«Allora, kuriza, come devo chiamare te? Quale nome? Certo non signor Andrew Krueger, giusto?»
«Usare il mio vero nome? Che ti salta in mente, Vladimir? No, sono Edward Ackroyd.»
«Sì, sì. Mi piace. Stronzo distinto. È persona vera?»
Krueger non si prese la briga di spiegare che aveva rubato l’identità a un vero dipendente della Milbank Assurance, compagnia che assicurava centinaia di diamanti, miniere e grossisti. Come aveva detto a Rhyme, Ackroyd era un ex detective di Scotland Yard, attualmente capoinvestigatore della Milbank. A parte questo, Krueger non sapeva niente di lui. Si era inventato tutto quanto, compreso l’inciso sui gusti sessuali: aveva scelto di rendere omosessuale la sua versione fittizia di Ackroyd, per penetrare in modo sottile le difese di Rhyme. Quell’uomo pareva sensibile all’argomento «tolleranza». (Krueger aveva raccontato al proprio socio in affari – Terrance DeVoer, l’uomo più etero del mondo – che loro due adesso erano sposati. Il sudafricano si era divertito un mondo.)
Anche i cruciverba – uno dei passatempi di Krueger – avevano lo scopo di ingraziarsi il criminologo. Quanto alle proprie origini, aveva diversi clienti britannici e non aveva faticato a farsi passare per un cittadino del Regno Unito.
Sul sedile del conducente dell’auto a noleggio, Krueger si scostò dal russo. Rostov puzzava; un odore pungente di sigaretta, cipolla e una dose eccessiva di dopobarba da supermercato. «E tu? Non sei Vlad Rostov, presumo.»
«No, no» rise il russo. «Quanti cazzo di nomi, settimana scorsa... Adesso sono Alexander Petrovich. Atterrato come Josep Dobyns, ma adesso Petrovich. Piace di più. Dobyns poteva essere ebreo. Tu piace Alexander? Io sì. Era solo passaporto che stronzo a Brighton Beach aveva. Fatto pagare una fortuna. Piace Brighton Beach. Vai mai?»
Nel mondo della sicurezza dei diamanti, Rostov era noto per essere una mina vagante, nonché alquanto folle. Quel parlare sconclusionato era un classico.
«Sai, Vlad...»
«Alexander.»
«... non sono qui per andarmene a spasso.»
«Ah, no, non siamo turisti, tu e io.»
Adesso Krueger si sentiva più a suo agio. Aveva superato lo shock dell’apparizione improvvisa; e poi si aspettava che prima o poi Rostov si sarebbe fatto vedere. Trovava riposante non essere costretto a usare l’accento britannico. Stava diventando fastidioso. In realtà lui era sudafricano, e la sua cadenza naturale era quella di un afrikaner che parli inglese. Ma con Lincoln Rhyme, Amelia Sachs e gli altri aveva fatto attenzione, sforzandosi di usare accento e lessico dell’alta società britannica.
Una facciata sopra l’altra... Che settimana intensa aveva passato!
Era Andrew Krueger, non Vladimir Rostov, il vero criminale, quello che la polizia chiamava Sosco 47: l’uomo che aveva ucciso Jatin Patel e Saul Weintraub. E che, nei panni di Edward Ackroyd, era riuscito a infiltrarsi nelle indagini sul caso.
Krueger era rimasto sorpreso quando il Promittente aveva fatto la sua comparsa, fingendosi lui e usando persino passamontagna, guanti e taglierino. Non ci aveva messo molto a capire che probabilmente si trattava di Rostov. Lui o il suo uomo a Mosca dovevano aver hackerato i computer e i telefoni di Krueger, ottenendo in tempo reale i dettagli sui suoi progressi, mentre il sudafricano aggiornava la propria società o il committente. Rostov sapeva tutto dei crimini di Krueger, e c’era arrivato ben prima della polizia.
Lui aveva cambiato i telefoni e usato nuovi proxy, ma alla fine aveva mandato un messaggio da un dispositivo che sapeva essere controllato. ROSTOV, CONTATTAMI. Però si era aspettato una telefonata, non l’improvvisa apparizione dell’uomo sul sedile del passeggero.
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Ah, tu metti tanta roba nelle tue e-mail ai clienti, amico mio. Negligente, negligente!»
Krueger accese l’auto. «Andiamo a parlare da un’altra parte. Abbiamo un problema, Vlad, e dobbiamo occuparcene.»
«Sì, sì. Possiamo andare a qualche ristorante? E, ricorda. Niet “Vladimir”. Sono Alexander. Alessandro Magno!»
* * *
Mezzora dopo, i due uomini erano in un ristorante di Harlem.
