MAI PRIMA di allora il basket era sembrato così... liberatorio.
Xander si comportò esattamente come sempre, tranne che, ora, lo faceva senza paura. Aames e Burkins sapevano. Diamine, forse lo sapeva l’intera squadra. Ma lo invitavano a bere ed erano orgogliosi di giocare con lui e nonostante quello che gli urlava dietro il coach mentre correva, quel genere di pensieri dava fiducia a un uomo.
E poi era in campo per Chris.
Stare in campo per Chris aveva fatto la differenza nel secondo girone. Le ossa di Chris stavano guarendo e la fisioterapia era ancora a mesi di distanza, ma quando Xander guardava i medici cambiare le bende, quando vedeva il sangue del suo innamorato colare da ferite ancora aperte, quando vedeva i punti in cui le ossa rotte avevano tagliato i muscoli e la pelle, Xander aveva due possibilità.
Una era correre fuori dalla stanza, singhiozzando e vomitando, perché, oh, Dio... oh Dio. Chris. Chris, il cui corpo era stato così bello, che era stato così solare ed esuberante, così vitale, persino nel sonno... oh Dio. Piccolo. Tutto quel dolore...
Ma quella non era un’opzione. Chris guardava il proprio corpo distrutto e ci scherzava sopra: “Oddio! Potrei essere il cattivo di un film di Austin Powers!”
“Pensavo tu fossi già Goldmember.” (Xander era riuscito a sorridere a quella battuta: non disse mai quanto gli era costato quel sorriso.)
“Amico! I complimenti sono sempre graditi! Ma questo?” gesticolò verso la gamba che stavano ribendando mentre parlavano. “Questo è epico. È tipo l’Uomo Arlecchino o la Trapunta Umana.”
Xander aveva fatto una smorfia. “Peggior. Supercattivo. Di. Sempre.”
Chris aveva girato la testa (forse per non guardare le ferite) e gli aveva mostrato la lingua. Gli avevano dato degli antidolorifici prima della procedura, per cui i suoi movimenti erano un po’ sonnolenti, ma Xander non dubitava che fosse consapevole, dolorosamente consapevole, della sua terribile perdita a ogni respiro. “No, quello era la Trottola, te lo ricordi?”
Xander grugnì. “Era un supereroe, genio, e insisto che i tuoi nomi fanno schifo.”
“Se ne hai uno migliore, Karcek, sputalo fuori!”
“Gambassurda,” disse Xander con un mezzo sorriso, al che Chris si lanciò in una risata fragorosa. Fu interrotto da un sussulto e la mano di Xander – intrecciata saldamente alla sua durante la procedura – sopportò in silenzio la morsa sofferente di quella di Chris.
Quindi scappare come un bambino dalla stanza non era un’opzione. Ma Xander quel giorno, mentre se ne andava, disse a Chris, come gli diceva tutte le volte che doveva andare a giocare: “Gioco per te. Corro per te, salto, tiro: è il tuo cuore nel mio corpo, capito?”
Fu l’unica volta in cui Chris lasciò trapelare il proprio dolore. I suoi occhi brillarono e lui deglutì a fondo e aggiunse: “Vinci, stronzo. Se giochi per me, è meglio che fai man bassa della concorrenza, d’accordo?”
“Certo!”
Il modo in cui Chris rispose al bacio, il suo sorriso allegro e spontaneo – anche se sfumato di dolore, era sempre un sorriso a cuore aperto – la stretta della sua mano in quella di Xander, erano quelle le cose che spingevano Xander in campo come se avesse avuto le ali. Erano loro a trasformare lo sport in gioia. Più di un giornalista disse che si poteva praticamente vedere il bagliore della perfezione nei movimenti di Karcek. E a ogni conferenza stampa, Xander diceva la stesa cosa.
“Dedico questa vittoria a Edwards.”
Mentre lo diceva, guardava il coach Wallick, e traeva una soddisfazione cupa nel vedere l’uomo distogliere lo sguardo.
LA CASA fu pronta e, ancora più importante, Chris fu pronto per la pausa dopo il secondo girone. (Quest’ultimo era durato sei settimane, ma Xander non si era preoccupato, neppure durante le due sconfitte.) Nel corso della pausa di una settimana, mentre le altre squadre giocavano le loro serie di partite, Chris tornò a casa.
