L’ufficio del procuratore era silenzioso.
Era uno di quei momenti – inizio sera, giorno feriale – che Henry Bishop apprezzava. Gran parte dell’edificio si era ormai svuotato del personale impiegatizio, e quelli che restavano erano leali, diligenti e assolutamente concentrati.
Il genere di persone che lo snello e nervoso procuratore preferiva.
Lì si sentiva a casa, non come nell’appartamento dell’Upper West Side dove viveva da tredici mesi e mezzo, solo.
Gli occhi puntati nell’oscurità della sera, pensò al caso El Halcón. Tutti i procedimenti che Bishop seguiva erano importanti, ma il suo spiccava tra quelli avviati di recente. I reati commessi dal messicano – l’aggressione ai federali e ai poliziotti locali – erano terribili, ma a richiedere che l’uomo fosse fermato subito erano soprattutto quelli che avrebbe commesso, se fosse stato libero di espandere la propria attività negli Stati Uniti.
Una massima ripetuta spesso nel suo ambiente sosteneva che non si potesse processare qualcuno per reati futuri. Tuttavia, Hank Bishop era convinto che non fosse del tutto vero: potevi processare un malvivente per il reato effettivamente commesso, metterlo sotto chiave il più a lungo possibile e «risolvere» così il problema dei suoi crimini di là da venire.
E lui voleva assicurarsi che El Halcón restasse fuori dai giochi per molto, molto tempo. Avrebbe così ritardato di parecchio l’espansione del cartello messicano negli Stati Uniti, limitando drasticamente il flusso di droga che pioveva nel Paese. Il che significava anche meno poliziotti ammazzati, meno morti per pallottole vaganti, meno prostituzione minorile, meno contrabbando di armi e riciclaggio di denaro... Tutte attività sussidiarie dell’impero di El Halcón.
Riflettendo sul proprio obiettivo, a Bishop venne in mente una delle note dolenti del procedimento: non aver scoperto l’identità del socio americano di El Halcón. Quell’uomo avrebbe gestito l’attività quando il messicano fosse tornato in patria, ed era inoltre il vero proprietario del magazzino. Chris Cody, l’uomo ucciso nella sparatoria, era semplicemente un prestanome, e Bishop lo sapeva.
Quanto avrebbe voluto poter processare anche il complice...
In ogni caso, già mettere in prigione El Halcón avrebbe rallentato l’espansione del crimine organizzato messicano negli Stati Uniti.
Qualcuno bussò sullo stipite della porta.
L’agente speciale Fallow era sulla soglia.
«Vieni, entra.»
L’uomo attraversò l’ufficio a grandi passi e si sedette impettito dall’altro lato della grande scrivania di Bishop, coperta da centinaia di fascicoli.
«Allora?»
Fallow aprì una cartellina e ricontrollò i propri appunti. «Penso che siamo a posto. Un nostro informatore di Città del Messico conosce uno dei tizi dell’entourage di Carreras-López.»
Bishop amava gli informatori, le talpe, gli spioni: codardi o privi di coscienza che fossero, si dimostravano sempre estremamente preziosi.
L’agente continuò. «A quanto pare, è vero: Lincoln Rhyme è stato assunto per cercare manomissioni nelle nostre prove. Quanto all’operazione bancaria alla Chase, era un prelievo: un acconto consegnato a Rhyme. Se il criminologo ottiene risultati, si becca mezzo milione tramite bonifico. In caso contrario, intasca comunque duecentocinquantamila bigliettoni, anche se non trova falle nel nostro caso.» L’agente fece spallucce. «Però, niente di illegale. Ho provato a cercare conflitti di interesse, ma non ha mai avuto alcun legame con la difesa o gli agenti coinvolti. Niente.»
Bishop replicò con una risata di scherno. «E cosa pensa di trovare? Siamo blindati, giusto? Assolutamente blindati.»
Fallow si limitò ad annuire.
«Perché Rhyme vorrebbe indebolirci? Non sa che razza di bastardo sia El Halcón? Che pericolo rappresenti?»
Un’esclamazione forse un tantino melodrammatica, ma a Bishop capitava spesso di arringare le persone – e se stesso – come se si trovasse davanti a una giuria.
«I prossimi passi, signore?»
«Hai individuato l’agente che si è introdotto nell’ufficio dell’ERT?»
«Sì: Ronald Pulaski. Tecnicamente in servizio di pattuglia, ma in genere lavora ai Major Cases. Nessuna nota disciplinare. Menzioni per coraggio.»
In altre circostanze, Henry Bishop si sarebbe fatto degli scrupoli a mettere in cella un agente pluridecorato, ma la collaborazione di Pulaski con Rhyme era un palese reato. Stupido, per di più. Avrebbe dovuto starne fuori. Inoltre Pulaski era maschio e presumibilmente bianco: più facile distruggergli la carriera.
«Formalizziamo delle accuse nei confronti di Pulaski?» chiese Fallow. «Dobbiamo colpirli forte, direi. Farli fuori una volta per tutte.»
Farli fuori una volta per tutte? Anche se non avrebbe scelto quelle parole, Bishop ne condivideva il senso.
L’agente continuò: «Ostruzionismo, collusione...».
«Furto di documenti governativi.»
«Ottimo.»
«Probabilmente ha violato anche dei regolamenti interni del NYPD: norme sul segreto professionale e i protocolli da seguire. Ma lasceremo che se ne occupino i loro Affari interni. Quando uscirà dalla prigione federale in cui intendo spedirlo, tra dieci anni, lo Stato potrà farne ciò che vuole. Prepara un mandato per Pulaski, e vai a prelevarlo il prima possibile.»
Prima che lui e Rhyme trovino una delle irregolarità che sono incaricati di cercare.
«Ha intenzione di lasciare che Rhyme...?» chiese Fallow.
«No. Lo accuseremo di aver ricevuto fascicoli governativi rubati. Ci sono strutture in grado di accoglierlo?»
«Isolamento in infermeria.»
«Bene.»
«Ha un badante.»
«Un cosa?»
«Un assistente. Qualcuno che si prende cura di lui.»
Bishop sghignazzò. «Be’, non andrà dentro con lui. Ci saranno delle infermiere o dei portantini che possono occuparsene.»
«Chiamo l’ala medica» disse Fallow.
Bishop guardò fuori dalla finestra. «Un’altra cosa. Voglio assicurarmi che tutte le forze dell’ordine del Paese sappiano cosa ha fatto Rhyme. Non lavorerà mai più come consulente. Spero abbia un buon piano pensionistico, perché quando sarà uscito di prigione passerà il resto della vita a casa, a guardare soap opera.»