Andrew Krueger non conosceva bene New York – era arrivato in città appena una settimana prima, per mettere in atto il piano – ma era convinto che Harlem fosse a maggioranza nera e operaia, perciò riteneva improbabile imbattersi in qualcuno che fosse coinvolto nelle indagini. Fu un po’ sorpreso nel constatare che il modesto locale accogliesse tanti bianchi – soprattutto hipster – quanti neri.
In compenso era piuttosto gradevole. E un vero paradiso per Vladimir Rostov, in adorazione del Martha’s Authentic BBQ.
Krueger sorseggiava una Sprite. Aveva finto una passione per lo scotch single malt solo per insinuarsi ancor di più nel mondo di Rhyme e Sachs. In realtà consumava pochissimo alcol, perlopiù Pinotage rosso, vino del suo Paese di provenienza.
Il russo era al secondo bourbon. Ebbe un accesso di tosse. «Fottute sigarette.» Tirò su il bicchiere. «Questo aiuta. Fa bene.»
Krueger sapeva che Rostov aveva lavorato nelle miniere siberiane di diamanti sin da ragazzo. No, i suoi polmoni malconci non stavano collassando per via delle sigarette; o non solo, almeno.
Le strade – e le «spade» – di Krueger e del russo si erano incrociate per anni; il sudafricano era ben conscio che l’altro era una persona fuori dall’ordinario. Forte bevitore (nonostante odiasse la bevanda nazionale, la vodka), era anche un amante del cibo. Al momento stava consumando con foga la sua ordinazione: costolette di maiale – pareva un chilo di carne – e una montagna di contorni ricchi e saporiti.
Krueger piluccò l’insalata che aveva scelto. Era in crisi e non aveva fame.
Notò che gli occhi di Rostov stavano seguendo il sedere della cameriera. Una donna alta e massiccia, la cui pelle aveva il colore di un toast cotto alla perfezione. Gli appetiti del russo erano insaziabili.
«Come mi hai chiamato?»
«Chiamato?»
«Prima, in auto.»
Una risata sonora. «Dico “kuriza”. “Mia piccola kuriza.” È gallina. Un uccello. Tutti sono kuriza, per me! E forse io sono kuriza per qualcuno. Ti voglio bene, Andrew, tu questo sa. Tu sei mio fratello, mio padre!»
Guardandosi attorno furtivo, Krueger sospirò. «Come dicono da queste parti: abbassa il volume.»
«Ah, sì, sì.» Rostov strappò la carne di una costoletta con i suoi denti gialli e prese a masticarla. Un sorriso inquietante si allargò sul suo volto. «Salut!» Accostò il bicchiere a quello di Krueger. «A te, amico mio. A te. Tu sei genio. Che cazzo di piano fantastico hai pensato... Genio!»
Krueger serrò le labbra. «Solo che non è andata proprio come speravo.»
Abbiamo un problema...
«Allora» chiese Rostov abbassando la voce, «tu lavora per Nuevo Mundo Minería, di Città del Guatemala?»
L’aveva scoperto hackerandogli il computer... Stramaledetti russi.
«Esatto. Un cliente nuovo, non ho mai lavorato per loro. Li conosci?»
«Ho sentito parlare, sì, sì.»
«E tu sei qui per conto della Dobprom, dico bene?»
L’azienda moscovita a partecipazione quasi completamente statale, che aveva il monopolio dei diamanti in Russia. Il nome era una contrazione di dobyca, «estrazione mineraria», e promyšlennost, «industria». La più grande società di estrazione e distribuzione diamantifera al mondo. E Rostov era un loro «risolutore» abituale. Si occupava di sistemare problemi di vario genere...
«Per chi cazzo altro lavoro? Guarda miei vestiti di merda, mia pancia grassa per mangio cibo scadente... Dimmi, kuriza, Nuevo Mundo paga te in anticipo?»
«Metà.»
«Ah, a me, mai! ’Fanculo Marx, Lenin e Stalin!» Ammiccò e annaffiò un boccone di carne con una sorsata di bourbon.
Krueger sospirò.
Il «cazzo di piano fantastico» – e le circostanze che avevano portato i due uomini a incontrarsi a New York – aveva preso avvio qualche settimana prima, grazie a un curioso episodio.
Un contractor – ovvero un risolutore prezzolato – che lavorava per la Nuevo Mundo Minería aveva contattato Krueger, informandolo che il famoso diamantaire di New York Jatin Patel era entrato in possesso di un lotto di kimberlite estratta dalla Northeast Geo Industries nel loro cantiere a Brooklyn. Le analisi avevano mostrato che la roccia era ricca di diamanti, grezzi di ottima qualità. Certo, era probabile che si trattasse di un episodio isolato: la serpentinite, una pietra affine alla kimberlite ma non altrettanto ricca di diamanti, era comune a New York.
