Le vecchie traduzioni inglesi di Anime morte2 sono assolutamente prive di valore e dovrebbero essere eliminate da tutte le biblioteche, pubbliche e private. Mentre scrivevo le osservazioni che formano questo libro, e dopo che mi ero dato la pena di tradurre io stesso i passi che mi servivano, il Readers’ Club di New York ha pubblicato una traduzione nuova di zecca di Anime morte fatta da B.G. Guerney. È un lavoro straordinariamente bello. Tuttavia l’edizione è guastata da due cose: una premessa ridicola scritta da uno dei membri del comitato editoriale del Club, e l’alterazione del titolo originale in I viaggi di Čičikov, ovvero Vita familiare nella vecchia Russia. Quest’ultima è particolarmente penosa se si ricorda che il titolo I viaggi di Čičikov fu imposto dalla censura dello Zar per la prima edizione russa, poiché «la Chiesa ci dice che le anime sono immortali e non si possono dire “morte”». Nel caso in questione un simile cambiamento è stato evidentemente indotto dal timore di suggerire idee cupe agli affezionati lettori di fumetti dalle rosee gote. Anche il sottotitolo, Vita familiare nella vecchia Russia, è una scelta infelice, dal momento che è preso da un’opera spuria, Vita domestica in Russia narrata da un nobile russo, rivista dal curatore di «Rivelazioni della Siberia» (London, Hurst and Blackett Publishers, eredi di Henry Colburn, 13 Great Marlborough Street, 1854), con la straordinaria avvertenza: «Proprietà letteraria riservata. L’editore si riserva i diritti di traduzione» e una breve introduzione che contiene i seguenti, non meno rimarchevoli passaggi:
«L’opera è scritta da un nobile russo, il quale offrì il manoscritto in inglese alla casa editrice, e il curatore si è limitato a intervenire su quegli errori d’espressione che erano del tutto prevedibili se si tiene presente che l’Autore ha scritto in una lingua non sua... Ci dà una visione delle condizioni e dei rapporti all’interno della società russa... L’Autore afferma che la storia è vera e che i suoi fatti principali sono ben conosciuti in Russia...
«... Per concludere, ci si può rammaricare di non essere liberi di menzionare il nome dell’Autore – non che l’opera in sé richieda qualche ulteriore verifica, giacché quasi ogni sua riga ne dichiara l’autenticità –, ma la verità è che lo scrittore è ancora ansioso di tornare al suo paese natale ed è perfettamente consapevole che l’aperta ammissione del suo operato e un tale sfoggio di forza satirica non serviranno certo come raccomandazione speciale, semmai forse come passaporto per le più remote e selvagge terre siberiane».
Si vorrebbe davvero conoscere l’identità di questo nobile russo che tradusse Anime morte (con l’aggiunta di vari addobbi vittoriani da parte del curatore) e che vendette questa roba a un editore inglese il quale, evidentemente, pensava di pubblicare memorie autentiche «che gettano luce sulla vita domestica dei nostri antichi alleati, ora nostri nemici». Quel nobile si chiamava forse Chlestakov? Era lo stesso Čičikov? A suo modo il libro di Gogol’ ha avuto un destino quanto mai gogoliano.
La lingua russa è capace di esprimere attraverso una parola impietosa l’idea di un certo difetto ampiamente diffuso, per il quale le altre tre lingue europee che mi accade di conoscere non possiedono alcun termine in particolare. L’assenza di una determinata espressione nel vocabolario di una nazione non necessariamente coincide con l’assenza della nozione corrispondente, ma di certo ne pregiudica la piena e pronta percezione. Vari aspetti dell’idea che i russi esprimono concisamente con il termine pošlost’ (l’accento espiratorio cade sulla vescia della prima sillaba, e la «t» finale ha un’umida morbidezza che a malapena è eguagliata dalla «t» francese in parole come restiez o émoustillant) sono divisi tra varie parole inglesi e così non formano un intero ben definito. A pensarci bene, trovo preferibile trascrivere quella grassa bestia di parola così: poshlust – che rende in un certo qual modo più adeguato il suono sordo della seconda, neutra, «o». Inversamente, la prima «o» è grossa tanto quanto il tonfo di un elefante che cade in uno stagno fangoso, e tonda quanto il seno di una bellezza al bagno su una cartolina illustrata tedesca.
Parole inglesi che esprimono, se non tutti, almeno alcuni aspetti della poshlust sono, per esempio: cheap, sham, common, smutty, pink-and-blue, high falutin’, in bad taste. Il mio piccolo assistente, il Roget’s Thesaurus (il quale, per inciso, elenca rats, mice sotto la voce «Insects» – si veda pagina 21 dell’edizione riveduta), mi dà, inoltre, inferior, sorry, trashy, scurvy, tawdry, gimcrack e altri sotto cheapness. Tutti questi termini, tuttavia, suggeriscono semplicemente dei falsi valori, scoprire i quali non richiede alcuna particolare sagacia. Di fatto esse, queste parole, tendono a fornire un’ovvia classificazione di valori in un dato periodo della storia umana; ma ciò che i russi chiamano poshlust è meravigliosamente senza tempo e così abilmente tutto pitturato di colori protettivi che la sua presenza (in un libro, in un’anima, in un’istituzione, in mille altri luoghi) spesso non si lascia scoprire.
Sin da quando la Russia cominciò a pensare, e fino al tempo in cui la sua mente si è spenta sotto l’influsso dello straordinario regime che essa ha patito negli ultimi venticinque anni, i russi colti, sensibili e di libero pensiero erano acutamente consapevoli del tocco furtivo e viscido della poshlust. Tra le nazioni con cui siamo venuti in contatto la Germania ci è sempre parsa un paese in cui la poshlust, invece di essere dileggiata, era parte essenziale dello spirito, dei costumi, delle tradizioni e dell’atmosfera generale della nazione, benché al tempo stesso gli intellettuali russi in buona fede e più inclini al romanticismo accogliessero prontamente, troppo prontamente, la leggenda della grandezza della filosofia e della letteratura tedesche; perché, diciamolo, ci vuole un super-russo per ammettere la tremenda vena di poshlust che scorre nel Faust di Goethe.
Esagerare l’insignificanza di un paese nel difficile momento in cui si è in guerra con esso – e lo si vorrebbe vedere distrutto fino all’ultimo boccale di birra e all’ultimo nontiscordardimé – significa camminare pericolosamente vicino a quell’abisso di poshlust che si spalanca senza limiti in tempi di guerra o di rivoluzione. Ma se ciò che si mormora con discrezione non è che una pacata verità prebellica, magari con una sfumatura démodé, l’abisso è forse evitabile. Così un centinaio di anni fa, mentre a San Pietroburgo i pubblicisti di forte spirito civico preparavano inebrianti cocktail di Hegel e Schlegel (con uno spruzzo di Feuerbach), Gogol’ espresse lo spirito immortale della poshlust che pervadeva la nazione tedesca in una storia raccontata per caso, e lo espresse con tutto il vigore del suo genio.
Intorno a lui la conversazione si era volta all’argomento Germania e, dopo aver ascoltato per un po’, Gogol’ disse: «Sì, in generale il tedesco medio non è molto gradevole; ma non si può immaginare niente di più sgradevole di un tedesco seduttore, un tedesco che fa il cascamorto, che vuol piacere... Ho incontrato una volta un seduttore del genere in Germania. La sua amata, che lui aveva corteggiato a lungo senza successo, abitava in riva a uno stagno e passava tutte le sere al balcone davanti a questo stagno, facendo la calza e godendosi nel contempo la natura. Il mio tedesco, vedendo l’inefficacia dei suoi tallonamenti, escogitò infine un mezzo infallibile per irretire il cuore dell’irremovibile tedesca... Figuratevi che ogni sera si spogliava, si buttava nello stagno e nuotava sotto gli occhi della sua amata abbracciando due cigni, da lui stesso predisposti allo scopo. Non so davvero, giuro, a cosa servissero quei cigni, so solo che per alcune sere di fila lui nuotò e si pavoneggiò davanti al sospirato balcone. Che ci vedesse qualcosa di antico, di mitologico, oppure contasse su qualche altra cosa, fatto sta che la faccenda si concluse a suo favore: la tedesca rimase davvero affascinata da quel seduttore e ben presto lo sposò».
Eccovi la poshlust nella sua forma ideale, ed è chiaro che termini come triviale, dozzinale, compiaciuto e così via non coprono l’aspetto che essa assume in quest’epica del biondo nuotatore e dei due cigni da lui vezzeggiati. Né è necessario viaggiare così lontano nello spazio e nel tempo per procurarsi dei buoni esempi. Aprite la prima rivista a portata di mano e siete sicuri di trovare qualcosa del tipo: un apparecchio radio (o una macchina, o un frigorifero, o un servizio da tavola d’argento – qualsiasi cosa andrà bene) è appena arrivato in una famiglia: la mamma congiunge le mani in stupefatta delizia, i bambini si affollano intorno tutti eccitati, Junior e il suo cane si sforzano di raggiungere il bordo del tavolo su cui sta l’Idolo in trono; anche la Nonna dalle raggianti rughe fa capolino da qualche parte sullo sfondo (dimentica, presumiamo, del terribile litigio avuto proprio quella mattina con la nuora); e un po’ in disparte – pollici allegramente infilati sotto le ascelle del panciotto, gambe larghe e occhi scintillanti – sta, trionfante, il Babbo, l’Orgoglioso Donatore.
La densa poshlust che emana da pubblicità di questo tipo si deve non al loro esagerare (o inventare) il valore di questo o di quell’altro oggetto utile ma al loro suggerire che l’acme della felicità umana sia comprabile, e che comprarlo in qualche modo nobiliti il compratore. Naturalmente il mondo che esse creano è abbastanza innocuo di per sé, giacché tutti sanno che è inventato dal venditore con il sottinteso che il compratore collaborerà alla finzione. Il lato divertente della cosa non è tanto che in quel mondo non rimanga alcunché di spirituale eccetto i sorrisi estatici di gente che serve o mangia cereali celestiali, né che sia un mondo in cui il gioco dei sensi segue regole borghesi («borghesi» in senso flaubertiano, non marxista), quanto, piuttosto, che si tratta di una sorta di mondo-ombra satellite, nella reale esistenza del quale né i venditori né i compratori credono davvero in cuor loro – specialmente in questo saggio e quieto paese.
Se un pubblicitario desidera disegnare un ragazzino dall’aria simpatica lo doterà di lentiggini (le quali, per inciso, nei fumetti di modesta qualità assumono un orribile aspetto esantematico). Qui la poshlust è in rapporto diretto con una dimenticata convenzione di tipo vagamente razziale. Anime gentili mandano ai nostri soldati solitari finte gambe calzate di seta e modellate su quelle delle bellezze di Hollywood, riempite di caramelle e di lamette per rasoi di sicurezza – perlomeno ho visto la foto di una persona che preparava una gamba del genere su un certo periodico che è un dispensatore di poshlust di fama mondiale. La propaganda (che non potrebbe esistere senza una generosa offerta e domanda di poshlust) riempie opuscoli di belle kolchoziane e di nuvole sospinte dal vento. Scelgo i miei esempi in fretta e a caso – l’Encyclopédie des idées reçues che Flaubert sognava di scrivere un giorno era opera ben più ambiziosa.
