3.
Gli anni della lotta

1.

Qual era il «focus» dei Babilonesi? La commedia ben piazzatasi alle Dionisie del 426, suscitò un pericoloso strascico giudiziario. La Vita di Aristofane1 e lo scolio al verso degli Acarnesi con cui lo stesso Aristofane allude a quella commedia (v. 378) parlano di «offese alle magistrature, sia quelle sorteggiate sia quelle elettive», ma precisano che l’appiglio per la denunzia contro l’autore fu che la commedia era stata rappresentata «davanti agli stranieri» (alle Dionisie, quando molti non Ateniesi assistevano agli spettacoli). Questo specifico addebito («in presenza degli stranieri»!) fa capire che la presa di posizione che la commedia esprimeva era giudicata particolarmente inopportuna appunto «in presenza degli stranieri» che per la gran parte provenivano dalle città alleate. Dunque era chiamato in causa il rapporto con gli alleati. E il chiarimento fondamentale lo dà Aristofane stesso quando, nella parabasi degli Acarnesi, riepiloga il contenuto della «commedia dell’anno passato» (vv. 641-645). Lì Aristofane rivendica il merito di «aver fatto del bene» agli Ateniesi denunciando il loro comportamento fatuamente sensibile alla adulazione e di aver smascherato la vera natura del controllo ateniese sulle città alleate2. E soggiunge che perciò le delegazioni alleate, che portano annualmente il tributo ad Atene, quando verranno, saranno «desiderose di vedere il poeta, bravissimo, che ha avuto il coraggio di dire le cose giuste davanti agli Ateniesi».

Queste parole costituiscono la testimonianza fondamentale sul contenuto dei Babilonesi3. Vi si affianca quella, preziosa e alquanto tormentata dagli interpreti, di Esichio4, secondo cui, «nella commedia di Aristofane Babilonesi, un tale, vedendo i Babilonesi alla macina del mulino [evidentemente, schiavi orientali, schiavi del Gran Re], esclamava Com’è ‘letterato’5 [πολυγράμματος] il popolo dei Samii». L’ipotesi più ragionevole è che, dunque, i Samii, forse insieme ad altri alleati di Atene, venissero rappresentati, nei Babilonesi, come schiavi costretti alla macina di un mulino: gli alleati di Atene venivano cioè presentati nella loro sostanziale condizione di dipendenza dalla città ‘tiranna’. In particolare, Samo, poco più di una dozzina di anni prima (440 a.C.), ribellatasi ad Atene, era stata piegata dopo una vera e propria guerra durata anni e capeggiata da Pericle in persona; e la repressione era stata durissima, i prigionieri erano stati marchiati a fuoco con l’immagine di una σάμαινα, nave da carico samia6. (I Samii avevano marchiato i prigionieri ateniesi con una civetta.) E pochi mesi prima della messinscena dei Babilonesi si era drammaticamente conclusa la defezione di Mitilene: e comunque era stata evitata in extremis la punizione esemplare pretesa da Cleone nel corso di un dibattito all’assemblea ateniese, di cui Tucidide ha dato un memorabile resoconto7. Lo stesso Cleone progettava in quei mesi e realizzava nello stesso anno la ben nota e vessatoria risistemazione del tributo imposto agli alleati, di molto accresciuto sia per le esigenze della guerra sia (eventualmente) per punire i ‘ribelli’. Ed un testimone d’eccezione come Tucidide, quando tratteggia – in una delle parti più recenti del libro I – la parabola dell’impero ateniese (e di certo scrive quella pagina quando l’impero è ormai finito), non esita ad usare il verbo «schiavizzare» per indicare il rapporto instauratosi tra Atene e gli alleati man mano che questi manifestavano inquietudine o tentavano la ribellione8.

Non è dunque molto importante inseguire le perplessità dei moderni intorno all’esatta configurazione della scena degli schiavi alla macina9 (che essendo «Babilonesi» costituivano di certo il coro), quanto piuttosto cercar di capire cosa esattamente Aristofane intenda quando parla degli alleati che δημοκρατοῦνται e su quale consenso potesse contare mentre scaraventava davanti ad una grande platea (che lo premiò) un tema così incandescente.

«Che tipo di democrazia venga loro imposta»: questo significherà ὡς δημοκρατοῦνται (v. 642). E per comprendere il peso, e il sarcasmo, della battuta, bisogna aver sempre in mente che anche le città alleate (non solo Atene) sono città divise, lacerate, e nelle quali il controllo imperiale di Atene avviene attraverso i gruppi politici ‘democratici’ e filoateniesi, bisognosi – per mantenersi al potere – dell’aiuto ateniese: allo stesso modo che Atene ha bisogno di loro per mantenere il controllo delle città alleate. Quando al loro interno i «ricchi», gli «oligarchi», i «buoni» (χρηστοί) filospartani prendono il potere – di solito con un colpo di mano sanguinoso – la situazione viene riportata all’‘ordine ateniese’ con la forza: il caso di Samo nel 441-439, ricordato prima, è emblematico.

Questo stato di cose è raffigurato con icastica lucidità nell’opuscolo criziano Sul sistema politico ateniese10. L’autore formula, in un testo che avrà circolato nel mondo chiuso delle «eterie», la stessa denuncia che il ventenne Aristofane affida alla commedia Babilonesi portata dinanzi al grandissimo pubblico delle Dionisie. Sul trattamento degli alleati, l’opuscolo è categorico: la democrazia al potere in Atene perseguita, anche giudiziariamente, i ceti ricchi (χρηστοί) delle città alleate e invece protegge «le canaglie» (cioè il demo) garantendogli il potere nelle città alleate (τοὺς πονηροὺς αὔξουσιν). È questo che significa l’espressione adottata da Aristofane: ὡς δημοκρατοῦνται ἐν ταῖς πόλεσιν. L’autore dell’opuscolo sa bene (come lo sa Aristofane) che, nelle città alleate, una parte, anche se minoritaria, sta con Atene. Ma per lui l’oppressione dei χρηστοί è tout court oppressione, il resto è combutta tra canaglie. Entrambi sanno – lo scrittore politico e il giovane commediografo – di toccare una materia che divide, così come divise irrimediabilmente sono le comunità che Atene controlla dando man forte al demo politicizzato nelle varie città alleate11. Un demo in difficoltà crescente ora che, con la guerra, è proprio il potere democratico ateniese che ‘spreme’ tributi anche dai «paesi fratelli»: per la guerra (e per il demo ateniese). In questa contraddizione s’incunea perfettamente e in modo devastante la commedia Babilonesi. Perciò, rievocandone il succo nella parabasi degli Acarnesi, Aristofane dice: «vi ho fatto vedere come il demo nelle città alleate δημοκρατεῖται». E infatti parla subito di quelli che, dalle città, verranno ad Atene a portare il tributo e ringrazieranno lui, «il poeta che ha detto le cose giuste agli Ateniesi».

