CAPITOLO II

1

Ratliff fermò il baroccio al cancello di Bookwright. La casa era spenta, ma subito tre o quattro dei cani di Bookwright uscirono abbaiando da sotto o da dietro la casa. Armstid sporse rigido la gamba dal baroccio e si disponeva a scendere. «Aspettate» disse Ratliff. «Vado io a prenderlo».

«Posso camminare» disse Armstid brusco.

«Sì sì» disse Ratliff. «Ma i cani mi conoscono».

«Conosceranno anche me, appena il primo mi sarà saltato addosso» disse Armstid.

«Sì» disse Ratliff. Era già sceso dal baroccio. «Aspettate e tenete le bestie». Armstid ritirò la gamba – non era invisibile nemmeno nella tenebra estiva e illune, anzi, causa la sua tuta scolorita, spiccava nettamente sull’imbottitura scura del baroccio; soltanto i suoi lineamenti sotto la tesa del cappello non si scorgevano. Ratliff gli tese le redini e, svoltando accanto alla cassetta metallica per la posta sul suo palo sotto le stelle, andò oltre verso il cancello e il caldo baccano dei latrati. Quand’ebbe varcato il cancello, li vide – un’urlante massa nera sul terreno leggermente più chiaro che si ruppe, gli sorse e gli si dilatò a ventaglio davanti, pronti, facendo cerchio, latrando, impedendogli il passo – tre pezzati neromarrone, ma il marrone la luce stellare lo rendeva nero sicché, non proprio invisibili ma quasi e appena sbozzati, avrebbero potuto essere le tre intatte copie carbone di giornali bruciati dritte per terra, intese a latrargli contro. Ratliff gettò loro una voce. Avrebbero già dovuto riconoscerlo al fiuto. Quando gridò sapeva che l’avevano riconosciuto, perché forse per un secondo tacquero, poi, avanzandosi lui, indietreggiarono mantenendo la distanza, abbaiando. Allora vide Bookwright, anch’egli pallido nella tuta contro la casa nera. Quando Bookwright urlò loro qualcosa, tacquero.

«Passa via» disse. «Zitti. Passa via». S’avvicinò, diventando a sua volta nero contro la terra più pallida, al luogo dove Ratliff attendeva. «Dov’è Henry?» disse.

«Nel biroccino» disse Ratliff. Si volse per tornare al cancello.

«Momento» disse Bookwright. Ratliff si fermò. L’altro lo raggiunse. Si fissarono nell’oscurità, ciascun volto invisibile all’altro. «Non vi siete mica lasciato persuadere da lui?» disse Bookwright. «Tra che deve ricordarsi quei cinque dollari tutte le volte che vede la moglie, e la gamba rotta, e il cavallo che ha comprato da Flem Snopes con la gamba e non ha più veduto, quello è matto deciso. Mica che prima gli ci mancasse tanto. Non vi sarete lasciato persuadere da lui?».

«Non credo» disse Ratliff. «No no» disse. «Là c’è qualcosa. L’ho sempre saputo. Lo sa anche Will Varner che c’è qualcosa. Se non ci fosse, non l’avrebbe mai comprata. E non l’avrebbe tenuta, vendendo tutto il resto e conservando solo la casa vecchia, pagando le imposte quando poteva intascare dei soldi, e sedendosi su quel barile a guardarla con la scusa che lo riposava star seduto dove un tale aveva fatto tutta quella fatica e speso tutti quei soldi solo per mettere insieme un posto per starci a mangiare e dormire con la moglie. E me ne sono convinto quando l’ha presa Flem Snopes. Quando ha messo Will Varner con le spalle al muro, e poi si è venduto tutto a Will accettando quella baracca e quel pezzo di terra che non basterebbe a mantenere delle capre. Ci sono andato l’altra notte con Henry. L’ho anche vista. Nessuno vi obbliga, se non ve la sentite. Anzi, mi fate un piacere a non entrare».

«Va bene» disse Bookwright. Si mosse. «Era questo che volevo sapere». Tornarono al baroccio. Henry si spostò al centro del sedile, e i due montarono. «Vi do mica noia alla gamba?» disse Bookwright.

«La mia gamba non ha nulla» disse Armstid con quella voce aspra. «Posso camminare come voi e come chiunque, sempre».

«Certo» disse svelto Ratliff, afferrando le redini. «La gamba di Henry è guarita. Non si vede neanche più».

«Andiamo, andiamo» disse Bookwright. «Per nessuno sarà necessario camminare, visto che abbiamo i cavalli».

«Per il Gomito sarebbe più corta» disse Ratliff. «Ma sarà meglio non passarci».

«Che vedano» disse Armstid. «Se c’è qui qualcuno che ha paura, io non ho bisogno di aiuto. Io...».

«Certo» disse Ratliff. «Se qualcuno ci vede, di aiuto ne avremo anche troppo. È questo che non vogliamo». Armstid tacque. Da quel momento non parlò più e se ne stette tra loro in un’immobilità che pareva quasi una febbre, assottigliato come se a consumarlo non fosse stata la degenza (dopo un mese di letto, un giorno s’era alzato e s’era rotta la gamba un’altra volta; nessuno sapeva come, né che cosa aveva fatto o cercato di fare, perché non ne parlò mai) ma l’impotenza e la rabbia.

Ratliff non chiese consiglio né guida; erano poche le cose che un altro avrebbe potuto insegnargli sui viottoli e sulle strade traverse di quella o di qualunque altra delle zone che percorreva. Non incontrarono nessuno; la campagna tenebrosa e dormiente era vuota; le cascine sparse e remote le tradiva soltanto il casuale latrato dei cani. I viottoli che Ratliff seguiva correvano pallidi sulla vasta distesa dei campi, sentiti più che veduti, dove la meliga cominciava a granire e il cotone a sbocciare; poi si cacciavano sotto volte di alberi, alti e infoltiti d’una lussureggiante fronda estiva che spiccava sul cielo d’agosto greve e fitto di stelle. Ecco che si trovavano nell’antico viottolo che da anni ormai nessun’altra orma segnava se non quella del vecchio cavallo bianco di Varner e, ma era stato per poco, le ruote del calesse dal mantice a frange – era ormai rimarginata la vecchia cicatrice dove trent’anni prima un corriere (forse lo schiavo di un vicino, chino a sferzare un mulo staccato allora dall’aratro) era giunto al galoppo con la notizia del fatto di Sumter;8 dove forse era passata la vettura: le dame dondolanti e flessuose nei cerchiati guardinfanti di crinolina sotto i parasoli, gli uomini vestiti di buon panno e ben montati, accanto alle ruote, intenti a discorrerne; dove il figlio e forse lo stesso padrone era passato a cavallo, diretto a Jefferson, con pistole, valigia e un valletto sul cavallo di ricambio che seguiva, discorrendo di reggimenti e di vittoria; dove i distaccamenti federali avevano pattugliato la regione popolata soltanto di donne e schiavi negri, verso l’epoca della battaglia di Jefferson.

Di tutto ciò nulla adesso restava visibile. Quasi non c’era nemmeno una strada; dove la sabbia s’oscurava nel torrente e poi risaliva, non sussisteva traccia alcuna del ponte. Ora la cicatrice correva dritta come un piombino lungo un’irsuta chiudenda di cedri allineati, là disposti dal medesimo ignoto architetto che aveva disegnato e costruito la casa per il suo ignoto padrone, spessi ormai mezzo metro o un metro, con rami intricati e ammassati. Ratliff vi girò i cavalli in mezzo. Aveva l’aria di sapere con esattezza dove si dirigeva. Fu allora che Bookwright ricordò che c’era venuto la notte prima.