La letteratura è uno dei suoi migliori luoghi di riproduzione, e con letteratura-poshlust non intendo quella cosa chiamata pulp, o che in Inghilterra andava sotto il nome di penny dreadfuls e in Russia sotto quello di «stampa gialla». In modo abbastanza curioso, il trash manifesto contiene talvolta un ingrediente sano, che è prontamente colto dai bambini e dalle anime semplici. Superman è indubbiamente poshlust, ma lo è in una forma così attenuata e senza pretese che non vale la pena parlarne; e le favole di un tempo, se proprio, contenevano tanto sentimento triviale e tanta ingenua volgarità quanto queste fandonie su moderni Killer Giganti. La poshlust, lo si dovrebbe ripetere, è particolarmente vigorosa e malefica quando la simulazione non è manifesta e quando i valori cui fa il verso sono considerati, a torto o a ragione, come appartenenti al più alto livello dell’arte, del pensiero o dell’emozione. Sono i libri che vengono recensiti in maniera così poshlust nel supplemento letterario dei quotidiani – i best seller, i romanzi «stimolanti, profondi e belli»: sono questi libri «elevati e forti» che contengono e distillano l’essenza stessa della poshlust. Per caso ho qui sul tavolo la copia di un giornale con un’intera pagina in cui si pubblicizza un certo romanzo, il quale non è che un raggiro dall’inizio alla fine, e per il suo stile, e per le ponderose speculazioni su idee elevate, e per l’assoluta ignoranza di ciò che l’autentica letteratura è stata, è e sempre sarà. Questo romanzo mi ricorda bizzarramente il nuotatore che vezzeggiava i cigni, evocato da Gogol’. «Ti ci perdi dentro completamente» dice un recensore. «Voltata l’ultima pagina si ritorna al mondo della quotidianità un poco pensosi, come dopo una grande esperienza» (da notare il vezzoso «un poco» e il perfetto automatismo di «come dopo una grande»). «Un libro melodioso, ricco di grazia, di luce e di fascino, un libro di radiosità perlacea» sussurra un altro (anche quel nuotatore era «ricco di grazia» e anche i cigni avevano una «radiosità perlacea»); «L’opera di un maestro della psicologia che sa sondare abilmente i più reconditi recessi dell’animo umano». Questo «reconditi» (attenzione: non «esteriori»), e gli altri due o tre deliziosi dettagli già menzionati sono esattamente conformi al vero valore del libro. In effetti, la lode è perfettamente adeguata: lo «splendido» romanzo è «splendidamente» recensito e il cerchio della poshlust è completo – o lo sarebbe se le parole non si fossero prese una sottile rivincita e non avessero contrabbandato di nascosto la verità formando segretamente le combinazioni più insensate e stroncanti mentre recensore ed editore sono sicurissimi di stare lodando il libro «di cui il pubblico dei lettori (e qui segue una cifra enorme, indice evidente della quantità di copie vendute) ha fatto un trionfo». Perché nel regno della poshlust non è il libro a «fare un trionfo» ma «il pubblico dei lettori» che se lo beve avidamente, fascetta pubblicitaria e tutto.
Può anche darsi che il romanzo a cui mi riferisco qui in particolare sia stato un tentativo del tutto onesto e sincero (come si suol dire) da parte dell’autore di scrivere qualcosa che gli premeva molto – e davvero, forse, nessuna aspirazione al successo commerciale lo ha accompagnato nella sfortunata impresa. Il guaio è che la sincerità, l’onestà e persino la vera gentilezza del cuore non possono impedire che il demone della poshlust si impossessi della macchina da scrivere di un autore se l’uomo manca di genio e se il «pubblico dei lettori» è ciò che gli editori credono esso sia. La cosa terribile della poshlust è che si scopre quanto sia difficile spiegare alla gente perché un determinato libro che sembra traboccare di nobile emozione e compassione, e che riesce a trattenere l’attenzione del lettore «su un tema ben lontano dai dissonanti eventi del giorno», sia molto, molto peggio del tipo di letteratura che tutti ammettono essere scadente.
Dai vari esempi qui raccolti spero risulterà chiaro che poshlust è non solo ciò che è dozzinale in maniera ovvia ma anche il falsamente bello, il falsamente intelligente, il falsamente seducente. Un elenco di personaggi letterari che personificano la poshlust (e, perciò, denominabili con il russo pošljaki in caso di maschi e pošljački in caso di femmine – e rispettivamente rimanti con key e latchkey) includerà Polonio e la coppia reale in Amleto, Rodolphe e Homais di Flaubert, Laevskij nel Duello di Čechov, Marion Bloom di Joyce, il giovane Bloch in À la recherche du temps perdu, il «Bel Ami» di Maupassant, il marito di Anna Karenina, Berg in Guerra e pace e numerose altre figure della narrativa universale. I critici russi progressisti videro in Anime morte e nel Revisore una condanna della poshlust sociale fiorente nella provincia russa burocratica e ancora feudale, e così persero di vista il punto essenziale. Gli eroi di Gogol’ solo per caso sono signorotti e funzionari russi; l’ambiente e le condizioni sociali immaginati per loro sono fattori perfettamente irrilevanti – così come Monsieur Homais potrebbe essere un uomo d’affari di Chicago o Mrs Bloom la moglie di un maestro di scuola a Vyšnij-Voločëk. Inoltre, il loro ambiente e le loro condizioni, qualunque cosa possano essere stati nella «vita reale», hanno subito tali cambiamenti e ricostruzioni nel laboratorio del peculiare genio di Gogol’ (come si è già osservato a proposito del Revisore) che è tanto inutile cercare in Anime morte un autentico background russo quanto lo sarebbe tentare di formarsi un’idea della Danimarca sulla base di quel fatterello accaduto nella nebulosa Elsinore. E se si vogliono «fatti» allora indaghiamo quale esperienza abbia avuto Gogol’ della Russia di provincia. Otto ore in una locanda di Podol’sk, una settimana a Kursk, il resto lo aveva visto dal finestrino della vettura su cui viaggiava, e a ciò aveva aggiunto i ricordi della sua gioventù essenzialmente ucraina trascorsa a Mirgorod, Nežin, Poltava – tutte città che stavano ben fuori dall’itinerario di Čičikov. Ciò che pare vero, tuttavia, è che Anime morte fornisce al lettore attento una collezione di enfie anime morte appartenenti a pošljaki e pošljački, descritte con quel gusto e quella ricchezza di dettagli bizzarri, caratteristici di Gogol’, che sollevano il tutto al livello di uno straordinario poema epico; e «poema» è, di fatto, l’acuto sottotitolo aggiunto da Gogol’ ad Anime morte. Vi è qualcosa di lucido e di carnoso nella poshlust, e questa patinatura, queste curve morbide attraevano l’artista che era in Gogol’. L’immenso, sferico pošljak (al singolare) Pavel Čičikov che si mangia il fico messo in fondo al latte preparato per ammorbidirsi la gola, o che balla in camicia da notte nel mezzo della stanza mentre gli oggetti sugli scaffali tremano in risposta alla sua lacedemone giga (che lui conclude assestandosi un colpetto estatico al paffuto didietro – la sua vera faccia – con il roseo calcagno del piede nudo, e proiettandosi così nel vero paradiso delle anime morte): queste sono visioni che trascendono le varietà minori di poshlust discernibili nei prosaici sobborghi di provincia o nelle meschine iniquità di meschini funzionari. Ma anche un pošljak dalle colossali dimensioni di Čičikov inevitabilmente ha, da qualche parte dentro di sé, un buco, una crepa attraverso cui si vede il verme, il piccolo stolto raggrinzito che giace, tutto rannicchiato, nella profondità del vuoto dipinto di poshlust. C’era qualcosa di vagamente stupido, fin dall’inizio, nell’idea di fare incetta di anime morte – anime di servi morti dopo l’ultimo censimento, e per i quali i proprietari continuavano a pagare il testatico dotandoli, così, di una sorta di esistenza astratta che tuttavia era sentita assai concretamente dalle tasche del possidente, e che poteva essere altrettanto «concretamente» sfruttata da Čičikov, il compratore di tali fantasmi. Questa piccola ma alquanto nauseante stupidità rimane per un certo periodo nascosta nel labirinto di complesse macchinazioni. Sotto il profilo morale era difficile dire che Čičikov fosse colpevole di un qualche crimine particolare nel suo tentativo di far incetta di morti in un paese in cui i vivi venivano legalmente comprati e dati in pegno. Se mi dipingo la faccia di blu di Prussia preparato in casa invece di applicare il blu di Prussia venduto dallo Stato e che non può essere prodotto in privato da un individuo, il mio crimine a malapena meriterà un rapido sorriso e nessuno scrittore ne farà una Tragedia Prussiana. Ma se ho circondato l’intera faccenda di una certa dose di mistero e ho sfoggiato una bravura pari alle notevoli difficoltà incontrate nel perpetrare un crimine di quel tipo, e se, avendo permesso a un vicino ciarliero di sbirciare i miei vasi di pittura fatta in casa, vengo arrestato e sono maltrattato da uomini con facce blu autentiche, allora, per quel che vale, sono io a coprirmi di ridicolo. Malgrado la fondamentale irrealtà di Čičikov in un mondo fondamentalmente irreale, lo stolto in lui è palese perché sin dall’inizio prende una cantonata dietro l’altra. Era stupido cercare di comprare anime morte da una vecchia che aveva paura dei fantasmi; era un’incredibile caduta di acume proporre una transazione economica così ambigua allo spaccone e arrogante Nozdrëv. Lo ripeto, tuttavia, a beneficio di coloro a cui piace che i libri diano loro «gente vera» e «vero crimine» e un «messaggio» (quell’orrore degli orrori preso a prestito dal gergo dei riformatori quaccheri): Anime morte non li condurrà da nessuna parte. Poiché la colpa di Čičikov è una faccenda puramente formale, il suo destino può a stento provocare una qualche reazione emotiva da parte nostra. Questa è una ragione in più per cui l’opinione di lettori e critici russi che vedevano in Anime morte una descrizione fattuale delle condizioni esistenti appare così completamente e ridicolmente sbagliata. Ma quando il leggendario pošljak Čičikov viene considerato come si dovrebbe, cioè come una creatura della speciale marca Gogol’, che si muove in un tipo speciale di spira gogoliana, allora in questa faccenda di servi della gleba dati in pegno l’astratta nozione di truffa assume una strana corposità e incomincia a significare molto più di quanto significasse quando la si considerava alla luce delle condizioni sociali peculiari della Russia di un centinaio di anni fa. Le anime morte che egli sta comprando non sono semplicemente nomi su un foglietto di carta. Queste anime morte, che riempiono l’aria del mondo di Gogol’ della loro vibrazione coriacea, sono le goffe animule di Manilov o della Korobočka, delle massaie della città di NN, di innumerevoli altri omini che saltano fuori dall’intero libro. Čičikov stesso altro non è che il malpagato rappresentante del Diavolo, un commesso viaggiatore dell’Ade, «il nostro signor Čičikov», così come si può immaginare che la ditta Satana & Co. chiami questo agente facilone, dall’aspetto sano ma, dentro, tremante e marcescente. La poshlust personificata da Čičikov è uno dei principali attributi del Diavolo nella cui esistenza, aggiungiamolo pure, Gogol’ credeva molto più seriamente di quanto non credesse in Dio. La crepa nella corazza di Čičikov, quella crepa arrugginita che emette un odore debole ma tremendo (una scatoletta di aragosta bucata, manomessa e poi dimenticata in dispensa da qualche stupido ficcanaso), è l’apertura organica della corazza del diavolo. È l’essenziale stupidità della poshlust universale.
