CAPITOLO 3

Non era tornato per tempo in città.

Che delusione!

Lincoln Rhyme guidò la sua sedia a rotelle elettrica – una Merits Vision grigia con i parafanghi rossi – attraverso l’ingresso della palazzina di Central Park West. Una volta, qualcuno aveva osservato che quel posto faceva pensare a Sherlock Holmes per due motivi: primo, l’antica arenaria sarebbe stata perfetta nell’Inghilterra vittoriana (e in effetti risaliva a quell’epoca), secondo, il salotto era pieno di apparecchiature e attrezzature forensi che avrebbero messo in soggezione persino il famoso consulente investigativo britannico.

Rhyme si fermò nell’ingresso ad aspettare Thom, lo snello e muscoloso assistente, mentre parcheggiava nel vicoletto sul retro il Mercedes Sprinter dotato di rampa per la carrozzella. Infastidito dal vento gelido che gli soffiava sul collo, Rhyme girò la sedia a rotelle e la usò per spingere la porta. Quella si accostò, ma un istante dopo era di nuovo aperta. Tetraplegico, conosceva bene gli accessori high-tech disponibili per le persone nelle sue condizioni, paralizzate dal collo in giù: touchpad, sistemi di riconoscimento oculare e vocale, protesi di vario tipo... Inoltre la chirurgia e gli impianti gli avevano restituito un certo controllo sul braccio destro. Eppure, molti gesti meccanici e basilari – dal chiudere le porte all’aprire una bottiglia di scotch single malt, giusto per fare due esempi a caso – restavano letteralmente fuori dalla sua portata.

Thom arrivò poco dopo. Chiuse la porta, tolse il giaccone a Rhyme – che rifiutava di usare una coperta per scaldarsi – e si diresse in cucina.

«Pranzo?»

«No.»

«Mi sono espresso male» precisò l’assistente. «Volevo dire: cosa gradiresti?»

«Niente.»

«Risposta sbagliata.»

«Non ho fame» brontolò Rhyme. Poi prese goffamente il telecomando della TV e la accese in cerca di un telegiornale.

«Hai bisogno di mangiare. Zuppa. Giornata fredda, quindi zuppa» insisté Thom.

Rhyme fece una smorfia. La sua condizione era grave, certo, e bastavano una pressione sulla pelle o funzioni corporali non espletate a scatenare conseguenze pericolose. Ma la fame non era un potenziale fattore di rischio.

Il suo assistente era una dannata chioccia.

Di lì a poco, Rhyme sentì un profumino invadere la stanza. Thom preparava una zuppa niente male.

Si dedicò alla TV. La guardava di rado, di solito per seguire una particolare notizia di cronaca. In quel momento lo interessava un caso legato alla sua delusione, nata dal viaggio a Washington D.C. da cui lui e Amelia Sachs erano appena tornati.

Lo schermo, però, si accese su un canale di documentari anziché sul notiziario. Il programma in onda offriva ricostruzioni filmate di fatti di cronaca nera. Il cattivo aveva lo sguardo torvo, i detective sembravano pensierosi, la musica di sottofondo esplodeva improvvisa. L’agente della Scientifica chiamato sulla scena del crimine portava un orologio da polso sopra al guanto.

Gesù Cristo.

«Stavi guardando tu questa robaccia?» gridò a Thom.

Nessuna risposta.

Pigiando i tasti con rabbia, trovò un canale di notizie. Solo che al momento trasmetteva una pubblicità di medicinali da banco. Non aveva idea di cosa facessero, a parte trasformare gli attori da nonni vecchi e seri a nonni felici e in apparenza meno vecchi, capaci nell’ultima scena di giocare con i nipotini, ormai guariti dal male che impediva loro di farlo.

Poi il mezzobusto di un conduttore introdusse alcune questioni di politica locale, e finalmente la notizia che gli interessava balenò sullo schermo. Era la cronaca di un processo in corso presso la corte del distretto orientale di New York. Un trafficante di droga messicano – Eduardo Capilla, meglio noto come El Halcón – aveva commesso l’errore di entrare negli Stati Uniti per incontrare un personaggio del crimine organizzato locale. Intendeva creare una rete per lo spaccio di stupefacenti e il riciclaggio di denaro sporco, senza disdegnare un po’ di prostituzione minorile e traffico di esseri umani.

