una risposta conservatrice: la «Roma del popolo» era il giornale di Mazzini e «Il Popolo d’Italia» fu il giornale (all’inizio definitosi socialista) di Mussolini, dopo la rottura col socialismo italiano. Nella vicenda tedesca otto-novecentesca, l’antitesi Klasse/Volk ripropose analoga polarità: a fronte, per lo più, della difficoltà della ‘classe’ ad essere anche maggioranza. Questa storia molto sommaria illumina il nostro problema: la polarità, in una società ‘arcaica’ – nell’Atene ‘democratica’ – tra popolo e demo7.

1 Tucidide, VI, 39, 1.

2 Erodoto, III, 80: ἐν γὰρ τῷ πολλῷ ἔνι τὰ πάντα.

3 La libertà degli antichi raffrontata con quella dei moderni, 1819.

4 Tucidide, II, 64.

5 Trad. it. L’Atene di Aristofane, La Nuova Italia, Firenze 1957, pp. 103-133. Marinai non figura nemmeno come voce dell’indice (e navi solo per una metafora)! Aristofane scrisse anche una commedia Contadini (Dionisie 424) e Navi mercantili (Lenee 423).

6 Les misérables, 1862, parte IV, libro I, cap. 1 (trad. it. di Mario Picchi, Einaudi, Torino 1983, III, p. 1092).

7 In Francia, il classico libro sul «popolo» come «nazione» fu Le peuple di Jules Michelet (1846 con dedica a Edgar Quinet), il maggiore storico ottocentesco, non demonizzante, della Rivoluzione francese.