Era stato sedato pesantemente durante il trasporto con l’aereo privato e si era svegliato il giorno dopo nel letto in anticamera, guardando fuori la grande finestra avvolgente con vista sul lago, nel posto che lui e Xander chiamavano casa.
Xander aveva dormito sul divano accanto a lui e si era svegliato in tempo per vedere nei suoi occhi la consapevolezza di essere a casa e che non se ne sarebbe mai dovuto andare.
“’giorno,” mormorò dolcemente Chris. “Bella visuale, eh?”
Folsom Lake non era il posto più bello del pianeta, anche se era una delle poche distese d’acqua in quella parte dello stato. “È perfetto,” disse onestamente Xander.
Chris voltò un poco la testa e disse: “Non stai nemmeno guardando il paesaggio, Xan.”
“Guardo ciò che devo guardare.”
Chris abbassò lo sguardo sulle proprie gambe, che sporgevano da sotto i tutori gonfiabili e le coperte. I suoi piedi erano rimasti relativamente indenni – la fisica delle ferite a volte era la più bizzarra e contorta delle magie – e lui mosse le dita nude.
“Anch’io,” rispose, riportando lo sguardo su Xander.
“Lo sai, vero?” chiese Xander, apprensivo.
“So cosa?”
“Io sarei qui anche se non funzionassero. Se tu non dovessi camminare mai più, o non sentissi nulla. Sai che ci sarei comunque. Ne sarei felice, per cui... non sai quanto sia contento che camminerai ancora. Ma tutto ciò di cui avevo bisogno una volta eravate tu e il basket. Ora ci sei solo tu. In qualunque forma tu sia, sei tutto ciò che voglio. Lo sai, vero?”
Chris sbatté in fretta le palpebre, e ancora, poi cedette e si asciugò gli occhi. “Oh, Xander. Vaffanculo. Perché? Perché devi dire cazzate come queste. Mi fai cadere le palle.”
Xander sorrise, godendosi la libertà che aveva di essere se stesso con Chris e con nessun altro.
“Beh, finché le tue palle fanno qualcosa, amico, penso che dovresti solo dire grazie e prendere le tue medicine.”
Chris emise un suono che avrebbe potuto essere una risata, ma suonava un po’ come un singhiozzo, e Xander cominciò ad aiutarlo con la sua routine mattutina.”
“È bene che io sia già gay, Chris, perché se dovessi maneggiare il tuo attrezzo ogni giorno per aiutarti a pisciare in una bottiglia, credo che diventerei gay per te in circa due giorni.”
“Già, adesso dici così, ma è perché non hai ancora dovuto aiutarmi a cagare in una lattina. Ti farà scappare dal mio culo più in fretta di quanto tu possa dire ‘merda liquida’.”
“Piccolo, nulla mi farà scappare dal tuo culo. Ora sbrigati a pisciare, devo farmi una doccia.”
Avevano un medico personale e un infermiere privato e, naturalmente, Lucia ad aiutarli a rimettere insieme i pezzi.
Chris era a casa da nemmeno due giorni che si resero conto di avere un altro potenziale dipendente in erba.
Xander tornò dall’allenamento tutto dolorante e trascinò il proprio culo oltre la porta, desideroso di null’altro che vegetare sul divano ingurgitando Gatorade come se fosse stato un elisir di lunga vita. Le settimane passate a fare il pendolare fra Colorado e Sacramento durante i playoff gli erano costate e Xander si sentiva nelle ossa di essere in debito di un bel po’ di sonno al dio dei corpi.
Audrey stava parlando con aria seria all’infermiere di casa, facendosi dare istruzioni riguardo ciò che poteva fare quando il padrone era via per lavoro.
Xander li guardò distrattamente, apprezzando molto il giovane. Era un ragazzo onesto e un buon lavoratore, con un’attaccatura di capelli che avrebbe cominciato a retrocedere prima dei trent’anni e un viso stretto e attraente, e gli piaceva far ridere Audrey.
Da parte sua, Audrey era interessata a tutto quello che lui diceva, da come dosare le medicine ai trucchi per spostare il corpo di Chris senza fargli male.
“Sopravvivrò,” scherzò Chris, dopodiché incontrò lo sguardo di Xander. Ci vedevano entrambi bene – c’era interesse, compatibilità – e il romantico dentro Xander (sepolto molto, molto in profondità, perché non aveva con le persone rapporti abbastanza buoni da far emergere quel tizio in superficie) annuì in segno di approvazione.