Una considerazione si impone in merito alla sostanza della questione. Che l’impero fosse la posta in gioco della lunga guerra con Sparta era chiaro a tutti i soggetti coinvolti. L’ultimatum spartano, recato ad Atene da Melesippo, era semplice e brutale: dissolvete l’impero, «lasciate autonomi i Greci»12. La guerra comporta disagi a tutte le classi sociali13. Quando Pericle cerca di frenare lo scontento, pronuncia la celebre frase che Tucidide incastona in un discorso memorabile: non si può più «uscire» (ἐκστῆναι) «dall’impero», come forse «qualcuno, preso dalla paura e dalla vigliaccheria (δεδιὼς ἀπραγμοσύνῃ), vorrebbe; l’impero è tirannide; è pericoloso mollarlo anche se è ingiusto conquistarlo»14. Già da queste parole è chiaro che ci sono forze consistenti, e capaci di coinvolgere ceti popolari, che mettono sotto accusa l’impero la cui ostinata difesa ha portato alla guerra con Sparta: e infatti queste forze tentavano clandestini contatti con Sparta per la pace alle spalle di Pericle15. (Del resto, la pace ‘personale’ che Diceopoli stipulerà negli Acarnesi cos’altro è se non una scherzosa rappresentazione positiva di tali tentativi di forzare la mano in favore della pace comunque?)

Con le defezioni, la falcidia umana dovuta al contagio16, il protrarsi del conflitto e la conseguente sistematica devastazione delle campagne ad opera del nemico, lo scontento contro la prosecuzione a tutti i costi della guerra jusqu’au bout (come diceva Clemenceau) si è approfondito e allargato. Ciò che restava in piedi e imponeva la prosecuzione della guerra era la solidarietà tra demo politicizzato di Atene e demo al potere (minoritario e puntellato dal centro) nelle città alleate. Che dunque al principio del 426 andasse in scena e ottenesse successo una commedia (Babilonesi) che colpiva al cuore la politica imperial-democratica, di cui la guerra senza alternative era il corollario, non deve stupire. O, meglio, stupirà chi, non avendo presenti le pagine tucididee sulla crescente impopolarità della guerra e sulla insofferenza diffusa soprattutto nella massa agricola verso i sacrifici imposti dalla volontà di salvaguardare comunque l’impero, non si capacita del successo dei Babilonesi e cerca perciò di stravolgerne il senso: a tal fine revocando in dubbio o depotenziando le testimonianze di cui disponiamo17.

2.

Se si coglie questo aspetto dell’operazione Babilonesi in tutta la sua gravità, si apprezza anche la prima parte della rievocazione della «commedia dell’anno passato» presente negli anapesti della parabasi.

Il ragionamento che lì Aristofane svolge è al tempo stesso abile e stringente. Giova seguirne il filo: a) mi hanno accusato davanti agli Ateniesi di infamare il demo; b) perciò mi devo difendere davanti a voi, così inclini a mutar parere; c) per prima cosa dirò che vi ho fatto del bene quando vi ho aperto gli occhi rispetto ai discorsi adulatorii dei delegati delle città alleate18; d) segue un po’ di ironia sulle parole adulatrici che questi delegati rivolgono agli Ateniesi quando si presentano all’assemblea19; e) e vi ho fatto del bene rivelandovi la vera natura del dominio ‘democratico’ sulle città alleate; f) perciò, quando i delegati delle città verranno ad Atene per la ben nota incombenza di portare qui il tributo (οἱ ἐκ τῶν πόλεων τὸν φόρον ὑμῖν ἀπάγοντες) vorranno conoscere l’ottimo poeta che ha voluto correre il rischio (παρεκινδύνευσε) di dire le cose giuste davanti agli Ateniesi.

È dunque chiaro che i delegati ‘adulatori’ sono i rappresentanti delle democrazie alleate, i quali – per complicità politica e per servilismo, fusi insieme – si esprimono in modo da occultare, davanti agli Ateniesi, la vera natura del meccanismo con cui il ‘potere democratico’ ateniese schiavizza le città alleate puntellando il ‘potere democratico’ in casa loro (v. 642).

Dopo di che parte con le facezie: il re di Persia ha saputo della bravura di Aristofane e ha capito che la città che possiede Aristofane come consigliere vincerà la guerra; perciò non mollate Egina agli Spartani, i quali vogliono quell’isola per portarsi via la mia persona etc. Trovata abile anche questa perché lascia intendere – senza eccessi verbali – che anche «il poeta» vuole che Atene vinca la guerra. Ma tutta la commedia punta invece alla pace subito, che Diceopoli (alter ego di Aristofane) stipula addirittura ‘in proprio’.

Questo era il focus dei Babilonesi. L’attacco alle «magistrature» era un ovvio corollario20: basti pensare agli ellenotami, che amministravano il tesoro, cioè anche i tributi. Commedia di notevole peso, i Babilonesi, vero ‘caso’ politico nell’anno in cui Cleone subiva uno scacco nella mancata repressione esemplare di Mitilene e preparava l’aumento del tributo. Un caso politico che per Cleone si è risolto male. Donde, l’euforia che Aristofane manifesta negli Acarnesi da un capo all’altro della commedia: a cominciare dai «cinque talenti» che Cleone ha dovuto «vomitare» (vv. 5-6), fino all’‘inno’, reiterato nella rhesis di Diceopoli e poi nella parabasi, al successo conseguito contro il potente «capo».

E proprio nel grido di vittoria con cui la commedia si apre (i «cinque talenti vomitati» da Cleone) vi è l’esplicito riferimento all’influente gruppo sociale che ha sostenuto Aristofane in quella battaglia apparentemente impari: i cavalieri: «Come ho goduto! E amo i cavalieri, che hanno fatto questo» (vv. 7-8). Ringrazia, in apertura, i suoi protettori («amo i cavalieri»): cioè il ceto cui anche Cleone appartiene e da cui si è distaccato rompendo anche formalmente i rapporti con loro21. E la conferma di questo legame decisivo è nell’ulteriore sviluppo della lotta, proseguita – dopo i Babilonesi – con gli Acarnesi ed esplosa con i Cavalieri (424): commedia nella quale il nesso di Aristofane con quel gruppo sociale-politico-militare diviene ‘ufficiale’ e Cleone è il solo bersaglio.

Un vero e proprio patto suggellato dal proclama dei cavalieri-coreuti: «Non avremmo accettato di sfilare come coro (παραβῆναι) per nessun altro fuorché per questo poeta, giacché abbiamo gli stessi odii» (Cavalieri, 506-510). Proclamazione tanto più significativa in quanto a pronunciarla sono i cavalieri stessi, ma chi mette loro in bocca quelle parole è un loro ‘satellite’22. Per molti versi questa commedia è un unicum, nella carriera di Aristofane, tra l’altro perché prende nome non da un bersaglio ma dall’alleato-committente.

3.

Il ventenne «gamin de génie»23 che dalla scena investe il delicato equilibrio ‘imperiale’ del regime vigente può aver osato questo – alle Dionisie! – perché aveva alle spalle potenti protettori (patrons)24. Essi ne hanno propiziato il successo25, ma soprattutto gli hanno reso possibile di superare indenne gli attacchi di Cleone, in particolare la denuncia presentata davanti alla Boulé fondata sull’insidioso addebito: «offende il popolo ateniese [la città] davanti agli stranieri».