Čičikov è condannato sin dall’inizio e rotola verso il suo destino con quel leggero ondeggiare nell’andatura che solo i pošljaki e le pošljački della città di NN possono trovare elegante e gradevole. Nei momenti decisivi, quando si lancia in una delle sue tirate sentenziose (con una vaga incrinatura nella voce succosa – un tremulo «cari fratelli»), al fine di annegare le sue reali intenzioni in una melassa di pathos, egli applica a se stesso le parole «verme spregevole» e, fatto abbastanza curioso, un vero verme gli sta erodendo gli organi vitali e diventa improvvisamente visibile se, scrutando la sua rotondità, strizziamo un po’ gli occhi. Mi viene in mente un certo manifesto pubblicitario nella vecchia Europa che reclamizzava pneumatici per automobili e ritraeva qualcosa di simile a un essere umano fatto interamente di anelli di gomma concentrici; e, in modo analogo, il rotondo Čičikov si può dire sia formato dalle aderenti pieghe di un enorme verme color carne.
Se si è riusciti a rendere lo speciale carattere macabro che accompagna il tema principale del libro, e se i vari aspetti di poshlust che io ho annotato in ordine sparso si sono legati tra loro in modo tale da formare un fenomeno artistico (il cui Leitmotiv gogoliano è la «rotondità» della poshlust), allora Anime morte cesserà di fare il verso a un racconto umoristico o a un atto di denuncia sociale e d’ora innanzi potrà essere discusso in maniera adeguata. Quindi, proviamo a osservarne il disegno un po’ più da vicino.
«Nel portone di un albergo della città di NN, capoluogo di governatorato, entrò una brička a molle abbastanza bella, non molto grande, di quelle su cui viaggiano gli scapoli: tenenti colonnelli a riposo, capitani in seconda, proprietari terrieri con un centinaio di anime di contadini, insomma, tutti quelli che vengono chiamati signori di media levatura. Nella brička sedeva un signore – non una bellezza, ma neanche di brutto aspetto, né troppo grasso, né troppo sottile; non si può dire che fosse vecchio, però neanche proprio tanto giovane. Il suo ingresso non produsse in città assolutamente nessun rumore e non fu accompagnato da niente di particolare; solo due mužik russi che stavano sulla porta della bettola di fronte all’albergo fecero alcune osservazioni, riferite, d’altronde, più alla vettura che a chi ci stava dentro. “Però,” disse uno a quell’altro “guarda che ruota! Cosa dici, quella ruota ci arriva, in caso, fino a Mosca, o non ci arriva?”. “Ci arriva” rispose l’altro. “A Kazan’, invece, per me non ci arriva, eh?”. “A Kazan’ non ci arriva” rispose l’altro. Qui la conversazione terminò. E ancora, quando il calessino arrivò all’albergo, incrociò un giovanotto con pantaloni bianchi di cotonina molto stretti e corti e un frac con velleità di moda, sotto al quale si vedeva la pettorina fissata con una spilla di Tula a mo’ di pistola di bronzo. Il giovanotto si voltò, guardò il calesse, trattenne con la mano il berretto che quasi volava via per il vento, e se ne andò per la sua strada».
La conversazione dei due «mužik russi» (un tipico pleonasmo gogoliano) è puramente speculativa – cosa che nelle abominevoli traduzioni di Fisher Unwin e di Thomas Y. Crowell, naturalmente, va perduta. È una sorta di meditazione sul genere «essere o non essere» in forma primitiva. Coloro che parlano non sanno se la brička sia diretta a Mosca oppure no, proprio come Amleto non si dava la pena di guardare se, per caso, avesse o non avesse smarrito il suo stiletto. I mužik non sono interessati alla questione riguardante il preciso itinerario che la brička seguirà; ciò che li affascina è unicamente il problema ideale di fissare l’instabilità immaginaria di una ruota in termini di distanze immaginarie; e questo problema è innalzato a un livello di sublime astrazione dal fatto che essi non conoscono l’esatta distanza da NN (un punto immaginario) a Mosca, Kazan’ o Timbuctù – e dal fatto che non gliene potrebbe importare di meno. Essi incarnano la notevole abilità creativa dei russi, tanto meravigliosamente rivelata dall’ispirazione stessa di Gogol’, di agire in un vuoto. La fantasia è fertile solo quando è futile. La speculazione dei due mužik non è basata su nulla di tangibile e non porta ad alcun risultato materiale; d’altronde la filosofia e la poesia sono nate così. Critici intriganti in cerca di una morale potrebbero congetturare che la rotondità di Čičikov sia destinata a finir male, essendo simboleggiata dalla rotondità di quella ruota incerta. Andrej Belyj, che era un intrigante di genio, vedeva l’intero primo volume di Anime morte come un cerchio chiuso che vortica sul suo asse rendendo indistinguibili i raggi, con il tema della ruota che riaffiora a ogni nuova rotazione del rotondo Čičikov. Un altro tocco straordinario è il passante casuale – quel giovane ritratto con un’improvvisa e del tutto irrilevante messe di dettagli: arriva lì come se fosse intenzionato a restare nel libro (cosa che molti omuncoli di Gogol’ sembrano decisi a fare – e non fanno). Con qualsiasi altro scrittore del suo tempo il paragrafo successivo sarebbe stato destinato a iniziare così: «Ivan, giacché quello era il nome del giovane»... Invece no: una folata di vento interrompe il suo guardare fisso e lui se ne va, per non essere mai più menzionato. Nel passo successivo il servitore senza volto dell’albergo (i cui movimenti nel dare il benvenuto ai nuovi arrivati sono così veloci che non si riesce a discernerne i tratti) ricompare un minuto dopo venendo giù dalla stanza di Čičikov e compitando a voce alta il nome scritto su un foglietto di carta mentre scende i gradini. «Pa-vel I-va-no-vič Či-či-kov»; e queste sillabe hanno un valore tassonomico ai fini dell’identificazione di quella particolare scala.
Parlando del Revisore mi sono dilettato a radunare quei personaggi periferici che danno vita alla tessitura del suo sfondo. In Anime morte personaggi simili, quali il servitore della locanda o il servitore personale di Čičikov (con quel suo odore peculiare che egli trasmetteva subito a qualunque camera in cui si trovasse alloggiato), non appartengono del tutto alla medesima categoria di Omuncoli. Con lo stesso Čičikov e con i possidenti di campagna ch’egli incontra essi condividono il proscenio del libro, benché parlino poco e non abbiano un’influenza visibile sul corso delle avventure di Čičikov. Tecnicamente parlando, la creazione di personaggi periferici nella pièce dipendeva in primo luogo dalle allusioni che questo o quel personaggio faceva a gente che non emergeva mai da dietro le quinte. In un romanzo personaggi secondari privi di parola e di azione non potrebbero vivere di vita propria neppure dietro le quinte, giacché qui non c’è una ribalta a sottolineare la loro assenza sul proscenio. Gogol’, tuttavia, aveva un altro asso nella manica. I personaggi periferici del suo romanzo vengono generati dalle proposizioni subordinate delle varie metafore, similitudini ed esplosioni liriche in esso contenute. Siamo di fronte a un fenomeno stupefacente per cui mere forme discorsive generano direttamente creature vive. Quello che segue è forse l’esempio più rappresentativo di come ciò accada:
«Il tempo stesso, perfino, giocò molto opportunamente a favore: la giornata era non proprio serena né proprio cupa, ma di quella specie di colore grigiochiaro che hanno solo le vecchie finanziere dei soldati di guarnigione – quel battaglione pacifico d’altronde, ma in parte brillo nei giorni festivi».
Non è facile rendere le curve di questa sintassi generatrice di vita in un inglese piano, così da colmare lo iato logico, o piuttosto biologico, tra un panorama sbiadito sotto un cielo opaco e un vecchio soldato ubriaco che accosta il lettore con un sonoro singhiozzo sul ciglio festivo che chiude il periodo. Il trucco di Gogol’ consiste nell’usare come elemento connettivo la parola vpročem (d’altronde, altrimenti, d’ailleurs) che è una connessione solo in senso grammaticale, ma che mima un legame logico. La parola «soldati» da sola, infatti, fornisce un pretesto debole per la giustapposizione con «pacifico» e, non appena il ponte fasullo di vpročem ha realizzato la sua magica opera, questi miti guerrieri lo attraversano barcollando e portandosi con il canto in quell’esistenza periferica che ci è già familiare.
Quando Čičikov va a un ricevimento a casa del Governatore, la casuale menzione di gentiluomini in giacca nera che si affollano attorno a signore incipriate sotto una luce sfolgorante conduce a una similitudine in apparenza innocente con delle mosche ronzanti – e proprio nell’istante successivo irrompe un’altra vita:
«I frac neri balenavano e correvano separatamente e a grappoli qua e là, come corrono le mosche sul bianco, rilucente zucchero raffinato, d’estate, un caldo luglio, quando la vecchia dispensiera [eccoci!] lo spezza e lo divide in frammenti scintillanti, davanti a una finestra aperta; i bambini [seconda generazione, adesso!], riunitisi intorno, guardan tutti, seguono curiosi i movimenti e i gesti delle sue mani che sollevano il martello, e gli squadroni aerei delle mosche, portati da un’aria leggera [una di quelle ripetizioni così innate nello stile di Gogol’ che anni di lavoro su ogni singolo passo non riuscirono a sradicarla], volano senza esitazioni, da veri padroni [o, letteralmente: “vere padrone di casa”, polnye kozjajki, che Isabel F. Hapgood, nell’edizione Crowell, traduce, sbagliando, con “grasse casalinghe”], e, approfittando della debole vista della vecchia e del sole che le disturba gli occhi, calano sui ghiotti bocconi, dove alla rinfusa, dove a fitti grappoli».
Si noterà che mentre l’immagine del tempo fosco, con in più il soldato di cavalleria sbronzo, termina da qualche parte nella polverosa lontananza della periferia (dove regna Uchovërtov, il Torciorecchio), qui, nella similitudine delle mosche, che è una parodia dell’errante similitudine omerica, viene descritto un cerchio completo e, dopo un complicato e pericoloso salto mortale, senza alcuna rete stesa sotto di lui – come invece hanno altri autori acrobatici –, Gogol’ riesce a rigirarsi e a tornare all’iniziale «separatamente e a grappoli». Parecchi anni fa, durante una partita di rugby in Inghilterra vidi lo stupefacente Obolensky calciare via la palla in corsa per poi cambiare idea, tuffarsi in avanti e afferrarla di nuovo con le mani... un’impresa del genere è realizzata da Nikolaj Vasil’evič. Inutile dire che tutte queste cose (di fatto, interi paragrafi e intere pagine) furono eliminate dal signor T. Fisher Unwin che, con «considerevole gioia» del signor Stephen Graham (si veda la prefazione all’edizione del 1915, Londra), acconsentì a ripubblicare Anime morte. Per inciso Graham pensava che «Anime morte è la Russia stessa» e che Gogol’ «divenne un uomo ricco e poté svernare a Roma e a Baden-Baden».