Forse la piccola Audrey aveva trovato un ragazzo che meritava di essere portato a casa o, in quel caso, nella sua stanza al Dormitorio di Chris & Xander per Ragazze Perdute.
Vedere il loro flirt bastò a risvegliare Xander dal coma indotto dal divano cosicché lui potesse porre la domanda che gli ribolliva in testa.
“Ehi, Peter, hai un minuto?”
Peter, l’infermiere etero, regolò uno dei tutori gonfiabili di Chris e avvolse bene la coperta intorno a quelle dita dei piedi che, grazie al cielo, si muovevano. “Certo signor Karcek, cosa le serve?”
Xander inarcò le sopracciglia all’indirizzo di Chris e chiese: “Quando potrà mettersi su una sedia a rotelle? So che avrà dei tutori solidi in un paio di giorni. Potremo portarlo in giro entro, diciamo, una settimana e mezza?”
Chris lo guardò incuriosito. “A che pensi, Xan?”
Xander sorrise, senza cercare di fare il misterioso, ma odiando doversi sbilanciare senza poter predire il futuro. “Sto pensando, se giochiamo contro New York fra sei partite, tu siederai in tribuna.”
Quel giorno Chris sembrava stanco. Il dolore, un dolore costante, poteva avere quell’effetto. E loro erano lì a riposare, entrambi sfiniti, entrambi circondati da frammenti di vita meravigliosi e frammenti di vita che rimpiangevano molto. Che lui potesse ancora sorridere con speranza e un certo entusiasmo era un tributo al magico ragazzo d’oro che ancora risiedeva nel cuore di Chris.
“Un po’ teatrale, no?” I suoi occhi scuri scintillavano un poco e sembrava che valesse la pena di sopportare il dolore per vedere Xander giocare.
“Piccolo, non ne hai idea. E tu, Pete, pensi che ce la farà?”
Pete-l’infermiere-etero guardò Chris pensieroso. “Credo che possiamo farcela,” disse dopo un momento. “Dovrò chiedere al medico e dovremo stendere un piano. Non consiglio di farlo spesso, ma, perché no. Una partita, giusto?”
“A meno che non arriviate in finale!” esultò Chris, eccitato alla prospettiva di uscire dalla sua prigione medica.
“Già,” disse Xander, guardandolo con il cuore in mano. “Chris, ehm... non contarci, va bene? Anche se dovessimo arrivarci, va bene?”
Chris parve ferito. “Cosa c’è, non posso andare a LA?” Perché il girone del campionato quell’anno era allo Staples Center.
Xander fece spallucce e sperò che Chris l’avrebbe perdonato per ciò che aveva in mente. “Potrai se te lo lasceranno fare,” disse dopo un attimo, ma non disse chi erano ‘loro’.
SEI PARTITE. Sei partite e Xander giocò ciascuna partita come se fosse stata l’ultima della sua vita. Aveva detto a Chris che giocava col cuore di Chris. Beh, il cuore di Chris era stato il suo da quando avevano quattordici anni: Xander giocava per entrambi ora. Ogni scatto sul campo, ogni rimbalzo della palla sul legno, ogni tiro, ogni recupero, ogni passaggio attraverso la reticella era per entrambi.
Per sei partite, Xander giocò come se la paura fosse stata un cane vecchio, cieco e senza denti.
Cinque di quelle partite Chris le guardò in televisione, chiedendo a tutti se Xander non sembrasse un dio, o era solo lui?
“Ma va, fratellone!”
“Gioca benissimo, signor Edwards.” (L’infermiere etero di Audrey era ancora leggermente in soggezione dei suoi datori di lavoro.)
“No, Edwards, ho ingaggiato quel bastardo e l’ho tenuto per mano cinque anni solo perché gioca come una iena travestita.” (Sia benedetto zio Leo, in ogni caso!)
“È sempre stato dorato come te, piccolo.” (Xander arrossì quando Chris gli disse che sua madre aveva detto questo; era certo che fosse sincera, il che rendeva la cosa imbarazzante.)
“Sei stato fantastico, Xan,” disse Chris dopo ogni partita. Anche dopo le due sconfitte, Chris glielo disse. “Ci sarebbe stato un divario astronomico se non fosse stato per te, amico, hai continuato a tenerli sotto pressione fino al suono della sirena, giusto?”