Si può comprendere la vicenda Babilonesi (reazione di Cleone, scontro intorno all’autore e alle sue responsabilità, sconfitta di Cleo­ne in questo attacco al giovanissimo commediografo) se si entra nell’ordine di idee che solo un appoggio politico di notevole peso poté portare la vicenda a tale conclusione. E consentire ad Aristofane di aprire, l’anno successivo, alle Lenee, gli Acarnesi con un grido di vittoria ed un pubblico solenne ringraziamento ai cavalieri. Altrimenti ci si perde nella retorica dello scontro impari (Davide/Golia etc.). Ricorrere all’appoggio della influente lobby dei cavalieri aveva un senso perché era noto che Cleone aveva rotto politicamente con loro. E fenomeni di questo genere, non frequenti e tanto più clamorosi, facevano scandalo e venivano stigmatizzati negli ambienti, sempre vigili e sempre influenti, di chi considerava il ‘potere popolare’, consolidatosi in modo anomalo sotto Pericle e soprattutto dopo la sua morte, una devianza provvisoria, una ‘parentesi’ che prima o poi andava chiusa. Il problema che non è agevole risolvere è per quali tramiti il giovanissimo Aristofane è entrato in contatto con il gruppo sociale (i cavalieri) portatore delle maggiori «riserve» contro la democrazia. Wilamowitz da vecchio suggerì che ciò avvenisse per il tramite di Eupoli26. Non è escluso ma non è documentabile. Certo la collaborazione di Eupoli proprio alla commedia più ‘schierata’ (Cavalieri) potrebbe essere un indizio.

L’operazione Babilonesi ha anche l’aspetto di un ‘agguato’. Siamo all’inizio del 426, la guerra – che appare ormai destinata a durare – ha cominciato a produrre defezioni gravi (Mitilene), gli alleati sono vessati dalla pratica sempre più pesante del tributo, il loro malcontento filtra (nonostante siano sotto controllo): alle Dionisie – solennità massima del teatro e della città – sono presenti in numero consistente ‘stranieri’ e soprattutto alleati, ed è dinanzi a tale pubblico che Aristofane lancia un atto d’accusa fortissimo contro il vessatorio meccanismo imperiale (gli alleati presentati come sudditi, e, per metafora molto pesante, schiavi). Se non si considera che il ventenne commediografo poté far questo, e difendersi, perché poteva contare su una protezione politica, i Babilonesi paiono un atto ‘sconsiderato’27.

La non comprensione di questo essenziale presupposto spiega le oscillazioni a proposito dell’esito della gara in cui Aristofane, tramite Callistrato regista, presentò i Babilonesi. Che i Babilonesi ottenessero o meno il primo premio è stato oggetto di una disputa vivace, che ha visto anche grandissimi interpreti e conoscitori del teatro non solo aristofaneo, come Wilamowitz, cambiar parere in modo drastico28.

Inizialmente gli era parso che il pubblico avesse sgradito l’attacco all’impero e approvasse la procedura ‘giudiziaria’ promossa da Cleone; che perciò l’idea di una vittoria fosse «pazzesca» (töricht). Anche Russo, nell’importante libro su Aristofane pensava questo, senza conoscere le pagine del Platon e in polemica con l’introduzione alla Lisistrata: si richiamava ad una prassi in vigore nel IV secolo inoltrato e testimoniata dalla Midiana di Demostene29, che comportava una seduta dell’assemblea popolare dedicata alla valutazione del comportamento degli arconti come giudici delle gare teatrali30. Non è detto però che questa prassi fosse già in vigore circa un secolo prima31. Da ultimo invece la tesi del conseguimento del primo posto è data per certa32.

Il problema sarebbe meglio impostato se si considerasse che: a) anticipare al V la prassi di tardo IV secolo non è fondato; b) il pubblico del teatro (il popolo) è infinitamente più grande e numeroso di quello assembleare (il demo), insidiato dall’assenteismo e dalla necessità di garantire un ‘numero legale’; c) il popolo non ha il riflesso condizionato imperial-democratico del demo; d) per giunta alle Dionisie ci sono molti altri soggetti; e) gli arconti – il cui ruolo di giudici è determinante – sono, come s’è visto nel primo capitolo, tutt’altra cosa dalla leadership democratico-radicale peraltro a sua volta sempre periclitante e sotto pressione quando non sotto attacco.

Che i Babilonesi abbiano avuto il primo posto non è dimostrabile in modo certo33: rientrarono certo tra i primi tre, il che costituiva un buon piazzamento. E per questo costituirono un problema politico tale da indurre Cleone, ed altri con lui, a reagire. Ma la prova di quanto sempre in bilico fosse l’«egemonia» democratico-radicale sulla politica cittadina è dimostrata dal fatto, questo sì indubbio, che la Boulé (‘scelta a sorte’), investita del problema diede torto a Cleone. Fu questo il vero successo dei cavalieri e del giovane commediografo, loro ‘spericolato’ amico. Ma in quel momento era anche un rischio calcolato: si dimentica che Cleone era reduce da una clamorosa sconfitta, proprio davanti all’assemblea popolare, nello scontro con gruppi contrari alla ‘mano dura’, al ‘pugno di ferro’ verso gli alleati. Ed è per significare il rilievo di tale sconfitta di Cleone, quantunque «uomo di fiducia del demo», che Tucidide dedica al dibattito sulla punizione di Mitilene uno spazio così grande nel racconto dell’anno 427-426. Forse andrebbe abbandonata la lettura schematica del funzionamento della democrazia ateniese e dei suoi organi decisionali. Nulla, per nessuna delle parti in lotta, era acquisito una volta per sempre.

4.

Il valore politico dello schierarsi ostentatamente, di Aristofane, al fianco dei cavalieri nel loro aspro scontro con Cleone fu bene inteso da Domenico Comparetti. Presentando la commedia che da loro prende nome, egli definiva i cavalieri come i più «odiati dagli ultrademocratici della fazione dominante plebea con a capo Cleone, i quali li avevano in sospetto di possibili cospiratori»34. E Wilhelm Schmid altrettanto opportunamente parlò di Aristofane come del «portavoce dei cavalieri sulla scena»35. Un tale ruolo risulta chiaro dalla parabasi, in particolare dalle parole del corifeo: «abbiamo gli stessi odi», «solo per lui [cioè per Aristofane] avremmo accettato di sfilare [παραβῆναι] nell’orchestra», cioè di fare i coreuti etc. (vv. 507-513).

Per capire il peso e le scelte politiche dei cavalieri ateniesi – e quindi anche il senso di quella commedia –, conviene partire dal cambiamento politico che si profila nell’anno 426, dopo anni nei quali Nicia, Demostene e altri politici a loro vicini venivano rieletti strateghi ogni anno. In quell’anno Cleone è forse ellenotamo, certo ottiene di far appesantire di molto l’entità del tributo36: questo gli procura un ulteriore aumento di popolarità, fino a quel momento già alta37.

Nell’aprile 425 Demostene occupa, con un colpo fortunato, la baia di Pilo. Gli Spartani affluiti a Sfacteria, isola antistante Pilo, cadono in trappola. Nell’agosto 425 i trecento opliti spartani bloccati a Sfacteria si arrendono a Cleone, subentrato clamorosamente a Nicia nelle funzioni di stratego e in grado, così, di sottrarre a Demostene il merito di quella vittoria strepitosa. Trionfo di Cleone, che ottiene i due massimi riconoscimenti: alloggiare nel pritaneo e proedria in teatro. Nel frattempo Nicia con duemila opliti e duecento cavalieri è sbarcato in territorio corinzio e ha conseguito un contrastato successo con perdite da ambo le parti: episodio su cui Tucidide si dilunga molto dando rilievo al ruolo dei cavalieri nella battaglia38. Nel gennaio-febbraio 424, Aristofane mette in scena la commedia Cavalieri («i miei Cavalieri» dirà l’anno dopo nella parabasi delle Nuvole: v. 554). È un attacco frontale e distruttivo a Cleone corruttore del popolo.