Il messicano era parecchio in gamba. Nonostante fosse multimilionario, aveva prenotato un posto in classe turistica su un volo commerciale per il Canada, entrando legalmente nel Paese. Si era quindi imbarcato su un aereo privato, per raggiungere una pista d’atterraggio vicina al confine. Da lì, un elicottero l’aveva trasportato illegalmente a un aeroporto abbandonato di Long Island, tenendosi sotto la portata dei radar. La pista sfruttata si trovava a qualche chilometro da un complesso di magazzini che aveva intenzione di comprare e, si pensava, trasformare nel quartier generale della sua attività statunitense.

Solo che polizia ed FBI avevano saputo dei suoi movimenti, e l’avevano intercettato lì. Ne era seguito uno scontro a fuoco, durante il quale erano morti il proprietario dei magazzini e la sua guardia del corpo; un poliziotto e un agente del Bureau erano rimasti gravemente feriti.

Le forze dell’ordine avevano arrestato El Halcón, ma il socio americano con il quale sperava di costruire un impero della droga non era presente, né la sua identità era stata scoperta. Il che aveva costernato non poco i pubblici ministeri. Anche il proprietario del magazzino, ucciso nella sparatoria, si era rivelato un prestanome. Così, per quanto avessero scavato, non erano riusciti a risalire al vero contatto statunitense.

Lincoln Rhyme avrebbe voluto partecipare alle indagini. Aveva sperato di analizzare le prove e testimoniare al processo in qualità di esperto, ma si era già impegnato a incontrare alcuni alti funzionari della capitale. Così, lui e Sachs avevano trascorso la settimana laggiù.

Deluso, già. Sperava davvero di contribuire a rinchiudere El Halcón. Ma pensò che ci sarebbero stati altri casi.

E, per pura coincidenza, in quel momento il suo telefono vibrò. Il numero sullo schermo suggeriva che forse ce n’era proprio uno in arrivo.

«Lon» salutò Rhyme.

«Linc. Sei tornato?»

«Sono tornato. Hai qualche mistero per me? Qualcosa di interessante? Di... impegnativo

Il detective di primo livello Lon Sellitto era stato collega di Rhyme anni prima, quando il criminologo lavorava al New York Police Department, ma ormai socializzavano di rado e non si chiamavano mai per chiacchierare. Di solito Sellitto telefonava quando aveva bisogno di aiuto per un caso.

«Non saprei. Però ho una domanda.» Il detective sembrava trafelato. Forse aveva un incarico urgente, oppure stava tornando dal supermercato con una confezione di dolcetti.

«Ovvero?»

«Cosa ne sai di diamanti?»

«Mmh... diamanti. Fammi pensare. So che si tratta di allotropi.»

«Alloche?»

«Allotropi. Elementi chimici che possono prendere più di una forma. E il carbonio ne è un esempio perfetto. Una superstar della tavola periodica, ma penso che lo sappia perfino tu.»

«Perfino io» grugnì Sellitto.

«Il carbonio può presentarsi sotto forma di grafene, fullerene, grafite o diamante. Dipende dal modo in cui gli atomi sono legati. Nel caso della grafite la struttura cristallina segue un reticolo esagonale, mentre quella del diamante è tetraedrica. Dettagli che fanno la differenza tra una matita e i gioielli della Corona.»

«Linc, scusa, ti ho fatto la domanda sbagliata. Proviamo così: ti è mai capitato un caso nel Diamond District?»

Rhyme ripensò ai suoi anni come capitano al NYPD, alla guida della Scientifica, e a quelli successivi in veste di consulente. Alcuni casi passati per le sue mani riguardavano la zona di Midtown intorno a 47th Street, ma nessuno era collegato a negozi o venditori di diamanti. Lo disse a Sellitto.

«Be’, ci farebbe comodo un po’ di aiuto. Una rapina finita male, pare. Omicidio plurimo.» Una pausa. «E altra merda.»

Non proprio un termine da indagine criminologica, rifletté Rhyme. La cosa lo incuriosiva.

«Ti interessa?» chiese il detective.

Visto che il caso El Halcón gli era sfuggito, la risposta era sì. «Quanto ci metti a venire qui?» domandò.