Xander sorrise un poco, seduto accanto a lui, mano nella mano. Non sembrava riuscire a smettere di baciare o di accarezzare quella mano; anche se sapeva che ci sarebbero voluti dei mesi prima di poter fare l’amore (o almeno un paio di giorni, quando Chris avrebbe messo dei tutori solidi e non avrebbe fatto pressione sulle ossa e i tessuti in via di guarigione inarcandosi o gemendo o…)
Concentrati, Xander. Avremo il resto delle nostre vite.
“Ne parli sempre, Chris. Ti piacerebbe vedermi giocare solo per me?”
Chris rimase sorpreso. “Spiegati. E non smettere di toccarmi la mano.”
“È solo... vorresti vedermi giocare solo per me stesso? Sarebbe, lo sai, per te, lo farei bene, ma...”
Si conoscevano da quindici anni. Per undici avevano condiviso il letto. Chris sapeva che c’era sotto qualcosa, ma Xander aveva ancora quella parte di sé che aveva tenuto segreta. Aveva tenuto la sua vita di casa un segreto, celato la fame, tenuto per sé le percosse. Chris non si era accorto degli incubi fino a quando non avevano diviso il letto per più di una settimana e, anche ora, Chris non sapeva che non erano svaniti del tutto. C’erano molte cose che la stampa non sapeva di Xander Karcek.
Xander aveva ancora un dono da fare, una cosa che poteva rendere loro. Era tentato (molto tentato) di cedere e vuotare il sacco col suo migliore amico, il suo innamorato, l’altra metà di sé.
Ma non poteva. Perché se avesse detto a Chris ciò che aveva in mente, allora quella partita, quel piano, non sarebbe stato per lui. Sarebbe stato per Chris, per ottenere l’approvazione di Chris, e non era quello il punto. Questo voleva Xander e lo voleva per entrambi.
Doveva farlo da solo.
Ci volle un certo impegno per portare Chris a vedere la partita: un’ambulanza privata, una sedia speciale e, naturalmente, i tutori di vetroresina tanto agognati. Ma ce lo portarono, sotto la sorveglianza dell’infermiere-etero Peter, che aveva al suo fianco Audrey e persino Penny. Mandy si era nominata da sola ballerina personale di Chris. In ogni momento in cui non era sul campo a ballare (il che era, Xander doveva ammetterlo, piuttosto spettacolare, dal punto di vista atletico se non altro) si accertava che Chris e seguito avessero da bere o una maglietta (per ogni girone ne era stata prodotta una speciale) o semplicemente una presenza amichevole prima della partita e, pensò Xander, il resto della giornata.
Diede loro un’occhiata dal tunnel, guardò Chris, si godette le attenzioni della stampa, dei fan, delle ballerine, diamine, anche di Mandy e Audrey, che non facevano niente tutto il giorno tranne che adularlo.
Dio, si stava divertendo. Xander lo guardò per un attimo, sotto i riflettori, sorridente come se il dolore fosse stato lo stesso vecchio cane in cui si era trasformata la paura.
Non era la sua immaginazione, pensò, deglutendo a fondo e cercando di ignorare il dolore alla gola. Chris era davvero dorato.
Si voltò per parlare alla sua squadra.
Lo spogliatoio era... gioioso. Rilassato. Tutti erano concentrati, ma allegri. Non c’erano litigi, se non di quelli bonari, e tutti controllavano che le divise fossero a posto. Xander chiamò i suoi titolari a sé circa cinque minuti prima che il coach entrasse a parlare loro e sperò che, forse, avrebbe dato fiducia a persone che se la meritavano.
“Ehm, ragazzi? Posso parlarvi?” Li guardò – Aames, Burkins, Pollack e un Oswald del tutto guarito – e provò per la squadra un impeto d’affetto che non aveva mai avvertito quando Chris era al suo fianco. Beh, tanto meglio. Era bello essere parte di qualcosa di più grande di se stesso. Doveva solo accertarsi che volessero lui per quello che era e quello era il momento di metterli alla prova.
“Ragazzi, sapete tutti che Edwards è fuori dal campo, giusto?”