Armstid non li attese. Ratliff legò in fretta i cavalli, e lo raggiunsero entrambi – un’ombra, tuttavia ancora visibile a motivo della tuta sbiancata a forza di lavarla, che avanzava in fretta, rigido, in mezzo al sottobosco. Il terreno vaneggiò tenebroso ai loro piedi, un lungo squarcio: un burroncello, un ritano. Bookwright si ricordò che Armstid c’era già stato più di una volta, nondimeno l’ombra zoppicante pareva sul punto di buttarsi in quel nero abisso. «Sarà meglio aiutarlo» disse Bookwright. «Quello si rompe...».

«Sst!» sibilò Ratliff. «Il giardino è sul poggio di là».

«... si rompe di nuovo la gamba» disse Bookwright, più piano. «Allora sì che siamo a posto».

«Non si farà niente» bisbigliò Ratliff. «È stato così ogni notte. Basta non stargli troppo addosso. Ma nemmeno lasciarlo andare troppo avanti. Ieri notte, mentre eravamo distesi, una volta ho dovuto tenerlo». Proseguirono, sempre dietro alla figura che avanzava ora in perfetto silenzio e con rapidità sorprendente. Erano in un burrone pieno di madreselva sul cui fondo di sabbia asciutta sentivano il tremendo arrancare della gamba storpia. Eppure riuscivano appena a tenergli dietro. Dopo un duecento metri Armstid piegò per scalare la sponda. Ratliff lo seguì: «Attenzione» susurrò volgendosi a Bookwright. «Ci siamo». Ma Bookwright teneva gli occhi su Armstid. Mai più ci riesce, pensava. Mai più sale questa sponda. Ma l’altro ci riuscì, trascinando la gamba irrigidita, un tempo fragile e perciò forse doppiamente fragile, su per quell’erta quasi perpendicolare, silenzioso, senz’aiuto, tutto emanante quella scattante prontezza a respingere ogni assistenza e a negare di averne bisogno. Poi Bookwright si trovò a strisciare a quattro zampe dietro gli altri per un sentiero tra masse alte come un uomo di rovi, di erbacce, di cachi in germoglio, e li raggiunse che s’erano appiattiti sul margine di un vago pendio che portava alla cresta irta, dove in mezzo alle querce sorgeva lo scheletro di quell’enorme casa nel punto scelto anch’esso dall’ignoto architetto forestiero e dal padrone le cui anonime ceneri riposavano con le altre del suo sangue e dei progenitori di tanti sassofonisti di localacci di Harlem sotto le lapidi consunte e illeggibili di un altro poggio a quattrocento metri – il tetto sfondato, i camini decapitati, e un alto rettangolo di finestra da cui vedevano le stelle del cielo. Probabilmente quel pendio era stato un roseto. Nessuno di loro lo sapeva né ci badò, allo stesso modo che quelli che l’avevano veduto e passando l’avevano guardato centinaia di volte, non sapevano che il frontone caduto a metà del pendio era un tempo stato la meridiana. Ratliff tese la mano sul corpo di Armstid e gli afferrò il braccio; poi sopra lo strepito del loro fiato anelante, Bookwright udì il fruscìo continuo e cadenzato della pala e il ritmico tonfo della terra buttata, in qualche punto di quel pendio sopra di loro. «Ecco!» susurrò Ratliff.

«Sento qualcuno che scava» susurrò Bookwright. «Ma come faccio a sapere che è Flem Snopes?».

«C’è Henry che da dieci notti viene qui a distendersi e ascoltarlo. Ieri notte sono venuto anch’io con Henry a sentire. Siamo stati qui distesi finché non ha smesso e se n’è andato, e allora siamo montati e abbiamo visto tutti i punti dove aveva scavato e poi riempito di nuovo il buco e spianato il terreno perché non si vedesse».

«Va bene» bisbigliò Bookwright. «Voi e Armstid avete visto qualcuno che scavava. Ma come faccio a sapere che è Flem Snopes?».

«E va bene» disse Armstid con una fredda e contenuta violenza, quasi ad alta voce; entrambi lo sentivano tremare disteso in mezzo a loro, sussultare e tremare nel corpo scarno e distrutto, come un cane al guinzaglio. «Allora non è Flem Snopes. Tornate a casa, su».

«Ssst!» sibilò Ratliff. Armstid s’era girato, guardando verso Bookwright. Il suo viso non distava un palmo da quello di Bookwright; i lineamenti erano più invisibili che mai.

«A casa» disse. «Tornate a casa».

«Ssst, Henry!» bisbigliò Ratliff. «Finirà che vi sente!». Ma Armstid aveva già voltato il capo, sbarrando gli occhi verso il nero pendio, tremando e sussultando in mezzo a loro, imprecando in un secco bisbiglio. «Se sapeste ch’è proprio Flem, ci credereste allora?». Ratliff susurrò qualcosa attraverso il corpo di Armstid. Bookwright non rispose. Se ne stava anch’egli appiattato con gli altri, mentre il corpo sottile di Armstid tremava e sussultava accanto a lui; e ascoltava il fruscìo continuo e cadenzato della pala e il secco e furibondo imprecare di Armstid. Poi il rumore della pala cessò. Per un istante nessuno si mosse. Poi Armstid disse:

«L’ha trovato!». Balzò su tra loro improvviso e violento. Bookwright udì e sentì Ratliff abbrancarlo.

«Fermo!» bisbigliò Ratliff. «Fermo! Tenetelo, Odum!». Bookwright afferrò l’altro braccio di Armstid. Insieme trattennero quel corpo furente sinché Armstid non cessò e ricadde tra loro, rigido, occhi sbarrati, imprecando in quel secco susurro. Aveva braccia sottili come bastoni, ma di un vigore incredibile. «Non l’ha ancora trovato!» susurrò Ratliff. «Sa soltanto che è per qui; magari ha trovato nella casa qualche carta che dice dov’è. Ma gli tocca cercarlo come a noi. Sa che è per qui nel giardino, ma gli tocca cercarlo come a noi. Non abbiamo forse visto che lo cercava?». Bookwright sentiva ora le due voci parlare in bisbigli sibilanti, una che imprecava, l’altra che secondava e ragionava, mentre entrambi sbarravano gli occhi insieme verso il pendio sotto le stelle. Ora Ratliff parlava a lui: «Non volete credere che sia Flem» disse. «Bene. Guardate allora». Erano stesi sulle erbe; trattenevano tutti il fiato, anche Bookwright. Allora vide l’uomo – un’ombra, una macchia più spessa, che si moveva sul pendio, lo saliva. «Guardate» susurrò Ratliff. Bookwright sentì lui e Armstid, distesi e fissi al pendio, anelare sibilanti in sospiri appassionati e sommessi. Poi Bookwright vide la camicia bianca; un istante dopo, la figura si stagliò nettamente contro il cielo, come ferma per un attimo sulla cresta del pendio. Poi scomparve. «Ecco!» susurrò Ratliff. «Non era Flem Snopes? Ci credete adesso?». Bookwright trasse una lunga boccata e respirò. Stringeva ancora il braccio di Armstid. Se l’era dimenticato. Ora lo sentì di nuovo sotto la mano come un cavo d’acciaio teso che vibrava.