Sin dalle prime battute viene ridimensionato e ridicolizzato il successo di Cleone a Sfacteria (vv. 54-57): motivo che viene ampiamente svolto – nel prologo – dal «Servo A», nel quale non è difficile riconoscere lo stratego defraudato del merito della vittoria, Demostene39. Nella parabasi, invece, i cavalieri, che costituiscono il coro, politicamente eloquentissimo, esaltano la propria vittoria in terra corinzia (vv. 595-610). Ma quel che è ancor più rilevante è che, nella loro sferzante oratoria, essi bollano con sarcasmo (e qui fanno il nome di Cleeneto, padre di Cleone) proprio le gratificazioni che Cleone ha ottenuto per il troppo facile successo: «Prima nessuno stratego avrebbe chiesto di essere mantenuto a spese pubbliche; adesso, se non hanno il vitto gratuito e la proedria si rifiutano di combattere!» (vv. 573-576); «Noi [cavalieri] invece pensiamo che per la città e per gli dei della città si debba combattere gratis; noi non chiediamo niente...» (vv. 576-578); «Così sbarcammo a Corinto etc.» (v. 604).

Più efficace di un discorso all’assemblea, questa commedia fa a pezzi Cleone dinanzi a un pubblico che alla commedia attribuì la vittoria. Ma si sa che nell’attribuzione del premio contava molto anche il parere degli arconti. Vicenda emblematica per molti versi, se si considera che comunque Cleone viene eletto, poco dopo, stratego per il 424/423 (dunque la commedia è ‘esplosa’ in piena campagna elettorale); ma riescono eletti anche uomini a lui avversi (Nicia, Tucidide lo storico, esponente di spicco del milieu cimoniano, Demostene, Nicostrato, grande stratego morto a Mantinea [418], spesso impegnato in campagne con Nicia40). Il pubblico del teatro è la città intera, mentre all’assemblea vanno soprattutto i politicizzati. Inoltre si eleggono gli strateghi per tribù: Cleone è riuscito a farsi eleggere nella sua. Al teatro i cittadini appartenenti alle varie tribù si mescolano: è molto più «popolo di Atene» quello del teatro che non quello dell’assemblea41.

Sappiamo, dalla didascalia, che, nel caso dei Cavalieri, qualcosa di insolito si verificò per quel che attiene alla coregia. Infatti, secondo la didascalia (che figura al termine della hypothesis), la commedia fu messa in scena «a spese pubbliche» (δημοσίᾳ). E vi si precisa anche che Aristofane stesso si accollò in prima persona la regia. Non era mai accaduto prima. La decisione di apparire in prima persona davanti al pubblico è particolarmente significativa42: non solo per quel che riguarda la carriera e la volontà di affermazione di Aristofane, ma per il rilievo che Aristofane ha voluto dare a quella commedia, e al suo legame – qui massimamente ostentato – con il gruppo sociale-militare dei «cavalieri».

Il termine δημοσίᾳ – la cui rilevanza non era sfuggita a Droysen43 – racchiude una notizia rilevante. E poiché è termine tecnico, del linguaggio dei decreti attici44, è logico pensare che provenga in ultima analisi da un documento. Spiace perciò che sia stato maltrattato da più di un moderno. Il fatto (che in qualcuno ha destato impressione) che la parola manchi nel Laur. plut. 31.15 (XIV sec.) vuol solo dire che non era stata capita. Madvig tagliò corto ed espunse. Meineke, Coulon e Cantarella stampano la parola senza problemi. Cantarella traduce: «a spese pubbliche»; Coulon non traduce le hypotheseis, ma nell’introduzione alla commedia non fa cenno a questo problema. Pascal Thiercy traduce la hypothesis (di cui non dà il testo) ma omette δημοσίᾳ45. Russo (1962) dichiara di non capire il senso lì di quel termine46 e tenta dubbiosamente un’altra spiegazione (suggerisce: «ufficialmente») che dovrebbe alludere al fatto che finalmente Aristofane appariva come autore. Ma, a parte l’insolito valore (esiste δημοσίᾳ = in pubblico, conspectu populi, in Erodiano, III, 8), c’è da dire che la notizia dell’uscita ‘allo scoperto’ di Aristofane è già data, nella stessa frase, in altra forma e sufficientemente enfatica: «da Aristofane in persona», δι᾿αὐτοῦ τοῦ Ἀριστοφάνους. È chiaro che si trattò di qualcosa di eccezionale. E proprio perciò il documento, da cui discende la hypothesis, lo segnalava47.

La preziosa informazione racchiusa in quel δημοσίᾳ, a ben vedere, illumina un momento dello scontro politico sviluppatosi dopo Sfacteria (e visibile, ad esempio, anche nel risultato elettorale per la nomina degli strateghi del 424/423). Δημοσίᾳ significherà che, eccezionalmente, per quella commedia, con quel contenuto e quella inusuale scelta di un coro direttamente politico (i cavalieri appunto), dovuta a un autore amico dei cavalieri in quanto tali, e che ora si incaricava personalmente della regia, ci fu, per la coregia, un sostegno «collettivo» (δημόσιος nel senso di «comune» ricorre in Aristotele, Topica, 162a, 35 e altrove): e perciò, in ragione del ‘corpo’ militare coinvolto, definibile come «ufficiale». Aristofane – per dirla ancora con Wilhelm Schmid48 – è il loro «portavoce»: sempre pronto a usare i toni strillati, come quando, negli Acarnesi il coro si dice pronto a fare di Cleone «suole per i calzari dei cavalieri» (vv. 300-302).

Se un potente gruppo sociale si impegna come tale a finanziare la coregia di un autore per giunta così in sintonia con loro, forse questo si può definire διδάσκειν δημοσίᾳ. Esattamente questo aveva suggerito Domenico Comparetti, – nel 1898 – autore, come già Droysen, di efficaci introduzioni, forse non più di moda, di contenuto storico e letterario alle commedie di Aristofane, nell’introduzione ai Cavalieri (p. XV). Per parte sua Droysen accoglieva senz’altro quella informazione e si soffermava a lungo, nell’introduzione alla commedia, sul peso sociale dei cavalieri, sulle ‘liturgie’ cui si sobbarcavano e sulla contrapposizione di questo corpo di élite nei confronti di Cleone49.

Wilhelm Roscher, nel notevole saggio tucidideo del 1842, di poco successivo all’Aristofane di Droysen, riprende il tema e fornisce una spiegazione. Suo punto di partenza è la circostanza, certo, straordinaria che i cavalieri costituiscono il coro50. Perciò commenta: «Probabilmente nessun singolo corego osò attirarsi l’ira, assumendo la coregia, del violento Cleone. La cavalleria come tale (die Ritterschaft als solche) poté ottenere la messinscena, il che può aiutare a farsi un’idea esatta di questa coregia»51.

5.