“Certo, amico, ha un’aria...” Aames si interruppe, con una smorfia sul viso tondo color cioccolata. Stava per dire il classico ‘ha un’aria tranquilla’, ma l’aspetto di Chris, e lo sapevano tutti, era da ‘pensionato’. Non avrebbe mai più giocato a basket e non c’era nessuno lì che non avrebbe considerato una perdita simile alla stregua di un arto amputato. “Amico, ci dispiace. Ma, lo sai, è Chris. Se c’è qualcuno in grado di divertirsi dopo la partita è lui, giusto?”
Xander sorrise. “Lo spero.” E ora, via con il rossore. “Ehm... sentite, alcuni di voi lo sanno e la maggior parte lo avrà pensato, ma... ehm... lo sapete che noi siamo... ehm…” Merda. Come fuggire da una stanza piena di energumeni? “Sposati.” La sua voce – di solito dai toni molti bassi – stridette.
“Pensavo che avessero appena votato contro quella roba,” disse Pollack, un po’ stordito. (Nonostante il nome, Pollack era un nero che portava i capelli in un’acconciatura afro stile anni Settanta. Era alto due metri e venti e a Xander era sempre piaciuto, semplicemente perché lo faceva sentire aggraziato e sveglio.)
“Vuol dire che è come se lo fossero, Pollack! Gesù, non riesco a credere che tu abbia preso la laurea in Texas.” Burkins aveva un po’ più di tatto quando non era ubriaco. Ma non molto.
Oswald stava fissando Xander come se avesse avuto in mano un insetto morto. “Bleah. Davvero?”
Xander non sapeva come rispondere. “Eh, sì. Ma niente bleah. È un problema?”
Oswald fece spallucce, con aria ancora un po’ disgustata. “Mi palperai il culo in campo?”
Fu il turno di Xander di fare una smorfia. “Bleaaaah. Sul serio?”
Aames ridacchiò. “Credo sia un ‘no’, Scott.”
Oswald pareva ancora dubbioso. “Certo, amico, come no. Pensi ancora di giocare?”
Xander annuì. “Sì, se me lo lasceranno fare dopo stasera.”
Aames ci arrivò per primo e gli altri stavano ancora rimuginando quando si accese la lampadina. “Oooh... Gesù, Xan. Davvero? Stasera?”
Un groppo improvviso in gola. Dio, Xander sperava che avrebbero capito. “Sì, Justin. Stasera. Io... io non riesco più a fare tutto per tutti. Devo farlo per me stesso, giusto?”
Aames annuì e gli diede una pacca sulla spalla. “Certo, amico. Non preoccuparti. Siamo con te, vero, ragazzi?”
“Certo, come no,” scattò Oswald. “Solo, tirami la palla e non toccarmi il culo, amico. È tutto ciò che ho sempre voluto da un compagno.”
Xander sentì un certo umorismo cominciare a filtrare perché, a quanto pareva, sarebbero stati in grado di uscire e giocare come avevano fatto per tutta la stagione, e questo era ciò che lui aveva sempre voluto.
“Sai una cosa, Scott? Posso giurarti che non ti toccherò mai il culo.”
Il coach entrò in quel momento e richiamò la loro attenzione. La musica iniziò a far tremare il pavimento; l’ingresso del tunnel si fece buio, un’oscurità sottolineata dalle luci stroboscopiche. Il rumore della folla divenne un tuono assordante e l’annunciatore cominciò a presentarli. E i giocatori all’improvviso erano concentrati solo sul gioco. Trassero un respiro profondo, congiunsero le nocche e diedero il via alle scariche di adrenalina raggelanti che Xander aveva sempre associato allo sport.
“Bene, ragazzi,” sospirò Xander, che adorava il modo in cui la terra tremava, adorava quei momenti in cui ogni atomo del suo corpo tremava. “Ricordate. Portate la cazzo di palla…”
“Lungo il cazzo di campo e dentro la cazzo di rete!” concluse la squadra, e quello fu il segnale di correre in campo, sotto le luci stroboscopiche e le ovazioni che li attendevano.
LE RISERVE per poco non fecero perdere loro il vantaggio e Xander si fece venire un calo di voce urlando loro il suo mantra. Portate la cazzo di palla lungo il cazzo di campo e dentro la cazzo di rete! Cazzo! (L’ultima parola si intrufolò durante una fitta di disperazione, quando il vantaggio di venticinque punti stabilito dai titolari si ridusse a due punti perché le riserve persero la palla per la settordicesima volta.) I titolari erano pronti a scattare, struggendosi nell’attesa della sirena, premendo contro la barriera invisibile del tempo come cani che premevano contro una finestra dietro cui stava un osso.