«È Flem» disse.

«Sicuro che è Flem» disse Ratliff. «Domani notte cercheremo dov’è...».

«Macché domani notte!» disse Armstid. Balzò su un’altra volta, tentando di alzarsi. «Andiamoci adesso. Questo dobbiamo fare. Prima che...». Di nuovo lo trattennero in due, e Ratliff lo ragionò di nuovo, rimproverando, sibilando. Finalmente lo tennero appiattito al suolo, che imprecava ancora.

«Dobbiamo prima trovare dov’è» ansimò Ratliff. «Dobbiamo trovare prima dov’è. Noi non abbiamo il tempo di cercare. Dobbiamo trovarlo la prima notte, perché non possiamo lasciargli i segni per quando ritorna. Non capite? noi non possiamo cercare due volte perché non possiamo farci cogliere».

«Che cosa facciamo?» disse Bookwright.

«Ah» disse Armstid. «Ah». Fu una voce rauca, furente, contenuta. Senza nessuna allegria. «Che cosa facciamo. Vi credevo già a casa».

«Zitto, Henry» disse Ratliff. Si mise in ginocchio senza lasciare il braccio di Armstid. «Siamo stati d’accordo di prendere con noi Odum. Almeno aspettiamo a litigare quando avremo trovato i soldi».

«E se fossero soltanto biglietti confederati?» disse Bookwright.

«Sicuro» disse Ratliff. «Che cosa credete che quel vecchio Francese abbia fatto di tutti quei soldi che aveva prima che i biglietti confederati nemmeno esistessero? Senza contare che la massima parte erano certo gioielli e argenteria».

«Lascio a voi i gioielli e l’argenteria» disse Bookwright. «Mi accontento dei soldi».

«Ci credete dunque adesso?» disse Ratliff. Bookwright non rispose.

«Che cosa facciamo, ora?» disse.

«Domani vado alla valle a prendere zio Dick Bolivar» disse Ratliff. «Dovrei esser di ritorno poco dopo buio. Ma tanto qui non si può far niente fin dopo mezzanotte, dopo che Flem avrà finito di cercare».

«E l’avrà trovato lui» disse Armstid. «Perdio, non...». Furono tutti in piedi. Armstid cominciò a dibattersi, repentino e furente, per liberarsi il braccio. Ma Ratliff lo teneva. Gli gettò addosso tutte e due le braccia e lo tenne finché non smise di dibattersi.

«Sentite» disse Ratliff. «Flem Snopes non li troverà. Se sapesse dove cercare, credete che da due settimane scaverebbe ogni notte, come fa? Non sapete che sono trent’anni che la gente cerca quei soldi? Che ogni palmo di questo terreno è stato rivoltato almeno dieci volte? Che non c’è pezzo di terra in tutta la zona che sia stato lavorato tanto e così sovente come questo fazzoletto d’un giardino? Se avesse seminato, Will Varner avrebbe potuto farci del cotone e della meliga tanto alti che poteva raccoglierli da cavallo. Il motivo perché nessuno li ha mai trovati è che sono sepolti così in giù, che nessuno ha mai avuto tempo di scavare tanto in una notte e poi riempire il buco perché Will Varner non se ne accorgesse quando di giorno veniva qui a sedersi sul barile e guardare. Nossignore. Non c’è che una cosa che può impedirci di trovarli». Armstid s’era chetato. Lui e Bookwright fissarono il volto invisibile di Ratliff. Dopo un momento Armstid disse con asprezza:

«Cos’è?».

«Se Flem Snopes s’accorge che degli altri li cercano» disse Ratliff.

Era circa mezzanotte la notte seguente, quando Ratliff fermò il baroccio tra i cedri. Bookwright veniva a cavallo, perché sul baroccio erano già in tre, e di nuovo Armstid non attese che Ratliff legasse le bestie. Saltò a terra non appena fermi; strappò dalla cassetta-canile una pala che urtò e rimbombò, e non cercò di far piano; prima che Ratliff e Bookwright fossero discesi, era già sparito nel buio, zoppicando spaventosamente. «Possiamo tornarcene a casa» disse Bookwright.

«No, no» disse Ratliff. «Non si ferma mai così tardi. Però dobbiamo acchiappare Henry». Il terzo sul baroccio non s’era ancora mosso. Anche nel buio la sua lunga barba bianca aveva una vaga luminosità quasi avesse assorbito un po’ del lume stellare sotto il quale Ratliff era andato a cercarlo, e adesso lo emanasse nella tenebra. A tentoni Ratliff e Bookwright lo aiutarono a scendere dal baroccio, e prendendo l’altra pala e il piccone e semitrasportando il vecchio, si affrettarono a calare nel burrone, e presero a correre cercando di raggiungere lo scalpiccìo zoppicante di Armstid. Ma non lo raggiunsero. Uscirono a tentoni dal ritano, portando il vecchio ormai a braccia, e prima ancora di giungere ai piedi del giardino, sentirono il fracasso della rapida pala di Armstid su per il pendio. Lasciarono il vecchio che s’afflosciò a terra tra loro respirando aneliti fievoli, e come un sol uomo aguzzarono lo sguardo su per il tenebroso pendio, verso il rumore furibondo e soffocato della pala. «Bisogna farlo smettere finché zio Dick non abbia trovato» disse Ratliff. Corsero alla volta del rumore, a spalla a spalla nella tenebra accidentata, in mezzo alla fitta vegetazione. «Ehi, Henry!» susurrò Ratliff. «Aspettate zio Dick». Armstid non smise, continuando a scavare furibondo, buttando la terra e rificcando la pala tutto in una volta. Ratliff gli abbrancò la pala. Armstid la liberò con uno strattone e fece un mezzo giro brandendola come una scure: i volti invisibili si fissarono, tesi, spossati. Da tre notti Ratliff non si cambiava, ma Armstid probabilmente non si cambiava da due settimane.

«Toccatela!» sibilò Armstid. «Toccatela soltanto!».

«Aspettate» disse Ratliff. «Lasciate a zio Dick il tempo di trovare dov’è».

«Andate via» disse Armstid. «Ve l’ho detto. Via dal mio buco». Riprese a scavare furibondo. Ratliff lo guardò per un attimo.

«Venite» disse. Si volse correndo, con Bookwright dietro. Il vecchio stava rialzandosi a sedere quando lo raggiunsero. Ratliff gli si buttò a fianco e cominciò a brancicare fra l’erba in cerca dell’altra pala. Ma trovò prima il piccone. Lo gettò via e si buttò di nuovo sull’erba; trovarono insieme la pala lui e Bookwright. Si rialzarono, lottando per averla, dandosi strattoni e scosse, ansimando rauco e represso, sentendo anche al di sopra del loro respiro il rumore rapido della pala di Armstid sul pendio. «Date qua!» susurrava Ratliff. «Date qua!». Il vecchio, privo di aiuto, si arrabattava per rialzarsi.

«’spettate» diceva. «’spettate». Allora Ratliff parve accorgersi di ciò che faceva. Mollò la pala; quasi la gettò ai piedi di Bookwright.

«Eccola» disse. Trasse un lungo respiro rabbrividendo. «Dio» mormorò. «Guardate in che stato riduce un uomo anche il denaro che non si ha ancora». Si chinò e con uno strattone rimise in piedi il vecchio, non con violenza intenzionale, ma soltanto per l’ansia. Per un momento dovette sostenerlo.