Tra Babilonesi (426), Acarnesi (425) e Cavalieri (424) si gioca una durissima partita politico-giudiziaria. Essa produce due novità, l’una inerente alla carriera di Aristofane, l’altra di rilievo generale: a) una coregia ‘pubblica’, collettiva e politica, di appoggio ad Aristofane, il quale per la prima volta si assume anche la regia e porta alla vittoria un attacco frontale a Cleone di violenza inaudita; b) nonostante gli attacchi ‘mediatici’, Cleone vince le elezioni e raggiunge, forte anche del successo a Sfacteria, la carica politico-militare più importante: diventa stratego. Della dicotomia tra demo e popolo non vi potrebbe essere conferma più chiara: il popolo applaude la scatenata abile e demagogica commedia anti-cleoniana che ha visto i cavalieri impegnarsi in prima persona, ma la minoranza attiva e politicizzata che frequenta le assemblee elettorali porta Cleone alla vittoria, ponendolo al vertice su entrambi i versanti, politico e militare. Ovviamente ad Atene, se non si ha la statura e la bravura di Pericle, nessuna posizione egemonica è conquistata stabilmente. Dopo lo scacco pesantissimo della campagna conclusasi a Delion con un disastro e perdite umane gravi (estate 424), Cleone ‘arretra’ e le forze miranti alla pace con Sparta ottengono la stipula di una tregua annuale per il 423/2. Cleone però ne impedirà il rinnovo soprattutto facendo leva sulle inadempienze e violazioni spartane. Dopo di che cadrà nella battaglia per la riconquista di Amfipoli, pur dopo alcuni successi parziali nella Calcidica. E prevarrà, con esultanza di Aristofane (421: Pace), lo schieramento ‘moderato’ che puntava da sempre all’accordo con Sparta.

Per la carriera di Aristofane, i Cavalieri hanno rappresentato una svolta. Ed egli stesso lo proclama con orgoglio: la regia – dice nella parabasi dei Cavalieri – è «la cosa in assoluto più difficile», e lui, finalmente, s’è cimentato, ce l’ha fatta, e, sperabilmente, vincerà.

Che Aristofane sia stato, in certo senso, ‘costretto’ ad assumere in prima persona la regia si spiega e ben si comprende se si considera che Callistrato, regista sia per i Babilonesi sia per gli Acarnesi, non poteva ragionevolmente essere coinvolto ancora una volta e per giunta in una commedia che da ogni punto di vista era una rinnovata dichiarazione di guerra puntata direttamente su Cleone. Dallo scontro innescato dai Babilonesi Callistrato non può non essere stato ‘sfiorato’. È un eufemismo: era lui che, per i Babilonesi, aveva istruito attori e coro; la sua a tutti gli effetti ‘complicità’ in una commedia messa ufficialmente sotto accusa perché lesiva della dignità della democrazia (e della sicurezza dell’impero!) era indiscutibile. Egli aveva accettato di figurare come ‘autore’.

Dunque, il grande salto verso la regia (attività da cui anche in seguito volle tenersi lontano) era, – per Aristofane – nel momento in cui scatenava sulla scena i Cavalieri, inevitabile. E la tradizione biografica antica – che non è mai sensato respingere a priori – sosteneva che egli avesse dovuto assumersi anche il ruolo di attore e di fare lui la parte dell’odiato Paflagone-Cleone (perché nessuno osava). La spiegazione («perché nessuno osava») sarà autoschediastica. Resta il fatto che non vi è nulla di più riuscito – nel mondo della satira politica –, per un grande comico, che recitare in prima persona la parte del personaggio che si vuole demolire: perché, per detestarlo, lo ha conosciuto a fondo, ne ha studiato ogni tic, si è identificato in lui odiandolo e compenetrandosi al tempo stesso52.

Attore era probabilmente stato Aristofane da giovanissimo, come tanti teatranti approdati per gradi al vertice della carriera: è quello il primo e più formativo gradino del cursus honorum teatrale53. Del resto, lo dice egli stesso nella memorabile ‘autobiografia artistica’ che traccia di sé nella parabasi dei Cavalieri, quando, alfine, s’è impegnato nella «cosa più difficile», la regia. Lo dice in quei celebri versi incentrati – com’è ovvio dinanzi ad un pubblico ateniese – sulla metafora delle tappe che percorre chi si mette per nave. («Per tutta la vita gli Ateniesi si esercitano ad andare per mare», dice – o meglio constata – l’opuscolo criziano Sul sistema politico ateniese.)54 Ecco il suo lineare ragionamento; parla il corifeo:

«Se qualcuno degli antichi poeti comici ci avesse obbligato a sfilare in teatro recitando i suoi versi, non gli sarebbe stato facile ottenerlo. Ma questo poeta ne è degno perché odia quelli che anche noi odiamo e ha il coraggio (τολμᾷ) di parlare secondo giustizia e coraggiosamente (γενναίως) marcia contro Tifone55 e contro la tempesta». Dopo di che – consequenzialmente – il corifeo passa alla questione: perché Aristofane ha tardato tanto a cimentarsi con la regia. «Molti di voi andavano a chiedergli perché non chiedeva il coro in prima persona» (v. 513). Consequenziale: perché la scelta dei cavalieri di «sfilare in teatro recitando i suoi versi» e la scelta di Aristofane di esporsi direttamente nascono insieme; sono due aspetti dello stesso combattimento, contro coloro che «lui e noi odiamo».

E qui segue la celebre dichiarazione che fa epoca nella storia del teatro non solo antico: lui «ha tergiversato non per incapacità ma perché riteneva che l’arte di mettere in scena (cioè la regia: κωμῳδοδιδασκαλίαν) sia il lavoro più difficile (χαλεπώτατον ἔργον ἁπάντων)» (vv. 515-516). Non gli sfuggivano – seguita il corifeo – i due aspetti di tale «difficoltà»; l’uno è di carattere sociale: i poeti comici non hanno risorse proprie, vivono di quel lavoro, e se cominciano ad essere abbandonati dal pubblico, a non piacere più, cadono in miseria (e fa gli esempi dei grandi della generazione precedente); l’altro aspetto è assai più tecnico: alla regia si arriva per gradi, dalla ‘gavetta’. «Lui sapeva – ed ecco la metafora nautica – che prima di mettersi al timone bisogna fare il rematore (ἐρέτην γενέσθαι), poi fare il ‘secondo’ (ἐντεῦθεν πρῳρατεῦσαι), saper osservare i venti, e solo allora fare il capitano ‘in proprio’ (κυβερνᾶν αὐτὸν ἑαυτῷ)» (vv. 541-544).