La sirena suonò, il coach fece loro segno di entrare in campo e…
Xander aveva la palla, in quella che era la formazione classica della loro quadra, e sollevò lo sguardo, vide Aames che attendeva il passaggio e disse: “Posso?”
“Fallo!”
E Xander scattò oltre la difesa e lungo il campo e saltò per tentare la schiacciata, con il canestro all’altezza della sua vita.
La folla gridò e la partita riprese.
Xander intravide Chris qualche volta mentre giocava. Quand’era stato in panchina durante la pausa dei tre quarti, i due si erano scambiati sguardi furiosi ogni volta che l’altra squadra faceva punto. Questa volta, mentre l’altra squadra rimetteva la palla in gioco e il loro attacco oltrepassò Xander nel tentativo di raggiungere una posizione indifesa, Chris incitò “Vai così, Xa-an!” e Xander roteò su se tesso, riuscì a fargli l’occhiolino e a buttarsi davanti all’attaccante avversario appena in tempo per intercettare la palla con una presa incredibile a un braccio solo.
Prima che la folla si rendesse conto di quello che era successo, Xander era corso indietro per un altro tiro, questa volta dalla linea dei tre punti, perché ne aveva voglia; all’improvviso, quello che era stato un vantaggio di due punti era un vantaggio di sette punti e le assi del piccolo Stadio Arco tremarono per la sete di sangue dei quasi diciottomila fan infervorati che a lungo si erano visti negare la vittoria.
Quella era la loro serata. Il resto della squadra era d’aiuto, naturalmente, ma in quel quarto, l’ultimo quarto, Xander si comportò da star in ogni azione.
Perché, per una volta, lo era.
Passò la palla quando ce n’era bisogno – Aames, Oswald, Pollack, Burkins – tutti loro fecero qualche punto. Ma Xander giocò un tempo da venticinque punti. Venticinque punti che fece da solo, e li fece in modo splendido, e li fece pesare. Venticinque punti dove “Porta la cazzo di palla lungo il cazzo di campo e dentro la cazzo di rete” fu una cazzo di poesia di muscoli, sangue, cuore e ossa.
Due secondi prima della sirena, Xander fece il suo ultimo tiro, un tiro impossibile sopra le teste di due dei giocatori migliori di New York, schiacciando ancora con la spensieratezza di un esordiente, atterrando come se non avesse nulla da temere.
La sirena suonò e lui alzò le mani al cielo come avrebbe voluto fare Chris e gridò di trionfo verso le tribune.
Era certo che avrebbe potuto volare se avesse voluto farlo. Chiunque avesse visto le sue falcate lungo il campo avrebbe potuto giurare che l’avesse già fatto.
QUANDO LA calca dei suoi compagni urlanti, abbraccianti, sudati, urlanti, deliranti si fu dispersa, si trovò all’improvviso a fronteggiare il primo giornalista, uno dei migliori dell’ESPN, e si chiese se la donna – una bella nera robusta sui trent’anni che da giovane aveva vinto delle medaglie olimpiche di atletica – fosse pronta per lo scoop sportivo della sua vita.
Si guardò intorno e vide Chris sulla linea laterale (dove il suo seguito stava attento che la folla non lo strapazzasse troppo) e fece un gesto di saluto, con una certa timidezza.
Chris fece una smorfia: timidezza? Davanti a ventordicimila persone? Dopo una partita come quella? Ma fece l’occhiolino e rispose al saluto.
E Xander si voltò verso la reporter e fece la storia.
“Allora, sto parlando con Xander Karcek, indiscutibilmente il miglior giocatore della partita di stasera. Signor Karcek, durante questo girone ha detto che stava giocando tutte le partite per il suo migliore amico, Christian Edwards, che è rimasto ferito quest’anno in un incidente stradale. Anche stasera era così?”
Xander scosse la testa. “Chris continuava a chiedermi di giocarne una per me stesso. Stasera ho giocato per me. Ho pensato, ecco, che lui era comunque nel mio cuore. Se avessi giocato per far felice me stesso, lui l’avrebbe sentito.”