«’spettate» diceva il vecchio con quella voce fievole, tremante. Costui era noto in tutta la regione. Non aveva congiunti né legami di sorta; la sua vita antidatava ogni altra; nessuno ne sapeva gli anni – un uomo alto e sparuto dalla lunga giacca sporca, senza camicia sotto, e una lunga barba assolutamente bianca che gli dava alla cintola – viveva in una capannuccia spalmata di fango, nella valle del fiume a cinque o sei miglia da ogni strada. Preparava e vendeva rimedi e fatture, e di lui si diceva che mangiasse non soltanto le rane e i serpenti, ma anche gli scarafaggi – qualunque cosa gli riusciva di acchiappare. Nella capanna non aveva altro che il pagliericcio, poche stoviglie, un’enorme bibbia e una sbiadita dagherrotipia di un giovanotto in uniforme confederata, che quelli che l’avevano veduta ritenevano fosse suo figlio. «’spettate» disse. «La terra è sdegnata. Bisogna che quell’uomo non la batta più».

«Giusto» disse Ratliff. «Fin che il terreno non è tranquillo, non funzionerà. Bisogna farlo smettere». Di nuovo gli furono addosso. Henry continuava a scavare; di nuovo, quando Ratliff lo toccò, Henry si volse di scatto, levando la pala, imprecando in un esausto bisbiglio finché lo stesso vecchio non venne avanti e gli toccò la spalla.

«Potete scavare, potete scavare, giovanotto» disse la voce flebile. «Ma ciò che è tornato alla terra, la terra terrà finché vuole».

«È vero, Henry» disse Ratliff. «Bisogna dar modo a zio Dick di trovare dove sia. Venite, su». Armstid abbassò la pala e uscì dalla buca (era già profonda più di un palmo). Ma la pala non la depose; la tenne stretta finché il vecchio non li respinse al margine del giardino e si cavò dalla tasca deretana della giacca un ramo di pesco forcuto, all’estremità del quale, da uno spago, penzolava qualcosa; Ratliff, che l’aveva già visto altre volte, sapeva cos’era – una borsa da tabacco vuota, contenente un dente umano impiombato d’oro. Li trattenne là per un dieci minuti, curvandosi di tanto in tanto a posare la mano aperta sul terreno. Poi – coi tre aggruppati e silenziosi alle calcagna – andò nell’angolo inselvatichito del vecchio giardino e diede di piglio alle due punte del ramo, lasciando penzolare, inerti e verticali, lo spago e la borsa. Così stette un bel po’ borbottando tra sé.

«Come si può...» disse Bookwright.

«Ssst!» disse Ratliff. Il vecchio cominciò ad avanzare, e i tre gli vennero dietro. Andavano come in processione, con qualcosa addosso di sfacciatamente pagano e insieme ortodosso e funereo; camminavano adagio avanti e indietro per il giardino, salendo a poco a poco la china di traversata in traversata. D’un tratto il vecchio si fermo; Armstid che gli arrancava dietro gl’incespicò contro.

«Qualcuno impedisce» disse, senza guardarsi alle spalle. «Non è voi» disse, e tutti capirono che parlava con Ratliff. «Non è lo zoppo. È l’altro. Quello nero. Vada via dal campo, e lo lasci in pace. Se no, potete riportarmi a casa».

«Tornate alla sponda» disse Ratliff piano a Bookwright, girando il viso sulla spalla. «Così tutto andrà bene».

«Ma io...» disse Bookwright.

«Uscite da questo giardino» disse Ratliff. «È già mezzanotte passata. Fra quattro ore sarà giorno». Bookwright tornò ai piedi del pendio. O meglio, dileguò nella tenebra, perché nessuno lo guardava; s’erano già mossi, Armstid e Ratliff stretti alle calcagna del vecchio. Di nuovo presero a salire la china avanti e indietro, passando quel punto dove Henry s’era messo a scavare, passando quel punto dove Ratliff aveva veduto le tracce degli scavi dell’altro la prima notte che Armstid ce l’aveva portato; ora Ratliff sentiva che Armstid ricominciava a tremare. Il vecchio si fermò. Stavolta non gli caddero addosso, e, finché il vecchio non parlò, Ratliff non s’accorse di avere di nuovo Bookwright alle spalle.

«Toccatemi i gomiti» disse. «Non voi» disse. «Voi che non credete». Quando Bookwright glieli toccò, le braccia dentro le maniche – braccia sparute, fragili, rimorte come rami secchi – sussultavano debolmente ma senza posa; quando il vecchio si fermò d’improvviso un’altra volta e Bookwright gli andò addosso, sentì tutto quell’esile corpo tendersi all’indietro. Armstid imprecava senza posa nel suo secco bisbiglio. «Toccate la forcella» ansimava il vecchio. «Voi che non credete». Quando Bookwright la toccò, questa era arcuata a formare una rigida curva volta in basso, e lo spago era teso come fildiferro. Armstid cacciò una voce strozzata; Bookwright toccò con la mano anche il ramo. Il ramo allora scattò in libertà; il vecchio barcollò e la forcella gli cadde inerte ai piedi, donde Armstid, che si mise furiosamente a scavare con le dita, la gettò via.

Si volsero come un sol uomo e si precipitarono per il pendio verso dove giacevano gli attrezzi. Quasi non riuscivano a tener dietro ad Armstid. «Non lasciategli il piccone» disse Bookwright ansante. «Ammazzerà qualcuno». Ma Armstid non cercava il piccone. Andò dritto dove aveva lasciato la pala quando il vecchio aveva estratto la forcella e rifiutato di cominciare se non la posava; l’afferrò e ricorse su per il pendio. Quando Ratliff e Bookwright lo raggiunsero, era già intento a scavare. Tutti allora scavarono frenetici, buttando la terra, dandosi noia l’un l’altro, urtando e facendo risuonare gli attrezzi, mentre il vecchio nel lume stellare sovrastava loro dietro il fievole lucore della barba e delle bianche sopracciglia. Se ne stava meditabondo, staccato, privo d’interesse per la loro ansimante frenesia: se anche si fossero fermati a guardare, non avrebbero capito se dalle due caverne gli occhi li guardavano o no. Repentinamente tutti e tre rimasero, in quel gesto di scavare, impietrati per forse un secondo. Poi balzarono insieme nella buca; le sei mani afferrarono contemporaneamente l’oggetto – un grave e solido sacchetto di tela pesante traverso la quale tutti sentirono gli orli rotondi e dentati delle monete. Se lo contesero, dandogli strattoni violenti, abbrancandolo, adunghiandolo, ansimanti.

«Fermi!» ansimava Ratliff. «Fermi! Non siamo soci tutti e tre alla pari?». Ma Armstid ghermiva il sacchetto, tentando di strapparlo agli altri due, imprecando. «Lasciatelo, Odum» disse Ratliff. «Se lo tenga». Lasciarono la presa. Armstid se lo strinse solo, chino, seguendoli con gli occhi mentre s’arrampicavano fuori dalla buca. «Se lo tenga» disse Ratliff. «Sapete bene che ce n’è ancora». Si girò bruscamente. «Avanti, zio Dick» disse. «Fuori la...». Tacque. Il vecchio stava ritto immobile alle loro spalle, col capo rivolto come ascoltasse qualcosa nel burrone donde erano venuti. «Cos’è?» bisbigliò Ratliff. Stavano immobili tutti e tre ora, irrigiditi, un po’ curvi come quando s’erano staccati da Armstid. «Sentite qualcosa?» bisbigliò Ratliff. «C’è qualcuno laggiù?».