Non si vede perché non si debba intendere questa metafora nautica della scansione di una carriera nel suo significato più immediato e ovvio vista la premessa: ho esitato a lungo prima di decidermi ad affrontare il difficilissimo compito della regia. Pascal Thiercy nei «Cahiers du groupe interdisciplinaire du théâtre antique de Montpellier» 5, 1989, pp. 36-38, aveva suggerito tale interpretazione che ha poi alquanto ‘pasticciato’ nel commento (Aristophane, Théâtre complet, Gallimard, Paris 1997, pp. 1048-1049): ma le premesse della complicanza erano già nell’articolo del 1989. Cercare rispondenze puntuali e gradus ad Parnassum perfettamente paralleli è fuorviante. Ma se proprio si vuole, scolasticamente, cercare una rispondenza puntuale (laddove si tratta semplicemente di una brillante analogia), gioverà osservare che le tappe nautiche sono tre e che, nel caso della carriera teatrale, si tratterà di tre momenti: attore, autore non regista, autore-regista. Questa metafora nautica, perno della autobiografica scansione della propria carriera, ha senso qui perché qui Aristofane è per la prima volta autore e regista, e spiega perché non ha ‘osato’ prima la regia (pur essendo già autore, e autore perseguitato dal potere, dunque proiettato al massimo alla ribalta). Aver chiaro il senso di questa brillante e preziosa pagina autobiografica nulla toglie alla fondatezza dell’interpretazione che è stata data (G. Mastromarco, L’esordio “segreto” di Aristofane, «QS» 10, 1979, pp. 153-196) di un’altra pagina autobiografica, quella affidata alla parabasi delle Vespe (v. 1018: «[il nostro poeta] ha esordito versando versi nel ventre altrui etc.»), che non riguarda la cessione delle proprie pièces ad un regista (Babilonesi [426], Acarnesi [425]) ma una collaborazione ‘segreta’, cioè da ‘apprendista’ che sta a bottega – come aiutante e all’occorrenza come attore – presso autori affermati e, ciò facendo, si ‘fa le ossa’. Altro è, infine, il senso della terza parabasi autobiografica, quella (in parte rifatta dopo l’insuccesso) delle Nuvole, dove la polemica col pubblico è serrata e amarognola, e dove Aristofane rievoca la fase in cui – dopo il buon successo dei Banchettanti (427) – ha comunque fatto presentare da altri le successive commedie, Babilonesi e Acarnesi, e giustifica quella scelta con la metafora della «ragazza» cui «non era lecito partorire» (vv. 528-531).

Sintomatica la parabasi dei Cavalieri (vv. 498-610): dopo una forte presa di posizione politica, in cui Aristofane dichiara a voce spiegata e usando parole grosse (μισεῖν) qual è il suo gruppo politico di riferimento (vv. 498-511), segue questa ampia informazione autobiografica e, strettamente connessa, una lunga querimonia sulla condizione sociale dei comici (vv. 512-580). Ne vien fuori una specie di autoritratto del ‘cliente’-portavoce, che unisce all’ostentazione di ‘schieramento’ il richiamo alla condizione sua propria e di coloro che fanno il suo mestiere. Fiancheggiamento e richiesta di sostegno si intrecciano.

6.

Che Aristofane giovanissimo avesse fatto l’attore – mestiere non disdicevole in Atene56 e tirocinio peraltro ovvio per chi si vota al teatro –, e in particolare sotto la direzione di Eupoli, fu convinzione, come s’è già ricordato, di Peter Friedrich Kanngiesser (1774-1833). Autore nel 1817 di un ponderoso saggio sulla commedia attica antica (Die alte komische Bühne in Athen, Breslau), egli fu anche autore della voce su Aristofane nella monumentale Allgemeine Encyclopädie der Wissenschaften und Künste diretta da Ersch e Gruber (1820)57.

«All’epoca – scrive in questa voce Kanngiesser – gli autori di tea­tro imparavano, inizialmente, come attori le esigenze della scena su cui poi si sarebbero avventurati con proprie creazioni58. E, così, è certo (unstreitig) che Aristofane fu attore nelle commedie di Eupoli prima di far rappresentare la sua prima commedia, i Banchettanti». Naturalmente questa non è che una ipotesi (anche se Kanngiesser la presenta come una certezza), di per sé non inverosimile se si considera che Eupoli ha esordito prima (nel 429) di Aristofane, e che per un certo tempo essi hanno collaborato. Il lavoro teatrale è un atelier in cui i ruoli si intrecciano; e, semmai, proprio la creazione solitaria è fenomeno insolito. La leggenda biografica su Euripide che compone, qual eremita, «in una caverna», fa a pugni con l’opposta diceria sulla stretta collaborazione sua con Cefisofonte (e Socrate). Eupoli ha dato una mano alla stesura dei Cavalieri: la collaborazione tra i due s’è poi infranta con reciproche accuse di plagio proprio a proposito dei Cavalieri. Nelle Nuvole (rifatte) Aristofane accusa Eupoli (vv. 553-554) di aver plagiato i suoi Cavalieri nel Maricante (presentato alle Lenee del 421); Eupoli nei Battezzatori replicherà (circa 416) sostenendo di essere stato co-autore (συνεποίησε) dei Cavalieri59. Ma lo scontro aveva deflagrato ed era divenuto pubblica e notoria inimicizia: nella Bottiglia – che alle Dionisie del 423 si classifica prima (un vero e ultimo trionfo mentre Aristofane ne esce malconcio con le Nuvole [prima stesura]) – Cratino prendeva ad un certo punto le parti di Eupoli, e attaccava Aristofane, che a sua volta, nei Cavalieri, aveva fatto dire al corifeo: «Cratino ormai sragiona»60. Cratino rimbeccava proprio questo insulto camuffato da affettuosità solidale contrattaccando: «Sei tu [Aristofane] che dici parole di Eupoli!»61.

Nel capolavoro della vecchiaia, il Platon (II, 1920), così Wilamowitz ricostruì questa vicenda ponendo in rilievo che il dissenso scoppiato tra i due dovette avere anche cause politiche:

«Il suo [di Aristofane] primo tentativo fu un perfetto dramma ‘scolastico’ [i Banchettanti]: Aristofane trasformò in azione scenica la sua propria esperienza scolastica, e condannò senza mezzi termini l’educazione alla moda62. Non si può pretendere da questa pièce un profondo pensiero etico-pedagogico. Però si manifestò, in quell’occasione, un talento fresco: Eupoli lo notò. Eupoli aveva debuttato poco prima ed era all’incirca coetaneo: il principiante Aristofane si legò a lui. Eupoli, che aveva un fortissimo interesse politico (der politisch stark interessiert war), deve aver fatto da intermediario [da tramite: vermittelt haben] nell’agevolare la scelta di Aristofane di lanciarsi nella politica: evidentemente alle spalle c’era già il partito (vermutlich stand die Partei schon dahinter), in pro del quale Aristofane si impegnò negli anni seguenti. Ma il primo attacco alla politica dell’impero ateniese fu così dissennato che il popolo approvò che si procedesse per via giudiziaria contro il didascalo. Com’è folle (töricht!) pensare che questa commedia [Babilonesi] abbia ottenuto la vittoria! Certo condanna non vi fu; la felice improvvisazione degli Acarnesi piacque. E il grande attacco contro Cleone, nei Cavalieri, da molto tempo preparato e sostenuto dall’aiuto di Eupoli, riuscì. [...] Successivamente Aristofane sfoderò un dramma, le Nuvole, che riprendevano il suo iniziale attacco all’educazione sofistica e prese molto male la bocciatura di quella commedia. L’amicizia con Eupoli andò in pezzi».