Però, se la vena era invece consistente e la qualità alta come sembrava, una volta che il proprietario del terreno fosse venuto a conoscenza della scoperta avrebbe concesso in licenza i diritti di estrazione a una società mineraria americana. La nuova produzione rischiava di far calare il prezzo dei diamanti in tutto il mondo. E, peggio ancora, una miniera di diamanti statunitense avrebbe avuto un ampio vantaggio commerciale su quelle straniere. Perché i consumatori avrebbero dovuto acquistare diamanti di provenienza sospetta, quando le miniere USA erano indiscutibilmente etiche? Sarebbe stato un totale disastro per le miniere d’oltreoceano. Gli Stati Uniti rappresentavano più della metà degli acquisti di diamanti al dettaglio, un giro di affari di circa quaranta miliardi di dollari l’anno.
Il contractor aveva quindi proposto alla Nuevo Mundo di pagare alla società di Andrew Krueger un milione di dollari, per una delle sue specialità: «calibrare al ribasso la produzione».
In altre parole: sabotaggio, minacce, corruzione e talvolta di peggio, per fare in modo che certi giacimenti preziosi – compresi quelli di uranio e simili – non vedessero mai la luce del giorno. L’industria dei diamanti aveva una lunga e violenta storia di soppressione della produzione e della concorrenza.
Il piano ordito dal contractor era geniale. Krueger doveva estorcere a Jatin Patel il nome di tutte le persone a conoscenza della kimberlite, poi eliminarlo e uccidere anche gli altri. Nel frattempo, l’uomo della Nuevo Mundo avrebbe corrotto un dipendente della Northeast Geo perché fornisse accesso al cantiere: il sudafricano avrebbe raccolto tutta la kimberlite possibile, allo scopo di sbarazzarsene, e avrebbe quindi calato delle cariche esplosive in alcuni pozzi, sigillandoli con la malta. Senza dimenticare le bombe sulle condutture del gas dei palazzi vicini.
Ogni carica di C4 era programmata per esplodere poco prima che una conduttura saltasse in aria. Questo avrebbe simulato un sisma e le sue catastrofiche conseguenze.
Così, l’amministrazione comunale avrebbe fatto chiudere il cantiere, scongiurando il rischio che venisse estratta altra kimberlite.
Krueger aveva piazzato gli ordigni e poi era passato all’eliminazione di chiunque sapesse della kimberlite.
Sotto la minaccia della sua lama, Jatin Patel aveva fatto il nome di Saul Weintraub, giurando che nessun altro sapeva del minerale. Eppure, dopo che Krueger l’aveva ucciso, al negozio era arrivato quel giovane, che ora aveva anche un nome: Vimal Lahori. Aveva il codice di apertura della porta, quindi era chiaramente un dipendente. Krueger gli aveva sparato, ma quello giovane era riuscito a fuggire. Ed era chiaro che anche lui fosse a conoscenza della kimberlite: il proiettile aveva colpito un sacchetto che conteneva proprio quel minerale.
Sapendo che il ragazzo avrebbe chiamato il 911 da un momento all’altro, Krueger aveva dovuto improvvisare. Non aveva tempo per sfogliare tutte le carte di Patel e scoprire la sua identità, e una rapida ricerca non aveva portato a niente. Poi – guardando le buste con i diamanti che aveva sparpagliato a terra, per convincere la polizia che si trattasse di una banale rapina – gli era venuta un’idea. Un’idea assurda, certo, ma lui era in una situazione d’emergenza.
Avrebbe fatto in modo che la polizia lo aiutasse a trovare il ragazzo, e chiunque altro fosse a conoscenza della scoperta.
Proprio come Rostov, nel suo lavoro di mercenario per l’industria dei diamanti e dei metalli preziosi Krueger ricorreva spesso al furto di identità. Avrebbe adottato quella tattica.
Nel negozio di Patel aveva trovato una busta per diamanti vuota; vi aveva scritto sopra nomi e specifiche di quattro grezzi da svariati milioni di dollari, insieme al nome Grace-Cabot, una vera azienda sudafricana. Ma il numero di telefono che aveva aggiunto era quello di un prepagato di Terry DeVoer, il suo socio in affari in Sudafrica.
Krueger aveva lasciato la busta su una postazione di lavoro, aveva recuperato l’hard disk con il filmato della telecamera di sicurezza ed era fuggito. Poi aveva contattato DeVoer a Città del Capo, perché modificasse il messaggio della segreteria telefonica e si preparasse a una chiamata da parte della polizia. Doveva impersonare il ruolo di Llewellyn Croft, un vero dirigente della Cabot-Grace. «Croft» si sarebbe mostrato turbato per la perdita, quindi avrebbe indirizzato la polizia all’investigatore della compagnia assicurativa: un uomo esperto nel rintracciare diamanti, e in grado di assisterli.