L’energico abbaiare di cani che accoglie Čičikov mentre costui si avvicina in calesse alla casa di Madame Korobočka si rivela egualmente fertile:
«Nel frattempo i cani si profondevano in tutte le voci possibili: uno, levando in alto la testa, tirava fuori un suono così prolungato, e con tale zelo, come se ne ricavasse lo sa Iddio quale ricompensa; un altro se la sbrigava in fretta, come un sagrestano; in mezzo a loro risuonava, come il campanello del postale, un’instancabile voce bianca, probabilmente un giovane cucciolo, e tutto, infine, era sovrastato da un basso, forse un vecchio dotato di una robusta natura canina, perché aveva la voce roca come ce l’ha roca un basso profondo in un coro, quando il concerto è al culmine; i tenori si sollevano sulle punte dei piedi per il forte desiderio di tirar fuori una nota alta, e tutto tende verso l’alto, tutti rovesciano la testa, e lui solo, affondando il mento non rasato nella cravatta, accosciandosi e abbassandosi fin quasi a terra, emette da lì la sua nota, che fa tremare e tintinnare i vetri».
Così l’abbaiare di un cane genera un corista di chiesa. In un altro passo ancora (là dove Pavel giunge alla casa di Sobakevič) nasce un musicista in un modo più complicato, che ci ricorda la similitudine «cielo fosco – soldato sbronzo».
«Avvicinandosi al terrazzino d’ingresso notò due facce che avevano fatto capolino alla finestra quasi in contemporanea: una femminile, con la cuffia, sottile, lunga, come un cetriolo, e una maschile, tonda, larga, come le zucche moldave chiamate gorljanki, con le quali nella Rus’ fanno le balalaiche, le leggere balalaiche a due corde, ornamento e sollazzo del baldanzoso giovanotto ventenne, sfrontato e vanesio, che ammicca e fischia dietro alle ragazze dai seni e il collo bianchi, radunate ad ascoltare il lieve strimpellio delle sue corde». (Nella traduzione di Isabel Hapgood questo giovane villano viene trasformato in un «suscettibile ventenne che cammina ammiccante con quel suo modo da dandy»).
La complicata manovra eseguita dalla frase per far uscire dalla testa robusta di Sobakevič un musico di paese consiste di tre stadi: il paragonare quella testa a un particolare tipo di zucca, il trasformare quella zucca in un particolare tipo di balalaica, e infine il porre quella balalaica nelle mani di un giovane paesano che inizia subito a suonare piano mentre siede a gambe incrociate su un tronco (nei suoi stivaloni nuovi di zecca), circondato dai moscerini del tramonto e da giovani campagnole. Di particolare rilievo è il fatto che questa digressione lirica viene suggerita dalla comparsa del personaggio che al lettore casuale può sembrare il più pragmatico e imperturbabile del libro.
Talvolta il personaggio generato da una comparazione ha una tale fretta di unirsi alla vita del libro che la metafora finisce in un delizioso anticlimax:
«Chi annega, dicono, si aggrappa anche a una piccola scheggia, e in quel momento non ha il buon senso di pensare che su quel ramoscello ci può forse andare a cavallo una mosca, mentre lui pesa quasi quattro pud, se non addirittura cinque tondi».
Chi è quello sventurato bagnante che cresce costantemente e in modo inquietante, che mette su peso, che si impingua con il midollo della metafora? Non lo sapremo mai – ma quasi ci riusciva, a poggiare il piede a terra.
Il metodo più semplice che questi personaggi periferici impiegano per affermare la loro esistenza è avvantaggiarsi del modo in cui l’autore pone l’accento su questa o quella circostanza, o condizione, illustrandola con dettagli che colpiscono. La scena incomincia a vivere di vita propria – più o meno come accade nel racconto Il ritratto di H.G. Wells, in cui un pittore lotta a colpi di pennello e schizzi di pittura verde con il ritratto di un suonatore d’organetto dallo sguardo maligno, che si è animato di vita turbolenta. Si osservi, per esempio, la fine del capitolo 7, il cui intento è quello di trasmettere le impressioni della notte che cade su una quieta cittadina di provincia. Čičikov, dopo aver concluso con successo il suo spettrale accordo con i proprietari terrieri, è stato intrattenuto dai notabili della città e si corica assai ubriaco; il suo cocchiere e il suo servo se la filano zitti zitti a far bisboccia per conto loro, poi ritornano barcollanti alla locanda, sorreggendosi l’un l’altro con grande cortesia, e subito se ne vanno anch’essi a dormire, «levando un russare di inaudita densità, al quale il padrone dall’altra stanza rispondeva con un sottile fischio di naso. Ben presto dietro a loro tutti si placarono, e la locanda fu avvolta da un sonno di piombo; solo in una finestrella si vedeva ancora luce, dove stava un tenente arrivato da Rjazan’, evidentemente un gran fanatico di stivali, perché ne aveva già ordinate quattro paia e se ne provava senza sosta un quinto. Più volte si era avvicinato al letto per toglierseli e coricarsi, ma non ce la faceva proprio: gli stivali erano davvero ben cuciti, e lui continuò a lungo ancora a sollevare il piede e contemplare il tacco fiero, applicato a meraviglia».
Così termina il capitolo – e quel tenente è ancora lì che si prova i suoi immortali stivaloni, e il cuoio brilla, e la candela brucia dritta e lucente nell’unica finestra illuminata di una morta città, nel cuore di una notte spruzzata di stelle. Non conosco descrizione della quiete notturna più lirica di questa Rapsodia degli Stivali.
Lo stesso tipo di generazione spontanea si ha nel capitolo 9, quando l’autore desidera trasmettere con particolare forza il montante trambusto provocato in tutta la provincia dalle chiacchiere intorno all’acquisizione di anime morte. Signorotti di campagna che da anni giacevano raggomitolati nei loro buchi come tanti ghiri, all’improvviso sbattono gli occhi e strisciano fuori:
«Comparvero un certo Sysoj Pafnut’evič e un Makdonal’d Karlovič [un nome a dir poco singolare, ma qui è necessario a sottolineare l’assoluta distanza dalla vita e la conseguente irrealtà di questo personaggio, un sogno in un sogno, per così dire], dei quali non si era neanche mai sentito parlare; nei salotti spuntò fuori un tipo lungo lungo, con una mano trapassata da una pallottola, così alto di statura che uno simile non s’era mai visto».
Nello stesso capitolo, dopo aver spiegato a lungo che non farà nomi – giacché «qualunque nome ti inventi, in qualche angolo del nostro Stato, grande com’è, si troverà senz’altro qualcuno che lo porta e che senz’altro si arrabbierà; e non per scherzo, ma sul serio si metterà a dire che l’autore è arrivato apposta in segreto per scoprire tutto di lui...» –, Gogol’ non riesce a impedire alle due garrule signore che ha avviato alle chiacchiere sul mistero Čičikov di divulgare i loro nomi, come se i personaggi effettivamente sfuggissero al suo controllo e spifferassero ciò che lui desiderava nascondere. Tra parentesi, uno di quei passi quasi scoppia di omini che ruzzolano fuori spargendosi su tutta la pagina (o che si mettono a cavalcioni della penna di Gogol’ come una strega che cavalca un manico di scopa) e ci ricorda, in modo curiosamente anacronistico, una certa intonazione e un certo stratagemma stilistico usati da Joyce in Ulisse (ma, allora, anche Sterne usava il metodo della domanda repentina e della risposta circostanziata).
«Il nostro eroe, tuttavia, questo fatto non l’aveva assolutamente notato [cioè il fatto che, con il suo imbonimento sentenzioso, stava annoiando una certa signorina al ballo], mentre continuava a raccontare una gran quantità di cose piacevoli che gli era già capitato di raccontare in circostanze simili, in posti diversi, e per la precisione: nel Governatorato di Simbirsk da Sofron Ivanovič Bezpečnyj, dove c’erano quella volta sua figlia Adelaida Sofronovna con le tre sorelle del marito: Mar’ja Gavrilovna, Aleksandra Gavrilovna e Adel’gejda Gavrilovna; da Fëdor Fëdorovič Perekroev nel Governatorato di Rjazan’; da Frol Vasil’evič Pobedonosnyj nel Governatorato di Penza e da suo fratello Pëtr Vasil’evič, dove c’erano la sorella di sua moglie Katerina Michajlovna con le nipotine, le sorelle Roza Fëdorovna ed Èmilija Fëdorovna; nel Governatorato di Vjatka da Pëtr Varsonof’evič, dove c’era la sorella della sua fidanzata Pelageja Egorovna con la nipote Sof’ja Rostislavna e le due sorellastre Sof’ja Aleksandrovna e Maklatura Aleksandrovna».
Attraverso alcuni di questi nomi scorre quella curiosa vena straniera (nel caso specifico, quasi-tedesca) a cui Gogol’ in genere ricorre per comunicare un senso di lontananza e distorsione ottica come quello causato dalla caligine; sono stravaganti nomi ibridi, adatti a persone senza forma o non ancora completamente formate; e mentre il gentiluomo di campagna Bezpečnyj e il signorotto Pobedonosnyj sono, come dire, nomi solo leggermente ubriachi (significando «Indifferente» e «Vittorioso»), l’ultimo della lista è un’apoteosi di nonsenso da incubo, vagamente echeggiata dallo scozzese russo Makdonal’d Karlovič, ammirato in precedenza. Non si riesce a concepire che razza di mente si debba avere per ravvisare in Gogol’ un precursore della «scuola naturale» e un «pittore realistico della vita russa».
Non solo le persone, ma anche le cose indulgono a queste orge nomenclatorie. Osservate i vezzeggiativi che i funzionari della città di NN danno alle loro carte da gioco. Červi significa «cuori», ma suona anche molto come «vermi» e, data l’inclinazione russa a tirare una parola fino alla sua estensione massima per amore di enfasi emotiva, diventa červotočina, che significa torsolo mangiato dal verme. Piki, «picche» – piques in francese – diventa pikencija, cioè assume una buffa terminazione da latino maccheronico; oppure si producono variazioni come pikendras (fasulla terminazione greca) o pičura (con vaga connotazione ornitologica), a volte ingrandito in pičuruščuk (l’uccello che diventa, come dire, una lucertola antidiluviana, rovesciando così l’ordine dell’evoluzione naturale). La totale volgarità e l’automatismo di questi grotteschi soprannomi, perlopiù inventati da Gogol’ stesso, lo attraevano in quanto mezzi eccellenti per svelare la mentalità di coloro che li usavano.