«Fammi entrare.»

«Cosa?»

Rhyme sentì bussare alla porta d’ingresso. A telefono, Sellitto stava dicendo: «Sono qui fuori. In un modo o nell’altro ti avrei convinto a partecipare alle indagini. Forza, apri questa dannata porta. Pare gennaio qua fuori.»

* * *

«Zuppa?» offrì Thom, prendendo il soprabito di Lon Sellitto.

«No. Aspetta... che zuppa?»

Rhyme notò che Sellitto aveva tirato su la faccia, come per puntare meglio il naso e identificare l’aroma proveniente dalla cucina.

«Bisque di pomodoro con gamberetti. Lincoln stava per mangiarne un po’.»

«No che non la mangio.»

«E invece sì.»

«Mmh

Da che Rhyme lo conosceva, Lon Sellitto era sempre stato tarchiato, sgualcito – aggettivo riferito ai suoi indumenti, più che alla persona – e sovrappeso. Di recente, però, era stato avvelenato da un criminale al quale lui e Rhyme stavano dando la caccia; ci era quasi rimasto secco, e aveva perso parecchi chili. Uno scheletrico Lon Sellitto era uno spettacolo inquietante, e il detective stava lottando per tornare alla sua considerevole forma. Fu un piacere per Rhyme sentirgli dire: «Va bene».

Anche perché avrebbe distolto l’attenzione di Thom. Non aveva affatto fame.

«Dov’è Amelia?» domandò Sellitto.

«Non qui.»

Amelia Sachs era a Brooklyn. Aveva un appartamento vicino a quello di sua madre: Rose si stava riprendendo bene dall’intervento al cuore, ma la figlia continuava a farle visita piuttosto spesso.

«Non ancora?»

«Che intendi?» chiese Rhyme.

«Che sta arrivando. Sarà qui a minuti.»

«Qui? L’hai chiamata?»

«Esatto. Che profumino... Fa spesso la zuppa?»

«Quindi hai già deciso che lavoreremo al caso» proseguì Rhyme.

«Diciamo così. Rachel e io mangiamo quasi soltanto cibo in scatola.»

«Lon?»

«Sì, ho deciso.»

Arrivò la zuppa, in due terrine. Quella di Rhyme fu posata sul vassoio attaccato alla carrozzella; quella di Sellitto su un tavolo. Rhyme guardò la sua. Il profumo era davvero invitante... Forse aveva fame, dopotutto. Di solito Thom aveva ragione in questi casi, anche se di rado lui lo ammetteva. L’assistente si offrì di imboccarlo, ma scosse la testa; no, avrebbe tentato di usare la destra. Con quell’arto tremolante la zuppa era una sfida, eppure riuscì a portarla alla bocca senza versarla. Era felice di odiare il sushi: le bacchette erano fuori questione per uno come lui.

Con una certa sorpresa, poi, Rhyme scoprì che Sellitto aveva convocato qualcun altro per il caso del Diamond District: Ron Pulaski. Rhyme continuava a chiamarlo Recluta, anche se non lo era più da anni. L’atletico e biondo agente era in forze al servizio pattuglie, almeno in teoria, ma le sue doti sulla scena del crimine l’avevano spinto a insistere affinché Sellitto lo assegnasse in via non ufficiale alla sezione in cui lavoravano lui e Sachs, la Major Cases.

«Lincol. Lon.» Il nome di quest’ultimo fu pronunciato a un volume leggermente più basso. Dopotutto, la Recluta era inferiore a Sellitto sia per grado sia per anzianità e sbruffoneria.

Soffriva inoltre delle conseguenze di un infortunio: un colpo alla testa che risaliva alla prima volta in cui aveva lavorato con Rhyme e Sachs. Per un po’ era stato costretto a sedere in panchina, e quando aveva preso la difficile decisione di tornare in servizio si era trovato a lottare con le insicurezze e le incertezze che spesso accompagnano un trauma cerebrale.

Un giorno aveva confessato a Rhyme che stava pensando di lasciare, perché non si sentiva all’altezza di fare il poliziotto, e il criminologo era sbottato. «È tutto nella tua fottuta testa» gli aveva detto.

Il giovane agente lo aveva fissato, cercando di restare serio il più a lungo possibile. Poi erano scoppiati entrambi a ridere.

