CAPITOLO 30

Deepro Lahori scese le scale che portavano al seminterrato, ascoltando i rumori provenienti dal laboratorio. Gli strumenti del figlio erano all’opera per modellare la pietra. Si fermò fuori dallo studio.

Era tardi, ora di andare a letto, ma il ragazzo continuava a lavorare. Poco prima avevano concluso la loro conversazione su una nota positiva, eppure Vimal mostrava adesso un atteggiamento passivo-aggressivo: la fresa urlava il suo messaggio di sfida al padre. Se l’era aspettato.

Che sciocchezza quella cosa della scultura. Che spreco di tempo, e di talento. Se fosse stato solo un hobby, pazienza. Anzi: scolpire poteva affinare le sue doti di tagliatore. E, in ogni caso, era sempre meglio dei videogiochi e delle ragazze. Ma Deepro sapeva che Vimal voleva una carriera da artista. Che stupido... Quanti artisti guadagnavano di che vivere con le proprie opere? Forse l’uno per cento? Come avrebbe fatto il figlio a trovarsi una moglie indiana, una moglie in cerca di qualcuno che si prendesse cura di lei, e che avrebbe mostrato rispetto solo all’uomo che la manteneva?

Voler dedicare la vita alla scultura era di per sé una follia, ma l’aspetto peggiore nel comportamento del figlio – quello più allarmante e doloroso – era l’offensivo rifiuto del retaggio paterno. La famiglia Lahori si era ritagliata un ruolo nel mondo dei diamanti. Rifiutarne la storia era un peccato, e Vimal era l’unico della famiglia a poter continuare la tradizione. Sunny ci aveva provato, ma non aveva talento. Al lapidello era a dir poco imbarazzante. Così avrebbe seguito le orme di sua madre nell’ambito medico (ma sarebbe stato un dottore, non un semplice infermiere come Divya). Deepro Lahori, però, aveva bisogno che un figlio seguisse le sue.

Si avvicinò alla porta dello studio, fermandosi quando la fresa tacque.

Aveva finito per quella sera?

No, lo sferragliare riprese. Vimal non avrebbe sentito ciò che il padre stava per fare. Con mano tremante, l’uomo prese una chiave dalla tasca e, pur con qualche difficoltà, chiuse la porta dello studio. Inserì anche la sbarra di sicurezza, che da un rientro sopra la maniglia andava a infilarsi in un foro nel pavimento, con un angolo di quarantacinque gradi; quindi la bloccò con un lucchetto. La sbarra era di acciaio temperato, spessa due centimetri; nella pubblicità, il produttore assicurava all’universo mondo che solo una fiamma ossidrica capace di raggiungere i duemila gradi l’avrebbe tagliata. Deepro pensò che anche una sega diamantata ci sarebbe riuscita. Così, per la cronaca.

Adesso Vimal era imprigionato. Non solo la porta era chiusa: siccome anni prima quello era un laboratorio per la lavorazione dei diamanti, la bassa finestra era dotata di spesse sbarre di ferro.

Deepro si congratulò con se stesso per lo stratagemma usato: aver messo il figlio a proprio agio, acconsentendo a un «compromesso». Se Vimal avesse sospettato qualcosa non sarebbe mai sceso in quella stanza. L’insubordinato ragazzo sarebbe fuggito all’istante, anche senza soldi e documenti.

Andare in California? Uno Stato la cui unica pretesa di vanto, secondo Deepro, poggiava sui miliardi di dollari ricavati dalla vendita di diamanti in negozi come quelli di Rodeo Drive? Infilò le chiavi in tasca.

Che tipo, Vimal! Aveva le potenzialità per diventare uno dei più grandi diamantaire del ventunesimo secolo... Quel taglio a parallelogramma! Genio, puro genio.

Deepro Lahori non aveva in mente un piano preciso, a parte tenerlo laggiù per un mesetto. Era certo che nel frattempo la polizia avrebbe acciuffato l’assassino, e il ragazzo sarebbe tornato in sé. Di sicuro era stato l’orrore della rapina – evitare per miracolo i colpi di una pistola, vedere il cadavere del mentore – a turbarlo fino a quel punto, a fargli perdere l’equilibrio interiore. Era temporaneamente incapace di intendere e volere, decise Deepro. Un mese di quella terapia l’avrebbe riportato alla ragione, levandogli anche dalla testa eventuali ragazze alle quali era vulnerabile. Ragazze non indù.

Un accenno di rimorso. Deepro rammentò a se stesso che non era disumano, niente affatto. Amava profondamente il figlio. Il ragazzo avrebbe trovato un comodo sacco a pelo nell’armadio, insieme a cibo, snack, acqua e bibite a volontà. E, siccome sospettava che bevesse, aveva aggiunto della birra a bassa gradazione. C’era persino un televisore. Niente Internet o telefono, ovvio: c’era il pericolo che, in preda allo shock, il ragazzo chiamasse un amico a tirarlo fuori di lì. O magari la polizia, sostenendo di essere stato sequestrato.

La scelta di Deepro avrebbe creato sulle prime un certo attrito tra loro, ma prima o poi Vimal avrebbe capito che il padre sapeva cos’era giusto per lui. L’avrebbe persino ringraziato. Non che l’uomo mirasse a ringraziamenti di sorta, né voleva che il figlio gli desse ragione: a lui interessava solo che il ragazzo capisse, che abbracciasse la vita cui era destinato.

Afferrò la sbarra e provò a scuoterla. Non si mosse di un millimetro.

Era soddisfatto. E, finalmente, più o meno felice. Negli ultimi giorni gli eventi l’avevano messo a dura – nonché ingiusta – prova. Salì le scale.

Si sentiva proprio in vena di fare quella partita a Scarabeo, e sapeva che la moglie e l’altro figlio – il figlio buono – l’avrebbero accontentato.