La differenza tra la visione umana e l’immagine percepita dall’occhio sfaccettato di un insetto può essere paragonata alla differenza tra un cliché a mezzatinta ottenuto con il retino più fine e la medesima immagine realizzata con la schermatura a grana grossa, quella che si usa nella riproduzione illustrata dei comuni giornali. La stessa relazione esiste tra il modo in cui vedeva le cose Gogol’ e il modo in cui vedono le cose i lettori ordinari e gli scrittori ordinari. Prima dell’avvento suo e di Puškin la letteratura russa era praticamente cieca. La forma che percepiva era un profilo guidato dalla ragione: non vedeva il colore in sé, ma semplicemente usava le trite combinazioni di sostantivi ciechi e aggettivi fedeli come cani che l’Europa aveva ereditato dagli antichi. Il cielo era azzurro, l’alba rossa, il fogliame verde, gli occhi della bellezza neri, le nuvole grigie e così via. Fu Gogol’ (e, dopo di lui, Lermontov e Tolstoj) a vedere per primo che esistevano il giallo e il violetto. Che il cielo potesse essere verde pallido al sorgere del sole, o la neve di un azzurro intenso in un giorno sgombro di nuvole, sarebbe suonato come una sciocca eresia allo scrittore cosiddetto «classico», abituato com’era ai rigidi e convenzionali schemi coloristici della scuola letteraria francese del secolo XVIII. Così, lo sviluppo dell’arte della descrizione attraverso i secoli può essere utilmente trattato in termini di visione: l’occhio sfaccettato diventa un organo unitario e prodigiosamente complesso e i morti, opachi «colori accettati» (nel senso di «idées reçues») cedono gradualmente le loro sottili sfumature e permettono nuove meravigliose applicazioni. Dubito che un qualsiasi scrittore, e certamente non in Russia, abbia mai notato prima, tanto per dare l’esempio più incisivo, il disegno mobile di luce e ombra sul terreno sotto gli alberi o i magici effetti di colore creati dal gioco della luce solare sulle foglie. La seguente descrizione del giardino di Pljuškin in Anime morte sconvolse i lettori russi allo stesso modo in cui Manet sconvolse i basettati filistei del suo tempo.
«Un vecchio, vasto parco, che si stendeva sul retro della casa prolungandosi fin oltre il villaggio e perdendosi poi nei campi, invaso dalla vegetazione e inselvatichito, sembrava da solo rinfrescare quella vasta tenuta, e da solo riusciva a essere suggestivo nel suo pittoresco abbandono. In nuvole verdi e cupole irregolari di foglie tremule si adagiavano sull’orizzonte celeste le cime intrecciate degli alberi cresciuti in libertà. Un bianco, colossale tronco di betulla privo della cima, spezzata da una tempesta o da un fulmine, si levava nel fitto del verde e tondeggiava nell’aria come un’armonica, splendente colonna di marmo; la spaccatura obliqua, appuntita, con cui terminava in alto al posto del capitello, spiccava scura sul suo niveo biancore, come un berretto o un uccello nero. Il luppolo, che soffocava in basso i cespugli di sambuco, di sorbo e di nocciolo selvatico, e poi correva lungo la cima di tutto lo steccato, si lanciava infine verso l’alto e avvinghiava fino a metà la betulla spezzata. Raggiunta la metà, da lì si lasciava penzolare e cominciava ad agganciare le cime di altri alberi, oppure pendeva nell’aria, arricciando in anelli i suoi sottili uncini prensili, cullati lievemente dall’aria. Qua e là verdi macchie boschive, illuminate dal sole, si aprivano e mostravano in mezzo una cavità ombrosa che si spalancava come fauci scure; era tutta avvolta nell’ombra, e nella sua nera profondità balenavano appena: uno stretto sentiero che correva via, balaustre in rovina, un chiosco barcollante, un decrepito, cavernoso tronco di salice, un arbusto canuto che spingeva fuori da dietro il salice, come fitte setole, foglie e rami rinsecchiti per quel folto tremendo, aggrovigliati e intrecciati, e infine un giovane ramo di acero, che protendeva di lato le sue verdi zampe-foglie, sotto una delle quali s’era intrufolato Dio sa come il sole, trasformandola d’un tratto in trasparente e infuocata, prodigiosamente splendente in quella densa oscurità. In disparte, proprio sul limitare del parco, alcuni pioppi d’alto fusto, che sovrastavano gli altri, sollevavano enormi nidi di corvi sulle cime vibranti. Su alcuni di loro, rami spezzati ma non del tutto staccati pendevano assieme alle foglie ormai secche. In una parola tutto era bello, come né la natura né l’arte possono concepirlo, ma come accade solo quando esse si uniscono insieme, quando sul lavoro dell’uomo, affastellato spesso senza senso, la natura dà il tocco finale col suo scalpello, alleggerisce le masse troppo pesanti, elimina la grezza regolarità e le misere crepe attraverso le quali si intravede un malcelato, nudo progetto, e dà un meraviglioso calore a tutto quel che era nato nel freddo di una misurata pulizia e accuratezza».
Non voglio certo sostenere che la mia traduzione sia particolarmente buona o che i suoi impacci corrispondano alla scarmigliata grammatica di Gogol’, ma perlomeno è precisa rispetto al senso. È divertente dare uno sguardo alla confusione che i miei predecessori hanno fatto con questo passo meraviglioso. Isabel Hapgood (1885), per esempio, che almeno tentò di tradurlo per intero, accumula cantonata su cantonata, facendo diventare la russa «betulla» un per niente endemico «faggio», il «pioppo» un «frassino», il «sambuco» un «lillà», l’«uccello scuro» un «merlo», lo «spalancare» (zijavšee) un «brillare» (che sarebbe stato sijavšee), e così via.
I vari attributi dei personaggi aiutano a espanderli, per così dire, sfericamente fino alle più remote regioni del libro. L’aura di Čičikov è prolungata e simboleggiata dalla sua tabacchiera e dalla sua cassetta da viaggio; da quella «tabacchiera di smalto e d’argento» che egli offriva generosamente a tutti e sul fondo della quale la gente poteva intravedere una coppia di violette poste lì con delicatezza per aggiungere un po’ di profumo (proprio al modo in cui egli era solito, la domenica mattina, strofinare il suo corpo subumano e osceno, bianco e grassoccio come quello di una grassa larva di tarlo, con acqua di colonia – l’ultima nauseante zaffata dei traffici di contrabbando nascosti nel suo passato): perché Čičikov è un falso, un fantasma rivestito da una rotondità carnosa pseudo-pickwickiana, che cerca di soffocare l’abietto fetore dell’inferno che lo permea (qualcosa di ben peggiore dell’«odore naturale» del suo volubile servo) con stucchevoli profumi graditi ai grotteschi nasi degli abitanti di quella città da incubo. E poi la cassetta da viaggio:
«L’autore è convinto che ci siano lettori così curiosi da desiderare persino di conoscere il piano e la disposizione interna della cassetta. Ma sì, perché non accontentarli! Eccola, la disposizione interna...».
E senza aver avvisato il lettore che quel che segue non è affatto una cassetta ma un girone dell’inferno e l’esatta controparte dell’anima orribilmente rotonda di Čičikov (e che quanto lui, l’autore, sta per intraprendere, è il disvelamento delle viscere di Čičikov sotto la lampada sfolgorante nel laboratorio di un vivisezionista), continua così:
«... Proprio al centro c’è il portasapone [essendo Čičikov una bolla di sapone soffiata dal diavolo], dietro al portasapone sei-sette sottili scomparti per i rasoi [le guance paffute di Čičikov erano sempre lisce come seta: un cherubino fasullo]; poi cantucci quadrati per la sabbiera e il calamaio, con una barchetta scavata in mezzo, per le penne, la ceralacca e tutte le cose più lunghe [oggetti di cancelleria per la raccolta delle anime morte]; poi ogni genere di scomparti con coperchietto e senza coperchietto per le cose più corte, pieni di biglietti da visita, funebri, teatrali e altri, che venivano riposti per ricordo [gli svolazzi in società di Čičikov]. Tutta la parte superiore con tutti gli scomparti si estraeva, sotto c’era uno spazio occupato da pacchetti di carta delle dimensioni di un foglio [la carta essendo il principale mezzo di relazione del diavolo], seguiva poi un piccolo cassetto segreto per i soldi, con l’apertura nascosta sul lato della cassetta [il cuore di Čičikov]. Veniva sempre aperto così in fretta e chiuso nello stesso istante dal padrone [sistole-diastole] che non si poteva dire con certezza quanti soldi c’erano dentro [non lo sa neanche l’autore]».
Andrej Belyj, inseguendo uno di quegli strani indizi del subconscio che si rinvengono solo nelle opere di autentica genialità, osservava che questa cassetta era la moglie di Čičikov (il quale del resto era impotente, al pari di tutti gli eroi subumani di Gogol’) così come il cappotto era l’amante di Akakij nel Cappotto, o il campanile la suocera di Špon’ka in Ivan Špon’ka e sua zia. Si può osservare anche che il nome dell’unica proprietaria terriera del libro, la «Gentildonna» Korobočka, significa «scatoletta» – di fatto, la «piccola cassetta» di Čičikov (che ci ricorda l’esclamazione di Arpagone: «Ma cassette!» nell’Avaro di Molière); e l’arrivo della Korobočka in città nel momento cruciale è descritto in termini correlati a scatole, in sottile sintonia con quelli usati per la suddetta preparazione anatomica dell’anima di Čičikov. Per inciso, i lettori dovrebbero essere avvertiti che per apprezzare veramente questi passi devono fare piazza pulita di qualsiasi sciocchezza freudiana possa essere stata a torto suggerita loro da riferimenti casuali a relazioni di connubio. Andrej Belyj si diverte un mondo a prendere in giro i solenni psicoanalisti.
Per prima cosa noteremo che all’inizio del seguente, straordinario passo (forse il più grande dell’intero libro) un riferimento alla notte genera un personaggio periferico, così com’era accaduto con l’Amateur di Stivali.
«Ma durante tutto il tempo in cui lui [Čičikov] se ne stava seduto sulla sua rigida poltrona, tormentato dai pensieri e dall’insonnia, dicendone di tutti i colori a Nozdrëv [che era stato il primo a turbare la quiete mentale degli abitanti spettegolando, da sbruffone qual era, sullo strano commercio di Čičikov] e a tutti i suoi parenti [l’albero genealogico che cresce spontaneo dal nostro modo nazionale di imprecare], e davanti a lui ardeva fioca una candela di sego con lo stoppino già da un pezzo coperto da un cappuccio nero, bruciato, minacciando a ogni istante di spegnersi, e guardava nelle sue finestre la notte cieca, buia, pronta a farsi azzurra per l’alba che avanzava, e si incrociavano in lontananza i fischi lontani dei galli [si osservi la ripetizione di “lontano” e il mostruoso “si incrociavano i fischi”: Čičikov, che emette un sottile ronfo nasale sibilante, si sta appisolando, e il mondo si fa sfocato e strano, il ronfo si mescola al canto dei galli doppiamente lontano, mentre la frase stessa si contorce nel dare alla luce un essere quasi-umano], e nella città ormai completamente addormentata si trascinava forse da qualche parte un cappotto di panno di Frisia [nel testo il verbo è al genere femminile in accordo con il genere femminile di frizovaja šinel’ che, come dire, ha usurpato il posto dell’uomo], un poveraccio [eccoci] di chissà quale classe e grado, che conosce soltanto una strada [per l’osteria] ... troppo battuta (ahimè) dallo sbrigliato popolo russo; nel frattempo [il “frattempo” dell’inizio di questo periodo], dall’altra parte della città...».