«Sento il sangue di quattro bollire» disse il vecchio. «Sono in quattro qui che hanno il sangue che bolle per delle sciocchezze». Si abbassarono irrigiditi. Ma non s’udì nulla.

«E be’, non siamo in quattro qui? bisbigliò Bookwright.

«Zio Dick non si cura dei soldi» mormorò Ratliff. «Se c’è qualcuno nascosto...». Correvano. Armstid era stato il primo a scattare, stringendo sempre la pala. Di nuovo riuscirono appena a tenergli dietro, buttandosi a capofitto giù dal pendio.

«Ammazzatelo» diceva Armstid. «Cercatelo dappertutto e ammazzatelo».

«No» disse Ratliff. «Prima pigliamolo». Quando lui e Bookwright furono sul ritano, sentirono Armstid che menava colpi sul margine, senza sforzarsi minimamente di far piano, falciando come con una scure il sottobosco tenebroso col taglio della pala, con quella stessa frenesia con la quale aveva scavato. Ma non trovarono nulla, nessuno.

«Magari zio Dick non ha sentito niente» disse Bookwright.

«Be’ chiunque fosse, se n’è andato» disse Ratliff. «Magari...». Tacque. Lui e Bookwright si guardarono sbarrando gli occhi; sopra il sibilo del fiato avevano udito il cavallo. Era nella vecchia strada di là dai cedri; era come se fosse caduto dal cielo al galoppo. Lo sentirono finché non cessò sulla sabbia del torrente. Dopo un momento lo sentirono di nuovo, sul suolo duro dell’altra parte, ma più attutito. Poi cessò del tutto. I due si guardarono nel buio, sopra l’alito rattenuto. Poi Ratliff respirò: «Vuol dire che abbiamo tempo fino a giorno» disse. «Andiamo».

Due volte ancora la bacchetta del vecchio si tese e curvò; due volte ancora misero la mano su un gonfio sacchetto di tela, solido e inequivocabile per quanto al buio. «Adesso» disse Ratliff «abbiamo un buco ciascuno, e tempo fino a giorno. Forza, ragazzi».

Quando l’oriente cominciò a impallidire, non avevano trovato altro. Ma scavando tre buche contemporaneamente come avevano fatto, nessuno di loro aveva potuto andare gran che profondo. E il grosso del tesoro era molto in giù; come aveva detto Ratliff, se non fosse stato così, la gente l’avrebbe già trovato almeno dieci volte negli ultimi trent’anni perché probabilmente non c’era palmo quadrato di quei dieci jugeri che costituivano il terreno del vecchio maniero che non fosse stato frugato fra il tramonto e l’alba da qualcuno nel buio, scavando in fretta e in silenzio insieme. Perciò alla fine lui e Bookwright riuscirono a convincere Armstid, e lo fecero desistere e ricolmarono le buche e cancellarono ogni traccia. Poi apersero i sacchetti nella luce incerta. Quelli di Ratliff e di Bookwright contenevano ciascuno venticinque pezzi da un dollaro. Armstid ricusò di rivelare quanto contenesse il suo, o di lasciare che qualcuno ci guardasse. Ci si raggomitolò sopra, volgendo loro le spalle, bestemmiando, quando gli altri cercarono di guardare. «E va bene» disse Ratliff. Poi gli venne un’idea. Abbassò gli occhi su Armstid. «È inteso che nessuno sarà tanto imbecille da spenderli subito».

«Sono miei» disse Armstid. «Li ho trovati. Ho lavorato. Posso farne quel porco cane che voglio».

«Bene» disse Ratliff. «E che spiegazione darete?».

«Che spiegazione...» disse Armstid. Accoccolato dov’era, levò gli occhi verso Ratliff. Ormai potevano vedersi in faccia. Tutti e tre erano esausti, stremati dall’insonnia e dalla fatica.

«Sì» disse Ratliff. «Che spiegazione darete, alla gente, di come li avete trovati? Che avevate venticinque dollari coniati prima del ’61?». Smise di fissare Armstid. Si guardarono lui e Bookwright in silenzio nella luce diffusa. «C’era qualcuno nel ritano che ci spiava» disse. «Dobbiamo comperare».

«Dobbiamo comperare al più presto» disse Bookwright. «Domani».

«Volete dir oggi» disse Ratliff. Bookwright si guardò attorno. Fu come se si svegliasse da un anestetico, come se vedesse l’alba, la terra, la prima volta.

«Giusto» disse. «Siamo già a domani».

Il vecchio era steso sotto una pianta presso il ritano, e dormiva supino, a bocca aperta, la barba sudicia e macchiata nell’alba che avanzava; non si erano più accorti che mancava, da quel momento che avevano cominciato a scavare. Lo svegliarono e lo trasportarono sul baroccio. La cassetta-canile in cui Ratliff metteva le macchine da cucire si chiudeva a lucchetto. Ratliff ne tolse alcune pannocchie di granone, poi vi collocò il sacchetto suo e quello di Bookwright sotto la cianfrusaglia minuta di oggetti barattati, ancora freddi al tatto, e chiuse nuovamente.

«Mettete qui anche i vostri, Henry» disse. «Tutto quel che dobbiamo fare adesso, è dimenticare che li abbiamo, finché non avremo trovato e dissotterrato il resto». Ma Armstid non ne volle sapere. S’arrampicò rigido sopra il cavallo, dietro a Bookwright, senza appoggio, respingendo quell’aiuto che non gli avevano nemmeno offerto, stringendo il sacchetto nella pettorina della tuta rappezzata e scolorita. Partirono. Ratliff, giunto al torrente, sfamò e abbeverò le sue bestie; e fu sullo stradale prima che si levasse il sole. Poco prima delle nove pagò al vecchio il dollaro pattuito e lo depose dove le cinque miglia di sentiero che portavano alla sua capanna toccavano il letto del fiume e voltò i cavallini nerboruti e infaticabili verso il Gomito del Francese. C’era qualcuno nascosto nel ritano, pensava. Bisognava comperare in tutta fretta.

Più tardi ebbe l’impressione che, finché non era giunto all’emporio, neanche lui aveva ben capito quanto in fretta bisognava comperare. Era appena giunto in vista dell’emporio, che scorse la nuova faccia sulla balconata tra le altre familiari, e la riconobbe – Eustace Grimm, un giovane fittavolo che viveva nella contea vicina, a dieci o dodici miglia dal Gomito, sposato da un anno: Ratliff intendeva vendergli una macchina da cucire non appena avessero finito di pagare per il figliolo natogli due mesi prima. Legando le bestie a uno dei pali della balconata e salendo i gradini consunti pensava: Può darsi che un uomo si riposi dormendo, ma per farsi furbo davvero bisogna passare due o tre notti senza chiudere occhio, e stare in pensiero e pigliarsi uno spavento dopo l’altro. Perché non appena riconobbe Grimm, qualcosa gli si mosse dentro, benché gli ci sarebbero voluti tre giorni prima che capisse cos’era stato. Da più di sessanta ore non si era cambiato; oggi non aveva ancora fatto colazione, e quel poco che aveva mangiato in quei due giorni era stato più che saltuario – tutto questo gli si leggeva in faccia. Ma non gli si leggeva nella voce né altrove, e non si leggeva nient’altro che questo. «Buon giorno, signori» disse.