Nel 1927, nell’introduzione alla Lisistrata, Wilamowitz, ormai quasi ottantenne e tuttavia impigliato nei sentimenti e nell’amarezza della guerra perduta, è tornato ancora una volta su questo punto rimarcando un’altra differenza tra Eupoli ed Aristofane. Di Aristofane notò che, se per censo (padre cleruco) non poteva certo appartenere al ceto equestre, è anche «singolarmente silente su di un suo servizio come oplita, sicché ci si può chiedere come abbia potuto sottrarvisi»; laddove, al contrario di Aristofane, Eupoli «ist Soldat; anzi, è morto per la sua patria». Eupoli – soggiunge – «nei Tassiarchi ha reso onore a Formione, elogiato anche da Tucidide come esempio di bravura nautica ateniese, e non avrebbe mai attaccato Lamaco»63. Serpeggia qui l’idea negativa di un Aristofane disfattista. Chi predica la pace mentre il suo paese è in guerra suggerisce a Wilamowitz l’analogia con chi in Germania questo aveva fatto, pochi anni prima, e, se militare, era stato punito con l’arresto. Sul piano dell’impegno politico, Eupoli gli appare anche meno radicale di Aristofane nelle prese di posizione: vent’anni prima aveva definito Eupoli «politicamente non conservatore come Aristofane»64.

Sono valutazioni impressionistiche. Sta di fatto che la rottura con Eupoli non poté più sanarsi. In un passo della parabasi delle Vespe (vv. 1024-1026), là dove Aristofane contrappone il suo proprio successo ottenuto «guidando da solo le sue Muse» alla vanità di altri che si pompeggiano vacuamente, gli scolii (riflesso dell’erudizione antica) riconoscevano una frecciata ad Eupoli65. Comunque, una sola ragione – la rivalità, per esempio – non basta a spiegare la rottura di un sodalizio trasformatosi poi in violento dileggio personale. È ben probabile che le loro strade si siano, per un certo tratto, divaricate politicamente: non sarà casuale che Eupoli bersagli pesantemente Alcibiade (per esempio nell’Autolico), mentre Aristofane non sembra aver mai preso Alcibiade come bersaglio sul piano politico. È forse solo la grave crisi successiva alla campagna in Sicilia che può averli riavvicinati. Poi Eupoli è morto tragicamente. E Aristofane, fiutando il momento nuovamente propizio, forse anche daccapo in contatto con quei «cavalieri» che avevano i suoi stessi «odi» e che ora, nel 411, si mobilitano, scrive Lisistrata.

1 Tramandata nei manoscritti Marciano gr. 474 ed Estense α.U.5.10.

2 Acarnesi, 642: τοὺς δήμους ἐν ταῖς πόλεσιν δείξας ὡς δημοκρατοῦνται. Allude al meccanismo della solidarietà tra fazioni democratiche al potere nelle città alleate e il ‘potere popolare’ dominante nello ‘Stato-guida’.

3 A giusto titolo figurano accanto alle testimonianze su quella commedia in PCG, III.2, p. 63.

4 Voce Σαμίων ὁ δῆμος.

5 Πολυγράμματος. Le interpretazioni di questa pointe sono varie: cfr. O. Imperio, Parabasi di Aristofane: Acarnesi, Cavalieri, Vespe, Uccelli, Adriatica, Bari 2004, p. 131 e nota 16. Uno schiavo «stigmatis nota inustus», cioè marchiato a fuoco, è detto litteratus in Plauto, Casina, 401. Cfr. anche Apuleio, Metamorfosi, IX, 12.

6 Plutarco, Pericle, 26.

7 Tucidide, III, 38-50.

8 Tucidide, I, 98.

9 Notizie in merito in PCG, III.2, p. 63.

10 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 14-15.

11 Chi ha colto bene questo punto della questione fu Geoffrey E. M. de Ste. Croix nel primo numero di «Historia» del 1954 (III annata), in un articolo di ben 40 pagine, The Character of the Athenian Empire, che è lo sviluppo della conferenza da lui tenuta nel 1950 The Alleged Unpopularity of the Athenian Empire (14 giugno 1950, London Classical Society). Erano presenti e si espressero anche criticamente Meiggs, Ehrenberg, Andrewes, P.A. Brunt. Chi lo ha ‘incoraggiato’ fu A.H.M. Jones. Punti di riferimento: Gomme (HCT, vol. I) e Meiggs. La tematizzazione è tipica di un comunista inglese nel 1950 all’indomani della vittoria di Mao in Cina: è lo stesso clima in cui Arnold Toynbee pronuncia alla BBC Il mondo e l’Occidente. Negare che l’impero ateniese fosse impopolare presso gli alleati significava voler affermare (per analogia) il radicamento sociale, cioè la popolarità, delle ‘Repubbliche popolari’, appena costituitesi in Europa orientale, tra il 1947 (Cecoslovacchia) e il 1949 (DDR). Sovviene, in proposito, la vicenda drammatica dei giacobini ‘esterni’ (italiani, tedeschi etc.) dei quali un pentito scrisse: «perdettero presso i compatriotti loro la confidenza, presso i forestieri l’amicizia» (C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, III, Parigi 1824, libro XV, p. 132). Ma una base sociale, sia pure ristretta, ci fu pur sempre, anche nei momenti più difficili.

12 Tucidide, I, 139, 3: ci sarà pace, εἰ τοὺς Ἕλληνας αὐτονόμους ἀφεῖτε.

13 Tucidide, II, 65, 1-2.

14 Tucidide, II, 63, 2.

15 Tucidide, II, 59, 1-2.

16 Forse un quarto della popolazione!

17 A cominciare da quella di Esichio (σ 150): «In Aristofane, un personaggio vedendo i Babilonesi alla macina, spaventato da tale spettacolo e interdetto, esclama: Com’è letterato il popolo dei Samii!» (fr. 71 K.-A.). Nello svuotamento di questa testimonianza e nello sforzo di cambiare i connotati a questa commedia si è illustrato W.G. Forrest, Aristophanes and the Athenian Empire, in The Ancient Historian and His Materials. Essays in Honour of C.E. Stevens, Gregg International, Farnborough 1975, pp. 20, 24 (a p. 28 l’articolo diventa faceto).

18 A questi si riferisce con l’espressione πρέσβεις ἀπὸ τῶν πόλεων (v. 636). Le πόλεις qui menzionate non possono che essere le medesime cui si riferisce con ἐν ταῖς πόλεσιν ai versi 642 e 643.

19 Il motivo della ‘adulazione’ cui il demo deliberante in assemblea è sensibile ritorna anche in Cavalieri, 1111-1114.

20 Come l’apparato politico e giudiziario ateniese ruotasse intorno allo sfruttamento degli alleati è detto con chiarezza nell’opuscolo, già ricordato, Sul sistema politico ateniese, I, 14-15.

21 Plutarco, Moralia, 806F. Su tutto ciò cfr. H. Diller, «Gnomon» 15, 1939, p. 118; L. Canfora, Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 142.

22 Sempre utile la voce Hippeis (in Athen) della Realencyclopädie a cura di Edmund Lammert, VIII, 1913, coll. 1697-1698.

23 Così Marie Delcourt definì Aristofane esordiente (La vie d’Euripide, Gallimard, Paris 1930, p. 132).

24 «Audacia inaudita (unerhörte Kühnheit) del giovanissimo poeta» è la valutazione che dà Werner Jaeger dell’operazione Babilonesi (Paideia, I, de Gruyter, Berlin [1934] 19362, p. 461; trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1946, p. 538). Con maggiore concretezza e sensibilità storico-politica, appena sette anni prima (1927) Wilamowitz, nella prefazione alla Lisistrata (Weidmann, Berlin), aveva osservato che difficilmente si può credere che Aristofane si sia accinto da solo (aus eigenem Antriebe) a dar vita, coi Babilonesi, alla denuncia del trattamento «schiavile inflitto agli alleati» e aveva collegato quella denuncia alla «stretta connessione» (Verbindung) di Aristofane con i cavalieri, impegnati poi direttamente al suo fianco nella omonima commedia (pp. 41-42).