La giornalista parve un po’ sconcertata. “Dunque, Christian Edwards, il suo migliore amico...”
Xander la guardò, guardò la telecamera, e poi guardò al di là di entrambe fin dove Mandy spingeva Chris cosicché lui potesse sentire l’intervista. Fece l’occhiolino a Chris, vide la comprensione e la sorpresa farsi largo sul suo viso e disse: “È più di un amico per me, signora Robinson, e se l’NBA non lo sa è perché non l’abbiamo voluto. Per tutta la vita, tutto ciò che ho desiderato sono stati il basket e Chris Edwards. Stasera, ho avuto il basket. Per il resto della vita, avrò Chris Edwards.”
Dopo cercò di sorridere, mentre la giornalista cercava le parole giuste. “Ma... ma... ma... i playoff dell’NBA... giocherà nei playoff...?”
E Xander disse ciò che aveva sempre voluto dire, fin dall’inizio, da quel primo bacio dietro una siepe, aggrappandosi all’unica cosa che sapeva essere buona.
“Se il basket mi ama quanto io amo questo sport, allora non gli importerà chi sono quando lo gioco. Se il mondo mi odia più di quanto ami il basket, allora direi che è il mondo a perderci, ma io non vivrò più così, e non costringerò neppure Chris a farlo. Ora, se vuole scusarmi…”
Andò alla sedia di Chris e afferrò le maniglie sul retro, cominciando a guidarlo mentre la reporter balbettava nel microfono.
“Sei pazzo?” chiese debolmente Chris, e Xander dovette chinarsi per udire le sue parole.
“È rincoglionito!” borbottò Mandy. Sollevò lo sguardo e vide che le parole dell’intervista di Xander si stava diffondendo per lo stadio e all’improvviso gridò: “Ballerine! Portate qui i vostri culi, abbiamo bisogno di voi!”
All’improvviso ebbero una falange di ballerine su entrambi i lati, a guidarli lungo il tunnel, proprio quando la stampa sentì l’odore della storia e partì alla carica. Xander strinse le maniglie della sedia a rotelle e scattò, con i loro amici e la loro famiglia dietro le sue spalle, mentre raggiungevano le porte dello spogliatoio maschile.
La stanza era piena di Sacramento Kings mezzi nudi, che guardarono sorpresi nella loro direzione mentre Xander e Chris (e Mandy e Audrey e Pete e un paio di altre ragazze) entravano di corsa, ma Xander non stava guardando loro.
Si puntellò contro la porta chiusa con il battaglione di cronisti dall’altra parte e gongolò come un adolescente, mentre Chris faceva lo stesso.
“Gesù, sei un idiota! Che cazzo hai fatto?”
Xander tornò improvvisamente sobrio. “Ho giocato la partita per me stesso. Era quello che volevi tu e l’ho fatto. E giocare per me stesso significa giocare per te. Significa che tu e io stiamo insieme e il mondo può andare affanculo. Vuol dire che qualunque cosa faremo delle nostre vite lo faremo insieme e alla luce del sole, e…” Xander inspirò a fondo e si pulì la bocca con una mano fredda e tremante.
“Voglio dire, Gesù, Chris. Non può essere più duro di quanto fosse nasconderlo. O essere divisi. O lasciar credere al mondo che siamo compagnoni troppo cresciuti. Giusto?”
Ti prego, Dio, fa che vada tutto bene. Xander sapeva che c’era la possibilità che non andasse così. Sapeva che era l’altra faccia della medaglia di fare le cose per sé: che forse dichiararsi, stare assieme alla luce del sole, non era ciò che Chris voleva davvero.
Chris lo guardò, con un sorriso agrodolce sul viso, e premette i palmi delle mani contro gli occhi.
“Vieni qui, Xan,” disse con voce tremante, e Xan si chinò davanti alla sedia. Chris afferrò le sue mani e disse: “Più vicino, geniaccio. Voglio davvero baciarti e ancora non posso muovermi.”
Sapevano di gioia e lacrime e un po’ di paura e molta speranza. Sentirono Mandy e le altre ballerine dire: “Oooooooh...” e sentirono alcuni dei ragazzi nello spogliatoio fare: “Oh, perdio! Non avete una casa per fare queste cose?” Ma era tutto sommerso dal rombo dei loro cuori nelle loro orecchie.