«Voglio crepare se non avete l’aria di essere in piedi da una settimana, V.K.» disse Freeman. «Che cosa state combinando? Lon Quick diceva che il suo ragazzo ha veduto bestie e baroccio nascosti nella valle sotto Armstid, due mattine fa, ma io gli ho detto che quei cavalli non avevano certo bisogno di nascondersi perché non avevano fatto nulla. Voi piuttosto avrete fatto qualcosa».

«Direi di no» disse Ratliff. «Altrimenti avrebbero visto anche me, come i cavalli. Ho sempre creduto di essere troppo in gamba per lasciarmi prendere da qualcuno di voialtri. Ma adesso chi sa». Guardò Grimm con una faccia, salvo l’insonnia e la fatica, blanda, beffarda e impenetrabile come sempre. «Eustace,» disse «avete sbagliato strada».

«Sembra bene» disse Grimm. «Sono venuto a...».

«Ha pagato l’imposta stradale» disse Lump Snopes, il commesso, seduto al solito nell’unica seggiola bilanciata contro la porta. «Gli trovate da dire perché adopera anche lui le strade della Yoknapatawpha?».

«Macché» disse Ratliff. «E se avesse pagato la capitazione dove so io, potrebbe passare col carro nell’emporio e anche in casa di Will Varner». Tutti scoppiarono a ridere, tranne Lump.

«Magari pagherò» disse Grimm. «Sono venuto a vedere...». Tacque, e guardò in faccia Ratliff. Se ne stava immobile, accoccolato, con una scheggia di legno in una mano e il coltello aperto e fermato nell’altra. Ratliff lo guardava.

«Non l’avete veduto neanche stanotte?» disse.

«Stanotte chi?» disse Grimm.

«Come poteva vedere qualcuno al Gomito stanotte, se stanotte non era al Gomito?» disse Lump Snopes. «Andate a casa, Eustace» disse. «Il pranzo è quasi pronto. Io vengo subito».

«Io...» disse Grimm.

«Avete dodici miglia da fare stanotte per arrivare a casa» disse Lump Snopes. «Andate, su». Grimm lo guardò ancora un momento. Poi si alzò e discese gli scalini e uscì sullo stradale. Ratliff non lo guardava più. Stava fissando Snopes.

«Eustace mangia da voi durante la permanenza?» disse.

«Gli succede di mangiare da Winterbottom dove succede che mangio anch’io» disse Snopes con asprezza. «Dove succede che anche degli altri mangiano e pagano il conto».

«Già già» disse Ratliff. «Ma non dovevate scacciarlo in quel modo. Non succede sovente che Eustace venga qui per passare un paio di giorni a guardare le campagne e fermarsi all’emporio».

«Stanotte metterà le gambe sotto il tavolo di casa sua» disse Snopes. «Potete andarci anche voi a vederlo. E scappare nel cortile prima ancora che apra bocca».

«Già» disse Ratliff amabile, blando, impenetrabile, col suo viso spossato e insonne. «Quando ritorna Flem?».

«Ritorna di dove?» disse Snopes con quella voce aspra. «Da quell’amaca di doghe dove se ne sta disteso, passando il tempo con Will Varner e dormendo? Mai, credo».

«Lui, Will e le donne erano a Jefferson ieri» disse Freeman. «Will diceva che tornavano stamattina».

«Ecco» disse Ratliff. «A volte un uomo ci mette più di un anno per levare di testa alla sposina l’idea che i soldi sono stati fatti per far compere». Sovrastava agli altri, poggiato a un palo della balconata, indolente e rilassato, come se la fretta non l’avesse mai nemmeno sentita nominare. Dunque Flem Snopes è a Jefferson da ieri, pensò. E Lump Snopes non voleva che si dicesse. E questo Grimm – di nuovo qualcosa gli si mosse dentro, ma dovevano ancora passare tre giorni prima che capisse che cos’era, perché ora credeva di capire e di vedere tutta intera la faccenda – questo Grimm è qui da ieri sera, da quando almeno abbiamo sentito galoppare quel cavallo. Forse sul cavallo c’erano tutti e due. Forse è per questo che galoppava così pesante. Anche questo vedeva – Lump Snopes e Grimm sull’unico cavallo, fuggenti, galoppanti nel buio verso il Gomito del Francese donde Flem Snopes sarebbe ancora mancato fino alle prime ore del pomeriggio. E Lump Snopes non voleva che neanche questo si dicesse, pensò, e doveva mandare a casa Eustace Grimm perché la gente non gli parlasse. E Lump Snopes non è preoccupato né in bestia: ha paura. Forse avevano perfino trovato il baroccio nascosto. Probabilmente sì; e quindi conoscevano almeno uno di coloro che scavavano nel giardino; adesso Snopes avrebbe non soltanto dovuto contattare il cugino attraverso l’agente, Grimm, ma trovarsi, ciò nonostante, implicato in una gara di offerta per il terreno contro qualcuno che (Ratliff aggiunse senza vanità) era meglio in posizione da batterlo. Assorto, stupefatto come sempre benché tuttora impenetrabile, Ratliff pensò che nemmeno uno Snopes era al sicuro da un altro Snopes. In tutta fretta, pensò. Si staccò dal palo, e si volse agli scalini. «Sarà meglio che vada» disse. «Ci vediamo domani».

«Venite a pranzo da me» disse Freeman.

«Grazie tante» disse Ratliff. «Ho fatto colazione sul tardi da Bookwright. Oggi pomeriggio voglio incassare da Ike McCaslin la fattura di una macchina e tornare prima di notte». Montò sul baroccio e fece voltare i cavalli giù per lo stradale. Ben presto le bestie ebbero preso il loro passo da strada, trotterellando veloci sulle gambette corte dentro i tiranti benché non avanzassero molto rapidamente. Presto ebbero passata la casa dei Varner, oltre la quale la strada svoltava verso il podere di McCaslin e usciva dalla vista dell’emporio. Attaccarono questa strada al galoppo, schizzando polvere dalle schiene irsute in lunghi gettiti dove la frusta li coglieva. C’erano da fare tre miglia. Al primo mezzo miglio sarebbe seguito un viottolo tutto gomiti e poco praticato, ma che si poteva percorrere in venti minuti. E mezzodì era passato da poco e a Jefferson Will Varner non poteva essere riuscito prima delle nove a staccare la moglie dalla congregazione femminile cui era affigliata. Ratliff percorse il viottolo in diciannove minuti, sussultando e rovinando nelle rotaie davanti al vortice della sua polvere, rallentò i cavalli tutti schiumanti e li buttò finalmente sullo stradone di Jefferson, a un miglio dal villaggio, lasciandoli trotterellare per un altro mezzo miglio e rallentare perché si rinfrescassero poco alla volta. Ma non c’era ancora traccia della carrozza, perciò procedette al passo, finché non giunse su una cresta donde dominava la strada per un buon tratto, e uscì dalla strada fermandosi all’ombra di un albero. Neanche a pranzo aveva mangiato. Ma fame vera non ce l’aveva, e per quanto nel mattino, una volta deposto il vecchio e ripresa la strada del villaggio avesse provato un bisogno quasi irresistibile di dormire, anche questo era passato. Se ne stette perciò seduto, rilassandosi, socchiudendo gli occhi indolenziti dal riverbero meridiano, mentre i cavalli (Ratliff non usava filetto) tirando le redini brucavano chini sul pettorale. Gente che l’avrebbe visto ne sarebbe probabilmente passata; qualcuno magari diretto al villaggio, dove avrebbe potuto raccontarla. Ma di questo si sarebbe preoccupato quando fosse il caso. Fu come se si dicesse: Adesso almeno ho un po’ di tempo, posso lasciarmi andare.