Fermiamoci qui un momento per ammirare il solitario passante con il suo mento livido, non rasato, e il naso rosso, così diverso in questo suo stato pietoso (corrispondente allo stato mentale turbato di Čičikov) dall’appassionato sognatore che si beava di uno stivale quando il sonno di Čičikov era bello gagliardo. Gogol’ continua come segue:
«... dall’altra parte della città si stava verificando un evento che avrebbe accresciuto la sgradevolezza della situazione del nostro eroe. Per la precisione, in remote vie e vicoli della città tintinnava una vettura alquanto strana, che induceva sconcerto a proposito della sua denominazione. Non assomigliava né a un tarantas [la versione più semplice di vettura da viaggio], né a una carrozzella, né a una brička, ma assomigliava piuttosto a un cocomero turgido, guanciuto, piazzato su ruote [qui si profila una certa sottile corrispondenza con la descrizione della cassetta del rotondo Čičikov]. Le guance di quel cocomero, ossia gli sportelli, recanti tracce di colore giallo, si chiudevano molto male a causa del cattivo stato di maniglie e serrature, legate alla meno peggio con corde. Il cocomero era pieno di cuscini di tela indiana a mo’ di borsette, di rulli o semplicemente di cuscini, infarcito di sacchi di pane, kalači [panini a forma di borsetta], kokurki [focaccine ripiene di uova e formaggio], skorodumki [tipo di gnocchi] e krendeli [specie di kalač, più grande, a forma di B maiuscola, ricco di aromi e decorato]. Una torta di pollo e un rassol’nik (sofisticata torta di rigaglie) facevano addirittura capolino in alto. Il portabagagli era occupato da un individuo di estrazione servile, con una giubba di cotone a righe, la barba non rasata e spruzzata da una leggera brizzolatura – un individuo noto con il nome di “garzone” [anche se poteva superare la cinquantina]. Il rumore e lo stridio delle staffe di ferro e delle viti arrugginite svegliarono dall’altra parte della città una sentinella [qui nasce un altro personaggio nel migliore dei modi gogoliani] che sollevò la sua alabarda e gridò mezzo addormentata con tutta la sua forza: “Chi va là?” – però, vedendo che non passava nessuno ma si sentiva solo un tintinnio lontano [il cocomero onirico era entrato nella città onirica], catturò non si sa che bestia sul suo colletto, si avvicinò a un lampione e la giustiziò sul posto, sull’unghia [cioè, schiacciandola con l’unghia dell’indice piegato della stessa mano, sistema adottato dai russi per trattare con le robuste pulci nazionali]. Dopo di che, messa da parte l’alabarda, si addormentò di nuovo, secondo la regola del suo ordine cavalleresco [qui Gogol’ raggiunge la carrozza che aveva lasciato andare mentre era occupato con la sentinella]. I cavalli cadevano di continuo sulle ginocchia anteriori, perché non erano ferrati e per giunta, com’era evidente, il comodo selciato cittadino era loro poco familiare. Il carrozzone, fatte alcune svolte di strada in strada, girò infine in un vicolo buio accanto alla piccola chiesa parrocchiale di Nicola in Nadotyčki e si fermò davanti al portone della casa della protopopessa [la moglie o la vedova del protopope]. Dalla brička [tipico di Gogol’: l’indefinibile veicolo, ora che è arrivato a destinazione in un mondo relativamente concreto, è diventato una di quelle specie definite di vetture che egli aveva avuto cura di dire che non era] spuntò fuori una ragazzetta col fazzoletto in testa e una giacca imbottita, e si mise a pestare entrambi i pugni sul portone con tanta forza, neanche fosse un uomo (il garzone con la giubba di cotone a righe fu tirato giù per le gambe solo dopo, giacché dormiva come un morto). I cani presero ad abbaiare e il portone finalmente si spalancò e inghiottì, seppure con gran difficoltà, quella goffa creatura della strada. La vettura entrò nello stretto cortile ingombro di legna, pollai e gabbie di ogni genere; dalla vettura uscì una signora; questa signora era la possidente, segretaria di collegio Korobočka».
Madame Korobočka assomiglia a Cenerentola nella misura in cui Čičikov assomiglia a Pickwick. Il cocomero da cui emerge è solo un vago parente della zucca fatata. Diventa una brička proprio prima che lei ne emerga, probabilmente per la stessa ragione per cui il canto del gallo diviene un ronfo sibilante. Si può ipotizzare che il suo arrivo sia visto attraverso il sogno di Čičikov (quando questi si assopisce nella sua scomoda poltrona). Lei arriva nella realtà, ma l’apparire della sua carrozza è leggermente distorto dal sogno di lui (tutti i suoi sogni essendo governati dal ricordo degli scomparti segreti della sua cassetta) e se la vettura si rivela essere una brička è semplicemente perché anche Čičikov era arrivato con una brička. A parte queste trasformazioni, la carrozza è rotonda perché il grassoccio Čičikov è egli stesso una sfera e tutti i suoi sogni ruotano attorno a un centro fisso; e allo stesso tempo la carrozza di lei è anche la rotondeggiante valigia di lui. La pianta e la disposizione interna della carrozza vengono rivelate con la stessa diabolica gradualità che era stata riservata alla cassetta. I cuscini allungati sono le «cose lunghe» della cassetta; i dolci fantasiosi corrispondono ai frivoli souvenir conservati da Pavel; i fogli per annotare le anime morte comprate sono, in modo arcano, simboleggiati dal suo servo assonnato con la giubba variegata; e lo scomparto segreto, il cuore di Čičikov, lascia uscire la Korobočka medesima.
Ho già alluso, nel discutere dei personaggi generati da similitudine, al soffio lirico che segue immediatamente l’apparire del faccione dell’imperturbabile Sobakevič, dal cui volto, come da un grande e brutto bozzolo, emerge una luminosa e delicata falena. Il fatto è che, in modo piuttosto curioso, malgrado la sua imponenza e la sua stazza Sobakevič è il personaggio più poetico del libro, e ciò, forse, richiede qualche spiegazione. Prima di tutto, ecco gli emblemi e gli attributi del suo essere (egli è visualizzato in termini di oggetti d’arredo):
«Sedendosi, Čičikov diede un’occhiata alle pareti e ai quadri che vi erano appesi. Sui quadri erano tutti giovani arditi, tutti condottieri greci, raffigurati a statura intera: Maurocordato, con i pantaloni rossi, la divisa e gli occhiali sul naso, Miaulis, Canaris. Tutti questi eroi avevano cosce talmente grosse e certi baffi inauditi che facevano venire la pelle d’oca. Tra i vigorosi Greci, non si sa in che modo e a che scopo si era piazzato Bagration [famoso generale russo], secco, magrolino, con piccoli vessilli e cannoni in basso, e con la cornicetta più sottile di tutte. Poi veniva, di nuovo, l’eroina greca Bobelina, una gamba della quale pareva più grossa di tutto il torso di quegli elegantoni che ai nostri giorni riempiono i salotti. Il padrone di casa, essendo egli stesso un uomo robusto e vigoroso, a quanto pare voleva che anche la sua stanza fosse abbellita con persone vigorose e robuste».
Ma era questa la sola ragione? Non vi è qualcosa di singolare nella propensione verso la Grecia romantica da parte di Sobakevič? Non vi era forse un «piccolo e sottile frammento» di poeta nascosto in quel petto tarchiato? Giacché niente a quel tempo provocava emozione più grande, nei russi inclini alla poesia, dell’eroica impresa di Byron.
«Čičikov diede ancora una volta uno sguardo alla stanza, e tutto quello che c’era dentro – tutto era solido, sgraziato al massimo grado e aveva una certa qual strana somiglianza con lo stesso padrone di casa; in un angolo del salotto stava una panciuta scrivania di noce con quattro goffissime gambe, un autentico orso. Il tavolo, le poltrone, le sedie, tutto era del tipo più pesante e importuno – in una parola, ogni oggetto, ogni sedia pareva dire: “E anch’io sono Sobakevič!”, oppure: “E anch’io assomiglio tanto a Sobakevič!”».
Il cibo che mangia è vitto per un rozzo gigante. Se c’è carne di porco gli dev’essere servito a tavola l’intero maiale, se si tratta di carne di montone, allora deve fare il suo ingresso un’intera pecora; se è carne d’oca, allora ci dev’essere l’intero volatile. I suoi rapporti con il cibo sono segnati da una sorta di primeva poesia e se si può dire che esiste un ritmo gastronomico, il suo metro prandiale è quello omerico. La mezza sella di montone che spazzola in pochi istanti di rumorosi mastichii e ansiti, i piatti che si ingoia dopo – focacce con la ricotta che strabordano dal piatto e un tacchino grande quanto un vitello e farcito di uova, riso, fegato e altri succulenti ripieni –, tutti questi sono gli emblemi, la crosta esterna e i naturali ornamenti dell’uomo e ne proclamano l’esistenza con quel tipo di ruvida eloquenza che Flaubert era solito riporre nel suo epiteto preferito, «Hénaurme». Sobakevič con il cibo procede a colpi di grandi fette e poderosi tagli, e le sfiziose marmellatine servite da sua moglie dopo cena vengono da lui ignorate, così come Rodin non si sarebbe degnato di notare i ninnoli rococò in un salotto alla moda.
«Pareva che in quel corpo non ci fosse affatto un’anima, oppure c’era, però non era là dove doveva essere, ma come quella dell’immortale Koščej [un orrido personaggio del folclore russo] era chissà dove, al di là dei monti, e ricoperta da un guscio così spesso che qualsiasi cosa si muovesse sul suo fondo, non produceva assolutamente alcuno sconvolgimento in superficie».
Le «anime morte» sono fatte rivivere due volte: prima attraverso Sobakevič (che le dota dei suoi ingombranti attributi), poi da Čičikov (con il supporto lirico dell’autore). Ecco il primo metodo – Sobakevič sta tenendo alto il valore della sua mercanzia:
«“Vedete un po’ voi: ecco, per esempio, il carrozzaio Micheev! Non costruiva vetture se non erano a molle. E non come quei lavori moscoviti che durano un’ora, no: roba solida, e te le tappezza lui, e le vernicia!”.
«Čičikov aprì la bocca per osservare che Micheev, tuttavia, da un pezzo non era più a questo mondo; ma Sobakevič era entrato, come si suol dire, nel pieno del discorso, e da qui aveva preso lo slancio e il dono della parola:
«“E Probka Stepan, il falegname? Ci scommetto la testa che un contadino così non lo trovate da nessuna parte. Che forza! Se prestava servizio nella guardia, lo sa Dio cosa gli davano, con più di tre aršin di statura!”.
«Čičikov voleva di nuovo osservare che neppure Probka era più al mondo; ma Sobakevič, evidentemente, era fuori controllo: scorreva un tal fiume di parole che dovevi ascoltare e basta:
«“Miljuškin, il fornaciaio! Poteva mettere una stufa in qualsiasi casa. Maksim Teljatnikov, il calzolaio: quel che tocca con la lesina – son stivali, e se son stivali – grazie tante, non importa se alza il gomito! E Eremej Sorokoplëchin! Questo contadino qui li vale tutti, commerciava a Mosca, portava cinquecento rubli solo di tributo”».
Čičikov cerca di protestare con questo bizzarro propagandista di mercanzia inesistente, e l’altro un po’ si calma, concedendogli che le «anime» sono morte, ma poi s’infiamma di nuovo:
«“Sì, certo, sono morti... del resto, se guardi bene: cosa ne ricavi da quelli che adesso contano come vivi? Che razza di persone sono? Sono mosche, non persone”.
«“Sì ma loro esistono, quegli altri invece sono una chimera”.
«“Ma no, non sono una chimera! Ve lo spiego io chi era Micheev, persone così voi non ne trovate: un armadio che non entrava in questa stanza; no, non è una chimera! E in quelle spalle aveva una forza, ma una forza, che neanche un cavallo; vorrei proprio sapere dove la trovate voi in un altro posto, una chimera così!”».
