E adesso?
Vimal Lahori risalì in strada, emergendo dall’opprimente aria salmastra della metropolitana. Nella galleria c’era anche un vago sentore di urina.
Inspirò a fondo. Il cielo era grigio, la giornata fredda e umida. Superò alcune case unifamiliari, modeste abitazioni dal giardino curato in cui vivevano mariti e mogli con i loro figli piccoli. Lo sapeva, anche se non c’era traccia visibile di ragazzini: a differenza dei sobborghi, in città quei rettangoli verdastri non venivano invasi da tricicli e giocattoli.
Non c’era molta gente per strada. Una donna con l’impermeabile giallo e una busta della spesa. Un uomo d’affari. Entrambi tenevano la testa bassa, le spalle sollevate contro il vento gelido. A che tipo di case facevano ritorno? Accoglienti, confortevoli, Vimal ci avrebbe scommesso. E in fondo non aveva importanza che fossero solo congetture: li invidiava perché voleva invidiarli.
Si fermò a guardare un foglio di giornale che svolazzava portato dal vento. Atterrò sul marciapiede vicino a lui.
Carta batte sasso. Si lasciò andare a una risata sommessa.
Si accovacciò e studiò la pietra ai suoi piedi. Il marciapiede dell’isolato era vecchio di un secolo, forse più, realizzato con quella che chiamavano bluestone. Il nome, usato per indicare rocce in realtà diverse, non derivava dal colore originale del materiale – che era grigio – ma da quello dato dall’invecchiamento. Con il tempo la pietra si trasformava, assumendo sfumature azzurre e, a volte, persino verdi o rosse. Vi appoggiò sopra la mano, chiedendosi come sarebbe stato scolpirla. In quel pezzo in particolare vedeva un bassorilievo raffigurante un pesce. Un buon complemento per la sua scultura L’onda. Sarebbe stato facile scolpirlo: come Michelangelo, si sarebbe limitato a rimuovere le porzioni di lastra che non facevano parte della carpa koi.
Rialzatosi, si incamminò verso casa.
Quei pensieri piacevoli – il pesce, gli strumenti da scultore che lo aspettavano nel laboratorio – furono di colpo oscurati dall’immagine dei piedi immobili del signor Patel, rivolti verso il soffitto dello studio. Continuavano a tormentarlo, si ripresentavano ora dopo ora. A sua volta, il loro ricordo fu sostituito da quello del padre che lo imprigionava nel seminterrato. E poi il tradimento del figlio del signor Nouri, la morte del signor Weintraub, la polizia...
E i diamanti. Era tutta colpa dei diamanti.
Un fremito di rabbia.
Poi, la domanda tornò ad affacciarsi alla sua mente.
E adesso?
Di lì a pochi minuti, Vimal avrebbe rivisto suo padre. Cosa avrebbe detto l’uomo? Lui era sempre deciso a lasciare la città, ma ora non aveva più una scusa per fuggire. Non c’era un killer a cercarlo, e il timore pretestuoso di finire in arresto per aver «rubato» la kimberlite di Patel si era rivelato del tutto infondato. L’orrore era finito. Quindi il padre avrebbe fatto pressioni perché restasse. Vimal avrebbe avuto il coraggio di dire di no?
Pur al sicuro dal killer, non si sentiva affatto meglio. Quanto era crudele quella cosa?
Be’, avrebbe detto no. Lo stomaco gli si annodò al solo pensiero, ma l’avrebbe fatto. Si ritrovò a camminare sempre più adagio, e notare la potenza di quel freno inconscio quasi lo divertì.
A due isolati da casa passò di fronte a un vialetto che portava sul retro di una villetta in mattoni.
«Qualcuno mi aiuti! Sono caduto!» Una voce maschile, che gridava.
Vimal guardò nel vicolo. Era l’uomo d’affari che aveva visto poco prima. Giaceva a terra accanto alla propria auto.
Il giorno prima si sarebbe insospettito; ma adesso, con la morte di quel russo, non temeva più per la propria incolumità. Non lì, almeno. A Manhattan, nel Diamond District, stava sempre allerta. Non altrettanto in quella parte del Queens. E di rado i rapinatori avevano l’aspetto di ragionieri o indossavano soprabiti eleganti.
L’uomo era scivolato. Teneva la gamba piegata e se la stringeva, gemendo.
«Oh, grazie al cielo» esclamò nel vedere Vimal. «Per favore, ce la fai a prendere il mio telefono? Mi è caduto sotto l’auto.» Una smorfia di dolore.
«Certo. Non si preoccupi. È rotta? La gamba, intendo...»
«Non lo so. Non credo, ma se la muovo mi fa male.»
Vimal l’aveva quasi raggiunto quando vide qualcosa nei cespugli. Un riquadro bianco. Un’insegna metallica. Si fermò a leggere.
VENDESI
IN TRATTATIVA
In basso c’era il nome dell’agenzia di intermediazione. Lanciò un’occhiata alle finestre dell’abitazione. Buie.
All’istante capì che l’uomo non viveva affatto lì. Era una trappola: quel tizio aveva staccato il cartello dal giardino e l’aveva nascosto per adescare Vimal.
Merda.
Fece per fuggire, ma l’altro fu più veloce e lo afferrò. L’uomo non era grosso; i suoi occhi, del colore dell’agata gialla, erano placidi. Eppure, quando sbatté Vimal contro la fiancata dell’auto, il colpo lo stordì. L’aggressore schivò senza difficoltà il pugno approssimativo del giovane e, calatosi su un ginocchio, gli assestò un cazzotto allo stomaco. Vimal alzò una mano in segno di resa, poi vomitò.
L’uomo si guardò attorno per accertarsi che fossero da soli.
«Hai intenzione di vomitare di nuovo?» Una voce dall’accento strano.
Vimal fece di no con la testa.
«Sicuro?»
Chi era? Un amico del russo?
«Cosa...?»
«Sei sicuro che non vomiterai di nuovo?»
«Sì.»
L’uomo gli legò le mani con del nastro adesivo argentato e lo tirò verso il portabagagli dell’auto. Sembrava indeciso se mettergli il nastro anche sulle labbra: forse temeva che potesse vomitare ancora e soffocare. Scelse di lasciargli la bocca libera. A quanto pareva, era deciso a tenerlo in vita.
Almeno per il momento.