«Ron, tutti finiscono per avere problemi con la testa, in un modo o nell’altro» aveva proseguito. «Ora, però, ho una scena del crimine, e mi serve che tu ci lavori su. Vai a prendere l’attrezzatura e poi percorri la griglia.»

Ovviamente l’aveva fatto.

Ron si levò il giaccone di ordinanza. Sotto indossava l’uniforme blu scuro a maniche lunghe del NYPD.

Thom offrì la zuppa anche a lui. Rhyme stava quasi per esclamare: Cosa siamo, una mensa per poveri? Però Pulaski declinò l’offerta.

Poco dopo, attraverso la finestra chiusa si udì il cupo ruggire di un’auto potente. Amelia Sachs era arrivata. Diede un ultimo colpo di gas, poi tutto tacque. Una volta entrata, appese a un gancio il giubbotto e si sistemò la cintura attorno ai jeans, spostando più indietro la fondina di plastica della Glock, così da stare più comoda.

Indossava un maglione verde-blu a collo alto, e sotto una T-shirt di seta nera. Rhyme l’aveva vista quella mattina, mentre si vestiva. Avevano ascoltato le previsioni meteo alla radio: anche quel giorno, come da una settimana, era previsto un freddo insolito per metà marzo. A Washington avevano visto appassire migliaia di fiori di ciliegio.

Sachs rivolse un cenno di saluto ai presenti e Sellitto rispose con la mano, intento a finire rumorosamente la zuppa. Adesso che gran parte della squadra era riunita – e sfamata, rifletté Rhyme con divertito cinismo – il detective diede il via alle spiegazioni.

«Circa un’ora fa: rapina e omicidio plurimo. Midtown Nord. Terzo piano, al 58 di 47th West; la Patel Designs, di proprietà di Jatin Patel, cinquantacinque anni. È uno dei deceduti. Tagliatore di diamanti, creava e vendeva gioielli. Era parecchio famoso, stando a quanto mi dicono. In ogni caso non sono tipo da gioielli, quindi non ne ho idea. Hanno tirato in ballo la Major Cases, che l’ha assegnato a me. E io sto coinvolgendo voi.»

In genere la divisione Major Cases, sotto la supervisione di un viceispettore del Detective Bureau di 1 Police Plaza, non si occupava di omicidi o rapine in negozi. E, siccome Sellitto aveva notato l’occhiata tra Rhyme e Sachs, passò a spiegare perché il caso costituiva un’eccezione.

«I nostri amici ai piani alti pensano che l’ultima cosa che ci serve è una rapina violenta nel Diamond District. Soprattutto se saranno presi di mira altri negozi. La gente smetterà di comprare. Una brutta cosa, sia per il turismo sia per l’indotto economico.»

«Anche le vittime non ne saranno entusiaste, che ne pensi, Lon?»

«Vi sto solo riferendo quello che hanno detto a me, Linc. D’accordo?»

«Va’ avanti.»

«Ora, c’è un altro particolare. E questo non è di dominio pubblico, al momento. Il colpevole ha torturato Patel. Il capitano incaricato di Midtown Nord pensa che non volesse dargli la merce migliore, aprire la cassaforte o chissà che. Così l’assassino ha usato un taglierino per farlo parlare. Molto brutto.»

E altra merda...

«Va bene, mettiamoci al lavoro» disse Rhyme. «Sachs: la scena. Io chiamo Mel Cooper. Tu sta’ fermo, Pulaski: per il momento ti tengo tra le riserve.»

Sachs recuperò il giubbotto, si agganciò due caricatori sul fianco sinistro e si diresse alla porta proprio mentre Thom entrava nel salottino. L’uomo le sorrise. «Oh, Amelia. Non ti avevo vista entrare. Hai fame?»

«Sì. Ho saltato colazione e pranzo.»

«Zuppa? Perfetta per una giornata fredda...»

Lei ricambiò il sorriso, ironica. Sfrecciare attraverso Midtown Manhattan a bordo della Torino Cobra, con i suoi 410 cavalli e il cambio manuale a quattro marce, rendeva problematica la gestione di ogni bevanda, figurarsi quella di una zuppa calda.

Tirò fuori le chiavi dalla tasca. «Magari più tardi.»