Così dicendo Sobakevič si rivolge al ritratto di Bagration come a chiedergli consiglio; e un po’ più tardi, quando dopo un tenace mercanteggiare i due stanno per venire a patti e vi è una lunga pausa, «Bagration, col suo naso aquilino, dalla parete seguiva la trattativa con estrema attenzione». Di più non potremmo avvicinarci all’anima di Sobakevič quando lui è presente, ma un’eco meravigliosa della vena lirica insita nella sua rozza natura la si può ravvisare più avanti, quando Čičikov esamina la lista di anime morte vendutegli dal tarchiato possidente.
«Quando poi diede un’occhiata a quei foglietti, ai contadini che, davvero, un tempo erano stati contadini, lavoravano, aravano, si ubriacavano, giravano coi carri, imbrogliavano i signori, o forse erano semplicemente dei bravi contadini, lo assalì un sentimento strano, a lui stesso incomprensibile. Ogni lista sembrava avere un suo particolare carattere, attraverso il quale pareva che gli stessi contadini ricevessero un carattere loro proprio. I contadini che erano appartenuti alla Korobočka recavano quasi tutti annotazioni e soprannomi. La lista di Pljuškin si distingueva per la brevità dello stile: spesso venivano indicate solo le iniziali di nome e patronimico, seguite da due punti. Il registro di Sobakevič stupiva per l’insolita completezza e abbondanza di dettagli ... “Santo paradiso! [si disse Čičikov con un improvviso fiotto di emotività, tipico dei farabutti sentimentali] quanti siete qui dentro, tutti in mucchio! Cosa avete combinato, tesorucci miei, nella vostra vita? Come ve la siete cavata?”. [Egli immagina queste esistenze, e uno a uno i defunti mužik prendono vita, spingendo il paffuto Čičikov da una parte e affermando se stessi]. “Ah, eccolo qui, Stepan Probka, ecco quel gigante che avrebbe fatto bella figura nella guardia! Ci scommetto che hai girato tutti i governatorati con l’ascia alla cinta e gli stivali in spalla [un modo dei contadini russi per fare economia sulle calzature], mangiavi un soldo di pane e due di pesce secco, e in saccoccia, ci scommetto, ogni volta portavi a casa [al tuo padrone] un centinaio di rubli d’argento, e forse ti cucivi anche una banconota nelle brache di tela o la ficcavi negli stivali – dov’è che ti ha beccato? Forse per prendere di più [in compensi per lavori di riparazione] ti sei arrampicato sotto la cupola di una chiesa, o magari ti sei anche trascinato fin sulla croce, e scivolando da lì, dalla traversa, sei piombato a terra, e solo un qualche zio Michej [un tuo anziano compagno] che era là, vicino a te, si è grattato la nuca e ha borbottato: ‘Eh, Vanja, ti è andata male’, e poi si è legato con la corda ed è salito lui al tuo posto ... Grigorij Doezžaj-ne-doedeš’ – Grigorij Vai-dove-non-arrivi! Tu che uomo eri? Forse facevi il barocciaio, ti sei procurato una troika [tre cavalli] e una kibitka col tendone di stuoia, hai voltato le spalle per sempre alla tua casa, alla tana natale, e ti sei messo a trascinarti coi mercanti per le fiere. Hai reso l’anima a Dio sulla strada, oppure ti han fatto fuori i tuoi stessi compagni per una grassa e rubiconda moglie di qualche soldato, oppure un vagabondo dei boschi ha adocchiato i tuoi guanti di cuoio e la tua troika di cavalli tozzi ma forti, o magari chissà, tu stesso, standotene sdraiato sul pancaccio, pensa e pensa, di punto in bianco sei andato alla bettola, e poi dritto in un buco nel ghiaccio, e chi s’è visto s’è visto”».
Il nome stesso di un certo Neuvažaj-Koryto (una strana combinazione di «mancanza di rispetto» e di «truogolo per maiali») suggerisce, attraverso la sua goffa e sbandante lunghezza, il tipo di morte che era toccata in sorte a quest’uomo: «... camminavi addormentato in mezzo alla strada e ti è passato sopra un carretto bislacco». La menzione di un certo Popov, domestico nella lista Pljuškin, fa nascere un intero dialogo dalla supposizione che l’uomo avesse probabilmente ricevuto un po’ di istruzione e si fosse così reso colpevole (si osservi questa mossa superlogica) non di volgare assassinio, ma di un più distinto furto.
«Ma ecco che ti trova senza passaporto un capitano di polizia. Tu affronti baldanzoso l’interrogatorio. “Di chi sei?” ti dice il capitano di polizia, approfittando dell’ottima occasione per affibbiarti una parolina pepata. “Sono del possidente tal dei tali” rispondi tu baldanzoso. “Perché sei qui?” [miglia e miglia lontano] dice il capitano di polizia. “Mi hanno lasciato andare a guadagnarmi l’obrok” [ossia, gli era stato permesso di lavorare in proprio o per conto di qualche altro padrone, a condizione di pagare una percentuale dei suoi guadagni al signorotto che lo possedeva] rispondi tu senza esitazioni. “Dov’è il tuo passaporto?”. “Dal padrone di casa, il mercante Pimenov”. “Fate venire Pimenov! Sei tu, Pimenov?”. “Sì, sono Pimenov”. “Ti ha dato il suo passaporto?”. “No, non mi ha dato nessun passaporto”. “Ma perché racconti bugie?” dice il capitano con l’aggiunta di una parolina pepata. “Proprio così,” rispondi tu baldanzoso “non l’ho dato a lui perché sono tornato a casa tardi, e l’ho dato da tenere a Antip Prochorov, il campanaro”. “Fate venire il campanaro! Ti ha dato il passaporto?”. “No, non ho avuto da lui nessun passaporto”. “Ma perché racconti ancora bugie?” dice il capitano, rinforzando il suo discorso con una parolina pepata. “Dov’è il tuo passaporto?”. “Ce l’avevo,” dici tu lesto “sì, magari mi è caduto per strada, non so come”. “E il cappotto da soldato” dice il capitano, inchiodandoti di nuovo, in soprappiù, con una parolina pepata “perché l’hai portato via? e il baule con i soldi di rame, al prete?”...».
Va avanti così per un po’ e poi seguiamo Popov nelle varie prigioni di cui la nostra grande terra è sempre stata così prolifica. Ma sebbene queste «anime morte» siano riportate in vita solo per essere condotte alla sventura o alla morte, la loro resurrezione è naturalmente di gran lunga più soddisfacente e completa delle false «resurrezioni morali» che Gogol’ intendeva inscenare nei progettati secondo e terzo volume a beneficio dei cittadini pii e rispettosi della legge. La sua arte, per un di lui capriccio, in questi passi riportò in vita i morti. Considerazioni di natura etica e religiosa potrebbero solo distruggere le morbide, calde, grasse creature della sua fantasia.
Gli emblemi del biondo, sentimentale, scipito e sciatto Manilov dalle rosee labbra (nel suo nome si suggerisce un che di manierato e di tuman, che significa nebbia, oltre alla parola manil, verbo che esprime un’idea di trasognata attrazione) sono: quella grassa schiuma verde sullo stagno tra i languidi incanti di un «giardino all’inglese» con i suoi cespugli rifilati e il padiglione a colonne azzurre («Tempio della Meditazione Solitaria»); i nomi pseudo-classici che egli dà ai suoi bambini; quel libro che giace permanentemente nel suo studio, permanentemente aperto alla pagina quattordici (non quindici, il che avrebbe implicato una qualche sorta di metodo decimale nel leggere, e nemmeno tredici, che sarebbe stata la dozzina di pagine del diavolo, ma quattordici, un insipido numerale roseo biondastro con una personalità inconsistente quanto quella di Manilov); quell’incuria nel mobilio della sua casa, dove le poltrone erano state tappezzate di seta, che però alla fine non bastava per tutte, cosicché due erano semplicemente coperte di stuoia grezza; quei due candelabri, uno dei quali era di bronzo scuro lavorato in modo assai elegante, con un trio di Grazie greche e un paralume di madreperla, mentre l’altro era soltanto «un invalido di ottone», zoppo, curvo e impiastricciato di sego; ma forse l’emblema più appropriato è l’ordinata fila di montagnole formate con la cenere che Manilov scuoteva dalla pipa e sistemava in pile simmetriche sul davanzale della finestra – il solo piacere artistico che conoscesse.
«Felice lo scrittore che, tralasciando i caratteri noiosi, repellenti, sbalorditivi per la loro penosa realtà, si accosta a caratteri che mostrano l’alta dignità dell’uomo; lo scrittore che nel grandioso turbine di figure quotidianamente vorticanti sceglie solo poche eccezioni; che non ha tradito neppure una volta l’elevato accordo della sua lira, non è sceso dalle sue vette incontro ai poveri, insignificanti confratelli ma, senza toccar terra, s’è dato tutto alle sue figure eccelse, dalla terra medesima staccate e distanti. Doppiamente invidiabile è la sua magnifica sorte: in mezzo a loro è come in famiglia, ma intanto la sua fama si diffonde e risuona lontano. Egli ha gettato un fumo inebriante negli occhi della gente; l’ha lusingata in modo incantevole, nascondendo ciò che è penoso nella vita, mostrando loro un uomo sublime. Ogni cosa lo segue plaudendo, e si lancia dietro il suo carro trionfale. Lo chiamano grande poeta universale, che si libra alto sopra tutti gli altri geni del mondo, come si libra un’aquila sopra gli altri uccelli che volano alti. Al suo solo nome già un fremito pervade i giovani cuori ardenti, in risposta lacrime brillano in tutti gli occhi... Non ha eguali per la sua forza: è un Dio! Ma non è questa la sorte, altro è il destino dello scrittore che abbia l’ardire di tirar fuori tutto quel che abbiamo ogni momento sotto gli occhi e che gli occhi indifferenti non vedono – tutta l’orrenda, strabiliante palude di piccolezze che irretiscono la nostra vita, tutto l’abisso dei freddi, sbriciolati, dozzinali caratteri di cui ribolle il nostro cammino terreno, talora amaro e tedioso; e che con la robusta forza di un impietoso cesello abbia l’ardire di esporli plasticamente e con chiarezza agli occhi di tutti! Egli non raccoglierà il plauso della gente, non vedrà le lacrime di gratitudine e di entusiasmo unanime dei cuori che ha commosso; non gli volerà incontro una fanciulla sedicenne, ebbra di un’eroica passione; non si perderà nel dolce fascino dei suoni da lui stesso suscitati; non sfuggirà, infine, al giudizio contemporaneo, all’ipocrita insensibile giudizio contemporaneo, che chiamerà insignificanti e vili le creature che lui ha cullato, e gli riserverà un angolo abietto nella schiera degli scrittori che oltraggiano l’umanità, e gli attribuirà le qualità degli eroi che lui stesso ha rappresentato, gli toglierà anche il cuore, e l’anima, e la divina fiamma del talento. Giacché il giudizio contemporaneo non riconosce che sono ugualmente meravigliose le lenti che osservano i soli e quelle che mostrano i movimenti di ignoti insetti; giacché il giudizio contemporaneo non riconosce che è necessaria molta profondità di spirito per illuminare un quadro preso dalla vita spregevole, ed elevarlo a perla del creato; giacché il giudizio contemporaneo non riconosce che il riso elevato, ispirato è degno di stare accanto all’elevato moto lirico, e che c’è un intero abisso fra loro e le smorfie di un pagliaccio da baraccone! Non riconosce tutto ciò il giudizio contemporaneo, e tutto volgerà in rimprovero e calunnia dello scrittore misconosciuto; senza consenso, senza risposta, senza simpatia, come un viandante senza famiglia, egli resterà solo in mezzo alla strada. È severo il suo cammino, ed egli sentirà amaramente la propria solitudine.