25 E poteva contare sul successo proprio perché il pubblico era di alleati.

26 Platon, II, Weidmann, Berlin 1920, p. 17.

27 Wilamowitz, Platon, II cit., p. 17. Proprio in questo scritto del ’20, Wilamowitz cominciava a rendersi conto che «hinter stand die Partei».

28 Nel 1920 scriveva: «che follia (wie töricht) pensare che i Babilonesi abbiano avuto il premio» (Platon, II cit., p. 17), ma nel ’27, dopo lo studio di Geissler in proposito (Chronologie, Weidmann, Berlin 1925, pp. 6-8), scrive: «Ora bisogna riconoscere che i Babilonesi hanno vinto» (Lysistrate, Weidmann, Berlin 1927, p. 41).

29 C.F. Russo, Aristofane autore di teatro, Sansoni, Firenze [1962] 19842, p. 39.

30 Demostene, Contro Midia, 8-10.

31 Wilamowitz, nelle pagine del 1920, quando escludeva che i Babilonesi potessero aver vinto, dava per certo che il «popolo» (cioè l’assemblea popolare) avesse «approvato l’azione giudiziaria» contro l’autore dei Babilonesi.

32 Così S.D. Olson, Broken Laughter. Select Fragments of Greek Comedy, University Press, Oxford 2007, pp. 385-386. Più cauto, giustamente B. Zimmermann, Handbuch der griechischen Literatur der Antike, I, Beck, München 2011, p. 767, nota 416: «Dies hängt von der Ergänzung in IG II2, 2325».

33 Alcuni dei ragionamenti di Geissler sono fragili.

34 Introduzione a I cavalieri di Aristofane, tradotti in versi italiani da A. Franchetti, con introduzione e note di D. Comparetti, Lapi, Città di Castello 1898, p. XV.

35 Geschichte der griechischen Literatur, I.4, Beck, München 1946, p. 231.

36 La suggestione che Cleone sia stato ellenotamo per l’anno 427/6 è dovuta a Georg Busolt («Hermes» 25, 1890, pp. 640-645) sulla base di una integrazione volenterosa nel testo dell’epigrafe IG I, Supplemento, nr. 179, p. 161. Tale suggestione fu accolta da Kahrstedt, nella voce Kleon della Realencyclopädie (col. 714, 50), ma era stata accantonata tacitamente dallo stesso Busolt nella Griechische Geschichte, III.2, Perthes, Gotha 1904, p. 1015. Busolt si limitava a serbar fiducia nell’ipotesi, molto probabile, che in quell’anno o nell’anno successivo Cleone fosse buleuta. In ogni caso, il decreto che raddoppiò di fatto i tributi è il ben noto decreto di Tudippo (R. Meiggs-D. Lewis, A Selection of Greek Historical Inscriptions to the End of the Fifth century B.C., Clarendon Press, Oxford 19882 [1969], nr. 69). Congiunto di Cleone fu probabilmente questo Tudippo: sui legami familiari di Cleone si veda J.K. Davies, Athenian Propertied Families (600-300 B.C.), Clarendon Press, Oxford 1971, s.v.

37 Tucidide, III, 36, 6: βιαιότατος τῶν πολιτῶν τῷ τε δήμῳ παρὰ πολὺ ἐν τῷ τότε (cioè nella volontà di punire Mitilene) πιθανώτατος.

38 IV, 42-44; sui cavalieri: 44, 1.

39 Cleone era sopraggiunto da pochi giorni quando gli Spartani si sono clamorosamente – e vilmente, sottolinea Tucidide (IV, 40) – arresi.

40 PAA, XIII, s.v., nr. 717980.

41 Su ciò, cfr. supra, Parte I, cap. 1.

42 Cfr. supra, il capitolo 2 di questa parte, Il didascalo e il poeta. Sempre utile A. Briel, De Callistrato et Philonide, Diss. Berlin 1887.

43 Si veda l’ottima traduzione delle varie introduzioni alle Commedie [1835-1838], a cura di G. Bonacina: J.G. Droysen, Aristofane. Introduzione alle commedie, Sellerio, Palermo 1998, p. 163.

44 Cfr. W. Dittenberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum, IV.2, Hirzel, Leipzig 19243, s.v.

45 Aristophane, Gallimard, Paris 1997, p. 1040.

46 Aristofane autore di teatro cit., p. 143, n. 7.

47 Senza valore il tentativo di J.T. Allen (Notes on Aristophanes, «Classical Philology» 30, 1935, p. 263) di integrare nell’ipotizzabile documento di partenza – che ovviamente indicava gli anni con gli arconti – anche una data espressa in Olimpiadi, recante in fine l’indicazione ἔτει Δ (= quarto anno dell’Olimpiade), il cui Δ avrebbe generato un δημοσίᾳ! (Ma si potrebbe andare oltre con la fantasia, e proporre altri svolgimenti del Δ, per esempio: Διὸς συναγωνιζομένου, oppure Δαπάναις δημοσίαις e, perché no?, Deo gratias.) Va da sé che i numerali essendo contrassegnati (͞Δ) erano ben difficilmente scambiati per parole. E poi chi si prende la pena di guardare le epigrafi greche (Syll.3 180 etc.) può notare che δημοσίᾳ non è mai compendiato.

48 Geschichte der griechischen Literatur cit., I.4, p. 231.

49 Droysen, Aristofane cit., pp. 163-165.

50 «Derselbe Stand wird förmlich als Chor aufgeführt».

51 W. Roscher, Leben, Werk und Zeitalter des Thukydides, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1842, pp. 303-304. E comunque è evidente che una notizia del genere «fu messa in scena con impegno finanziario collettivo» (ἐδιδάχθη δημοσίᾳ) non nasce dal nulla. Ignorarla o sminuirla è insensato. Prova della sua rilevanza è proprio l’accanimento terapeutico mirante a sbarazzarsene.

52 Chaplin-Hitler nel Grande dittatore. Chaplin è un grande esempio di attore-regista.

53 Helene Weigel, attrice indispensabile di Brecht e coautrice di suoi drammi.

54 [Senofonte], Sul sistema politico ateniese, I, 19-20. Il corpus aristofaneo è l’altra Athenaion Politeia.

55 Cioè Cleone. Cfr. Imperio, Parabasi di Aristofane cit., p. 179.

56 Cfr. Cornelio Nepote, Praefatio, 5.

57 Parte I, vol. 5, p. 268.

58 Ma Eschilo parrebbe aver recitato nei suoi propri drammi.

59 Scolio ad Aristofane, Nuvole, 554a: ὅτι συνεποίησεν Ἀριστοφάνει τοὺς Ἱππέας.

60 531: «Lo vedete andare in giro che farnetica e non avete pietà di lui!».

61 Fr. 213 K.-A.

62 Cioè ‘moderna’.

63 Wilamowitz-Moellendorff, Lysistrate cit., pp. 44-45.

64 Wilamowitz, Die griechische Literatur des Altertums, Teubner, Berlin-Leipzig [1905] 19072, p. 55.

65 Cfr. il commento di Kassel e Austin in PCG, V, p. 329 (fr. 65).