Vide allora la carrozza. Ratliff era già in strada e procedeva di quel passo che tutta la regione conosceva, fatto di zampette veloci che pure non avanzavano gran che più rapide di quel che avrebbero fatto due cavalli grandi. Nessuno dalla carrozza poteva ancora averlo scorto. E sapeva che l’avevano scorto e riconosciuto quando, a un duecento metri ancora, fermò e se ne stette seduto nel baroccio, affabile, blando, sereno, salvo per la faccia spossata, finché Varner non gli fermò la carrozza accanto. «Come va, V.K.» disse Varner.

«Buon giorno» disse Ratliff. Fece di cappello alle due donne sedute dietro. «Signora Varner. Signora Snopes».

«Dove andate?» disse Varner. «In città?». Ratliff non mentì, non tentò neppure – sorridente, cortese, perfino un tantino deferente.

«Vi vengo incontro. Volevo dire una parola a Flem». Guardò Snopes per la prima volta. «Vi prenderò sul mio baroccio» disse.

«Hah» disse Varner. «Fate due miglia per trovarlo e poi voltate e ne fate altre due per parlargli».

«È così» disse Ratliff. Guardava sempre Snopes.

«Avete troppo la testa sul collo per cercare di vendere qualcosa a Flem Snopes» disse Varner. «E non sarete certo così scemo, perdio, da comprare qualcosa da lui».

«Non so» disse Ratliff con quella stessa voce amabile, immutata e impenetrabile, che gli uscì dal viso spossato e insonne mentre non smetteva di guardare Snopes. «Una volta credevo di essere furbo, ma ora non so. Vi porterò a casa» disse. «Farete in tempo per il pranzo».

«Va’ su, scendi» disse Varner al genero. «Non ti dirà niente se non sali». Ma Snopes s’era già mosso. Sputò fuori, sopra la ruota, si volse e ne scese scalandola rinculoni, largo e pacato nei sudici pantaloni grigiochiari, la camicia bianca, il berretto scozzese; la carrozza proseguì. Ratliff inchiodò la ruota e Snopes gli salì accanto sul baroccio. Voltò, e i cavallini ripresero l’instancabile e familiare trotto da strada. Ma stavolta Ratliff li dominò e li costrinse a muoversi al passo, intanto che Snopes ciccava al suo fianco. Non si guardavano più in faccia.

«Quel Vecchio Francese» disse Ratliff. La carrozza procedeva un cento metri avanti, pestando come loro la polvere. «Quanto chiederete a Eustace Grimm per venderglielo?». Snopes sputò un po’ di sugo di tabacco al disopra della ruota in movimento. Non masticava in fretta, né pareva ritenesse necessario smettere per sputare o parlare.

«È all’emporio, no?» disse.

«Non è oggi che gli avete detto di venire?» disse Ratliff. «Quanto gli chiederete per venderglielo?». Snopes glielo disse. Ratliff fece un verso brusco, qualcosa come la consueta esclamazione di Varner. «E credete che Eustace Grimm disponga di tanto?».

«Non so» disse Snopes. Sputò un’altra volta al disopra della ruota. Ratliff avrebbe potuto dire: Allora è segno che non volete vendere; e Snopes avrebbe risposto: Io vendo tutto. Ma non se lo dissero. Non ce n’era bisogno.

«Bene» disse Ratliff. «Quanto chiedete per venderlo a me?». Snopes glielo disse. Era la stessa cifra. Stavolta Ratliff fece l’esclamazione di Varner. «Parlavo di quei dieci jugeri dov’è la vecchia casa. Non voglio mica comperare tutta la contea di Yoknapatawpha». Superarono l’ultima collina; la carrozza cominciò a filare più forte, guadagnando terreno su loro. Il villaggio non era ormai lontano. «Facciamo la buona» disse Ratliff. «Quanto volete per vendermi il Vecchio Francese?». Anche i cavallini cercavano di trottare, trascinando il peso lieve del biroccino. Ratliff li trattenne: la strada prendeva a curvarsi, passando la scuola, dove s’entrava nel villaggio. La carrozza era già scomparsa oltre la curva.

«Che cosa volete farne?» disse Snopes.

«Un allevamento di capre» disse Ratliff. «Quanto?». Snopes sputò al disopra della ruota. Disse la terza volta la cifra. Ratliff allentò le redini e i cavallini vigorosi, instancabili, presero il trotto, girando l’ultima curva, davanti alla scuola vuota: il villaggio era in vista, la carrozza pure, già oltre l’emporio, e proseguiva. «Quel tale, quel maestro che avevate tre-quattro anni fa. Labove. Non si è mai più saputo che fine abbia fatto?».

Quella sera, poco dopo le sei, nell’emporio vuoto e già chiuso Ratliff, Bookwright e Armstid acquistarono da Snopes il Vecchio Francese. Ratliff gli diede un atto di rinuncia alla metà che gli apparteneva della trattoria in quella traversa a Jefferson. Armstid gli diede un’ipoteca sul suo podere, compresi il fabbricato, gli attrezzi, il bestiame e qualcosa come due miglia di cinta a tre fili; Bookwright pagò il suo terzo in contanti. Poi Snopes li fece uscire dalla porta d’ingresso e richiuse: si trovarono sulla balconata deserta, nei bagliori morenti di quella sera d’agosto, e lo guardarono allontanarsi sullo stradale verso casa Varner – loro due, cioè, perché Armstid era già corso avanti e montato sul baroccio, dove sedeva immobile in attesa, emanando quel paziente e ribollente furore. «Adesso è nostro» disse Ratliff. «E bisogna che ci andiamo e stiamo attenti prima che qualcuno, una notte o l’altra, prenda zio Dick Bolivar e si metta lui a cercare i soldi nascosti».

Andarono anzitutto a casa di Bookwright (era scapolo) e presero dal letto il materasso e due trapunte, la caffettiera, la casseruola, un altro piccone e un’altra pala; poi passarono dalla casa di Armstid. Anche lui aveva un materasso solo, però aveva una moglie e cinque bambini; e Ratliff, che aveva veduto quel materasso, sapeva che sollevarlo dal letto voleva dire farlo a pezzi. Perciò Armstid prese una trapunta e lo aiutarono a riempire di baccelli un sacco vuoto per farne un guanciale, e tornarono al baroccio passando davanti alla porta dove stava tuttora la moglie con quattro dei bambini stretti intorno. Ma neanche stavolta disse nulla, e quando Ratliff si volse a guardare dal baroccio in moto, la porta era vuota.