«E a lungo ancora sono destinato da un potere misterioso ad andare sottobraccio con i miei strani eroi, a osservare tutta questa vita che scorre, immensa, osservarla attraverso il riso visibile al mondo e lacrime al mondo invisibili, ignote! Ed è lontano ancora il tempo in cui, con altro tono, la minacciosa tormenta dell’ispirazione si leverà dal capo, circonfuso di sacro terrore e di splendore, e udiranno in commossa trepidazione il grandioso fragore di altri discorsi...».
Subito dopo tale esorbitante eloquenza che, come una luce abbagliante, rivela uno sprazzo di ciò che all’epoca Gogol’ pensava di riuscire a fare nel secondo volume della sua opera, segue la scena diabolicamente grottesca del grasso Čičikov mezzo nudo che danza una giga in camera sua: non è esattamente il giusto tipo di esempio per provare che «riso estatico» e «impeti lirici» si facciano buona compagnia nel libro di Gogol’. Di fatto, Gogol’ si ingannava se credeva di poter ridere di un «riso estatico». Né gli scoppi di lirismo sono davvero parte della solida struttura del libro; sono, piuttosto, interspazi naturali senza i quali la sua struttura non sarebbe quello che è. Gogol’ indulge al piacere di andare a gambe all’aria per il forte vento che gli giunge da qualche altro clima del suo proprio mondo (dagli spazi alpino-italiani), proprio come nel Revisore il grido modulato dell’abile cocchiere invisibile («Ehi, voi, miei alati!») portava una folata di notturna aria estiva, un senso di lontananza e di romance, un’invitation au voyage.
La principale nota lirica di Anime morte irrompe quando l’idea della Russia così come Gogol’ la vedeva (un paesaggio singolare, una speciale atmosfera, un simbolo, una strada lunga lunga) si profila in tutta la sua strana bellezza attraverso il formidabile sogno del libro. È importante osservare che il seguente passo si colloca tra la partenza finale o, piuttosto, la fuga di Čičikov dalla città (che era stata messa sottosopra dalle chiacchiere sul suo affare) e la descrizione dei suoi primi anni:
«La brička nel frattempo aveva svoltato in strade più deserte; ben presto cominciarono a sfilare solo lunghe palizzate di legno [una palizzata russa è una cosa di un grigio smorto, più o meno seghettata in alto, e in ciò simile alla linea distante di un bosco di abeti russo] che preannunciavano la fine della città [nello spazio, non nel tempo]. Ecco che già terminava anche il selciato, ecco la sbarra [Šlagbaum: un palo mobile dipinto a strisce bianche e nere], e la città è alle spalle, e non c’è niente – di nuovo in strada. E di nuovo su entrambi i lati della strada maestra ripresero a scorrere ancora verste, mastri di posta, pozzi, carriaggi, villaggi grigi con i samovar, donne e uno svelto barbuto padrone di casa che corre fuori dalla locanda con l’avena in mano, un viandante con i lapti consumati che si trascina da ottocento verste [fate attenzione a questo costante gioco con le cifre: non cinquecento e non cento, ma ottocento: persino i numeri in Gogol’ sono dotati di una loro individualità], piccole città tirate su alla meglio, con le bottegucce di legno, barili di farina, lapti [le scarpe di corteccia, per il viandante che è appena passato], focacce e carabattole varie, sbarre screziate, ponti in riparazione [cioè eternamente in riparazione – uno dei tratti della Russia gogoliana, sgangherata, sonnolenta, fatiscente], campi a perdita d’occhio da una parte e dall’altra, carrozze padronali, un soldato a cavallo che trasporta una cassa verde con pallini di piombo e la scritta: batteria di artiglieria tale e talaltra, strisce verdi, gialle e rivoltate da poco – nere, balenanti nelle steppe [Gogol’ trova giusto lo spazio necessario, reso possibile dalla sintassi russa, per inserire «rivoltate da poco» prima di «nere», intendendo strisce di terra arata di fresco], una canzone intonata in lontananza, cime di pini nella nebbia, suono di campane che si perde lontano, corvi come mosche e orizzonte senza fine... Rus’! Rus’! [nome antico e poetico per Russia] ti vedo, dalla mia incantevole meravigliosa lontananza vedo te: c’è povertà, scompiglio, desolazione in te; non rallegrano, non spaventano lo sguardo audaci prodigi della natura, coronati da audaci prodigi dell’arte, città con alti palazzi dalle mille finestre, cresciuti su rocche, alberi pittoreschi ed edere cresciute nelle case, nel fragore e nell’eterno pulviscolo delle cascate; non si rovescia all’indietro la testa a guardare i blocchi di pietra che senza fine si ammassano, sopra, in alto [questa è la Russia personale di Gogol’, non la Russia degli Urali, dell’Altaj, del Caucaso]; non rilucono attraverso archi oscuri, gettati uno sull’altro, invasi da tralci di vite, edere e innumerevoli milioni di rose selvatiche, non rilucono attraverso di loro in lontananza i contorni perenni di monti scintillanti che si lanciano in limpidi cieli d’argento. Tutto in te è aperto deserto e piano; come punti, come piccoli segni [vale a dire, su una mappa], visibili appena spuntano in mezzo alle pianure le tue basse città; nulla lusinga, nulla affascina lo sguardo. Ma quale incomprensibile, misteriosa forza chiama a te? Perché s’ode e riecheggia senza posa nelle orecchie la tua triste canzone, che corre per tutta la tua lunghezza e larghezza, da mare a mare? Cosa c’è, in questa canzone? Cos’è che chiama, e singhiozza, e ti afferra il cuore? Quali suoni baciano dolorosamente, e vogliono penetrare nell’anima, e si avviluppano accanto al mio cuore? Rus’! cosa vuoi da me? quale incomprensibile legame si cela fra noi? Perché guardi così, e perché tutto ciò che è in te ha rivolto su di me occhi pieni di attesa?... E ancora, colmo di sconcerto, io resto immobile, e già oscura il mio capo una nube minacciosa, pesante di piogge imminenti, e ammutolisce il pensiero dinanzi alla tua vastità. Che profezia viene da questa sconfinata vastità? Dove se non qui, in te, può nascere un pensiero senza limiti, quando sei tu stessa senza fine? Dov’è, se non qui, il posto di un gigante, quando c’è spazio perché si dispieghi e passi avanti? E minacciosa mi abbraccia la possente vastità, riflettendosi con forza spaventosa nel mio profondo; d’un potere innaturale s’illuminano i miei occhi: uh! che lontananza sfolgorante, meravigliosa, sconosciuta alla terra! Rus’!...
«“Ferma, ferma, cretino!” gridava Čičikov a Selifan [il che sottolinea il fatto che questa esplosione lirica non è una meditazione dello stesso Čičikov].
«“Io ti prendo a sciabolate!” gridava un corriere militare con i baffi lunghi un aršin, che galoppava loro incontro. “Il lešij ti strappi l’anima! Ma non lo vedi che è una vettura del governo!”. E come un fantasma la troika si dileguò con fracasso in una nuvola di polvere».
La remota distanza del poeta dal suo paese viene trasformata nella remota distanza del futuro della Russia che Gogol’, in qualche maniera, identifica con il futuro della propria opera, ossia con la seconda parte di Anime morte, il libro che tutti in Russia attendevano da lui e che lui cercava di far credere a se stesso che avrebbe scritto. Per quanto mi riguarda, Anime morte finisce con la partenza di Čičikov dalla città di NN. Non so davvero che cosa ammirare di più, quando considero la successiva, straordinaria esplosione di eloquenza che conclude la Prima Parte: la magia della sua poesia o una magia di tipo completamente diverso, giacché Gogol’ aveva di fronte il doppio compito di evitare in qualche modo a Čičikov la giusta punizione attraverso la fuga e di sviare l’attenzione del lettore da un fatto ancor più imbarazzante: nessuna punizione secondo legge umana poteva raggiungere l’agente di Satana diretto a casa – all’inferno.
«Selifan... proferì con voce sottile e melodiosa: “Non aver paura!”. I cavalli si rianimarono e trascinarono via, come una piuma, la leggera brička. Selifan si limitava ad agitare la frusta e strillare: “Hei! Hei! Hei!”, sobbalzando morbidamente a cassetta, a misura che la troika ora prendeva il volo sui dossi, ora si buttava a capofitto giù dai dossi di cui era disseminata tutta la strada maestra, lanciata verso il basso con una pendenza appena percepibile. Čičikov si limitava a sorridere, rimbalzando appena sul suo cuscino di cuoio, giacché amava la corsa veloce. E quale russo non ama la corsa veloce? Può la sua anima, che anela alla vertigine, all’ebrezza, a dire a volte “vada tutto al diavolo!” – può la sua anima non amarla? Come può non amarla, quando vi risuona un che di estatico e meraviglioso! Ti pare che una forza ignota ti prenda a sé sull’ala, e tu voli, e tutto vola: volano le verste, ti volano incontro i mercanti in serpa ai loro carri, vola da entrambi i lati il bosco con le buie schiere di abeti e pini, il battere della scure e il grido dei corvi, vola tutta la strada non si sa dove in una lontananza che si dilegua, e un che di spaventoso è racchiuso in questo balenio veloce, in cui un oggetto non arriva a delinearsi, che già è svanito: solo il cielo sopra la testa, e nuvole leggere, e la falce di luna che s’intravede – solo loro sembrano immobili. Ah, troika, uccello troika, chi ti ha inventato? sì, potevi nascere solo in un popolo audace, in una terra che non ama scherzare, ma piatta e uguale s’è squadernata su mezzo mondo, e tu vai a contare le verste finché non ti si offusca la vista. E non sei complicata, no, come attrezzo da viaggio, non ti tengono insieme viti di ferro, ma ti ha sbozzata e messa su alla meglio con scure e scalpello un abile contadino di Jaroslavl’. Non ha stivali tedeschi il cocchiere: barba e guanti, e lo sa il diavolo su cosa sta seduto; ma si alza appena, e agita la frusta, e intona una canzone – e già sono un turbine i cavalli, i raggi nelle ruote si fondono in un cerchio pieno, levigato, ha un fremito la strada, lancia un grido di spavento un viandante impietrito – e via, via, via!... E là, lontano, già si vede qualcosa che alza la polvere e trapassa l’aria.
«Non è così che anche tu, o Rus’, quale ardita, irraggiungibile troika, voli via? Si leva in fumo sotto di te la strada, rimbombano i ponti, tutto s’allontana e resta indietro ... Rus’, dove voli? Dài risposta. Non dà risposta. In suoni meravigliosi si diffonde la sonagliera; rumoreggia e si leva come vento l’aria lacerata in brandelli; le vola accanto tutto quanto c’è sulla terra, e scostandosi si fan da parte e le danno strada gli altri popoli e nazioni».
Per quanto bellissimo sia tutto questo crescendo finale di suoni, dal punto di vista stilistico è semplicemente l’imbonimento del prestigiatore che rende possibile la sparizione di un oggetto, il particolare oggetto in questione essendo – Čičikov.
2. Per un riassunto di Anime morte si veda la «Cronologia».