A quel punto, come già fatto in passato, Krueger aveva assunto l’identità di Edward Ackroyd, dipendente della compagnia assicurativa Milbank Assurance. Ackroyd, più o meno suo coetaneo, era britannico; un ex detective di Scotland Yard. Sul sito della Milbank non comparivano sue foto, e lui si era fatto stampare dei biglietti da visita con il numero di un telefono prepagato.
Assurdo, già. Quel castello di carte poteva crollare da un momento all’altro. Ma c’era anche una possibilità, per quanto piccola, che funzionasse. Aveva dovuto correre il rischio.
La fortuna l’aveva assistito, almeno per un po’. La polizia aveva creduto alla sua storia, le cariche di C4 erano esplose secondo i piani, gli incendi avevano arrostito un po’ di persone, l’amministrazione cittadina aveva fermato le trivellazioni, lui aveva trovato e ucciso Saul Weintraub e fatto progressi nell’individuare l’apprendista di Patel.
Poi, però, era andato a sbattere contro un muro di mattoni: Lincoln Rhyme e Amelia Sachs erano riusciti a collegare due parti del piano che non dovevano essere collegate. Ovvero che il responsabile della morte di Patel era stato nel cantiere. E, peggio ancora, che c’era lui dietro ai falsi terremoti. Ricordava con ansia il momento in cui Rhyme l’aveva convocato per descrivergli in ogni dettaglio, grazie alle riprese delle telecamere a circuito chiuso, cosa aveva davvero in mente il sospettato.
Ecco perché si trova qui: per piazzare cariche di C4 e IED sulle condutture del gas, così da simulare dei terremoti.
Krueger aveva dovuto fare appello a tutto il suo autocontrollo per restare calmo. Era certo che Rhyme si sarebbe rivolto a lui dicendo: «So che sei tu! Arrestalo, Amelia».
E invece no, la messinscena aveva retto. Inoltre, grazie a Dio, Rhyme e Sachs non avevano fatto il collegamento più importante, quello tra il cantiere e i diamanti. Anche loro avevano identificato la kimberlite, ma non avevano intuito il significato della scoperta: dietro tutto quel putiferio c’era l’intenzione di occultare una vena a Brooklyn.
Poi, come se non bastasse, era comparso l’instabile ficcanaso russo, Vladimir Rostov, e si era immischiato nel suo piano.
«D’accordo. Quindi hai deciso di diventare il mio Doppelgänger e...»
«Cosa cazzo è?»
«Un doppio, sai. Insomma, mi hai imitato. Mi hai sentito al telefono, mentre parlavo dei testimoni che dovevo trovare, e hai deciso di darmi una mano.»
«Sì, sì. Io trovo questo stronzo iraniano, Nashim, e lui mi porta a amico di Vimal, Kirtan. Questo mi dà nome di Vimal e fidanzata, Adeela. Sono bravo detective, eh? Tenente Colombo!» Un’alzata di spalle. «Sono andato vicino. Ma non ha funzionato.» Fece una smorfia. «Cazzo.»
Krueger gli domandò, di punto in bianco, perché l’avesse fatto. Dobprom e Nuevo Mundo condividevano lo stesso obiettivo: mantenere segreto il filone di diamanti. Perché non lasciare che fosse Krueger a occuparsene?
Rostov vuotò il bourbon e puntò uno stuzzicadenti verso il sudafricano. «Ascolta, amico. Spero non offendere te se dico questo, ma è faccenda molto grossa. Che succede se combini casino? Quella kimberlite... Oh, è amore! Ho letto rapporti di esami. Sai carati per tonnellata?» Accennò a un punto fuori dalla finestra, probabilmente per indicare il cantiere di Brooklyn. Poi, quasi con soggezione, sussurrò: «È come produzione di Botswana».
Nonostante la ricchezza delle singole vene variasse in maniera considerevole, nell’ambiente si seguiva una regola empirica: in media, una miniera doveva trattare dalle cento alle duecento tonnellate di roccia per produrre un carato di diamante di qualità. Nella nazione africana del Botswana, la concentrazione di diamanti in un filone era dieci volte maggiore. La migliore del mondo.
La vena scoperta a New York aveva le stesse caratteristiche.
«Prosti... Mi scusa... Io molto dispiaciuto, kuriza, se tu triste. Ma non potevamo correre rischio. Perciò, su col morale! Sono qui per aiutare. Tu sei Batman, io Robin. Dammi pacca su schiena!»