Quando uscirono dalla vecchia strada e attraversarono l’accidentato parco alla volta dello scheletro della casa in rovina, c’era ancora luce bastevole perché vedessero il carro e i muli fermi là davanti, e in quel momento dalla casa uscì un uomo e si fermò a guardarli. Era Eustace Grimm, ma Ratliff non capì se Armstid l’aveva riconosciuto o almeno se se n’era data la pena, perché di nuovo prima ancora che il baroccio fosse fermo Armstid ne era sceso e, dato di piglio a quell’altra pala sotto ai loro piedi, s’era precipitato nella sua furia zoppicante e dolente verso Grimm, che si mosse anch’egli in tutta fretta e mise il carro tra Armstid e sé, fermandocisi e spiando Armstid dall’altra parte che con la pala gli menava. «Bisogna fermarlo» disse Ratliff. «Se no l’ammazza!».

«O si rompe un’altra volta quella maledetta gamba» disse Bookwright. Quando lo raggiunsero, Armstid cercava di girare l’ostacolo, con la pala alzata e brandita come una scure. Ma Grimm s’era già buttato dall’altra parte, dove vide ora arrivare di corsa Ratliff e Bookwright, e anche da loro saltò lontano, tenendoli d’occhio, pronto e raccolto. Bookwright imprigionò Armstid fra le braccia, e ve lo tenne.

«Filate subito, se non volete qualcosa» disse Ratliff a Grimm.

«No, non voglio niente» disse Grimm.

«E allora andate, fin che Bookwright lo tiene». Grimm si mosse alla volta del carro, adocchiando Armstid con un lampo curioso negli occhi velati.

«Finirà che con queste matterìe càpita male» disse.

«Ci pensa lui» disse Ratliff. «Voi andatevene». Grimm montò sul carro e si mosse. «Potete lasciarlo» disse Ratliff. Armstid schizzò dalle braccia di Bookwright e si volse al giardino. «Aspettate, Henry» disse Ratliff. «Prima ceniamo. Portiamo i letti in casa». Ma Armstid correva, zoppicando nella luce morente, alla volta del giardino. «Prima dovremmo mangiare» disse Ratliff. Poi cacciò un ansito come un sospiro; lui e Bookwright corsero insieme alla cassetta del baroccio; e Ratliff l’aperse, ne buttarono fuori le pale e i picconi e corsero giù per il pendio nel vecchio giardino, dove Armstid stava già scavando. Ma prima che l’avessero raggiunto, quello si drizzò e prese a correre verso la strada, brandendo la pala. Videro allora che Grimm non se n’era andato ma stava seduto sul carro fermo nella strada, e li guardava attraverso la sconquassata palizzata di picchetti di ferro, finché Armstid gli fu quasi addosso. Allora mosse le bestie.

Scavarono tutta la notte, Armstid in una buca, Ratliff e Bookwright insieme in un’altra. Di tanto in tanto si fermavano per rifiatare, e le costellazioni estive passavano loro sul capo. Ratliff e Bookwright facevano qualche passo per sgranchire i muscoli indolenziti, poi si accoccolavano (nessuno di loro fumava; non potevano arrischiare di mostrare una luce. Armstid probabilmente non aveva mai avuto i quattro soldi da comprarsi il tabacco) e discorrevano calmi, ascoltando l’incessante strepito della pala di Armstid sotto a loro. Scavava quando s’interrompevano; scavava ancora, risoluto e instancabile, quando ci si rimettevano, benché di tanto in tanto uno di loro si ricordasse di lui e si fermasse e lo vedesse seduto sull’orlo della buca, immobile come i mucchi di terra che ne aveva cavato. Ma prima ancora di aver avuto il tempo di pigliar fiato ecco che si era rimesso a scavare; e così continuò finché non fu l’alba, e Ratliff. e Bookwright si sporsero sulla sua buca nella luce pallida, cercando di persuaderlo. «Dobbiamo smettere» disse Ratliff. «C’è già luce abbastanza perché qualcuno ci veda». Armstid non smetteva.

«Ci vedano pure» disse. «Adesso è mio. Posso scavare tutto il giorno se voglio».

«E va bene» disse Ratliff. «Non vi mancheranno gli aiutanti allora». Qui Armstid si fermò, levando il capo dalla buca a guardarlo. «Come facciamo a lavorare tutta la notte e poi star svegli di giorno per fare la guardia?» disse Ratliff. «Venite su» disse. «Dobbiamo mangiare e poi dormire un po’». Tolsero dal baroccio il materasso e le trapunte e li portarono in casa, nel vestibolo dai cui stipiti spalancati non pendevano più porte e dal cui soffitto penzolava lo scheletro di ciò che un tempo era stata una lumiera di cristallo, con la branca di scale i cui gradini da tempo erano stati divelti e portati via a rappezzare fienili, pollai e cessi, e le cui colonnette e ringhiere a chiocciola erano finite spaccate nel fuoco. La stanza che scelsero aveva un soffitto alto quattro metri. S’intravedevano i resti doracchiati di un rabesco a cornicione sulle finestre sfondate e l’increspatura scanalata e dentata del rivestimento donde l’intonaco s’era scrostato, e lo scheletro di un’altra lumiera a prismi di vetro. Distesero il materasso e le trapunte sulla polvere d’intonaco, e Ratliff e Bookwright tornarono al baroccio dove presero i viveri che s’eran portati, e i due sacchetti di monete. Nascosero questi ultimi nel camino, lurido di fatte d’uccelli, dietro la mensola dov’erano ancora incastrati certi rottami del marmo d’un tempo. Armstid non mostrò il suo sacchetto. Non sapevano che cosa ne avesse fatto. Non glielo domandarono.

Non accesero fuoco. Con ogni probabilità Ratliff si sarebbe opposto, ma nessuno pensò di parlarne; mangiarono freddo quel cibo insipido, troppo stanchi per sentirne il sapore; toltesi le scarpe macchiate dell’umida terra delle buche sempre più profonde, si allungarono fra le trapunte e dormirono un sonno agitato, troppo stanchi anche per prendere sonno veramente, e sognarono oro. Verso mezzodì macchie e chiazze di sole frastagliato piovvero per il tetto sconquassato e i due fradici pavimenti sovrastanti, e avanzarono verso oriente sul pavimento e sulle trapunte sconvolte, poi sui corpi proni e sulle flaccide facce supine; e allora i tre si girarono e spostarono o si copersero la testa e il viso con le braccia, quasi che, pur dormendo sempre, fuggissero l’ombra senza peso di ciò per cui da svegli s’erano traditi. Si svegliarono al tramonto, niente affatto riposati. Girarono per la stanza ingranchiti, senza parlare, intanto che la caffettiera bolliva sul focolare infranto; di nuovo mangiarono, ingozzandosi di quel cibo freddo e insipido mentre il fulgore cremisi dell’occidente moribondo sbiadiva nell’alta sala in rovina. Armstid fu il primo a finire. Depose la tazza e si alzò, appoggiandosi prima sulle mani e sulle ginocchia come fa un bimbo, trascinandosi dietro, dolorosamente, la gamba storpia due volle spezzata, e andò zoppicando alla porta. «Dovremmo aspettare che sia buio completo» disse Ratliff, a nessuno in particolare; certo, nessuno gli rispose. Fu come se parlasse a se stesso e si fosse risposto da sé. Si alzò anche lui. Bookwright era già in piedi. Quando giunsero nel giardino, Armstid era già nella sua buca, intento a scavare.

Scavarono durante la breve notte estiva come avevano fatto nella precedente, mentre le solite stelle passavano loro sul capo, fermandosi di tanto in tanto a rifiatare e sgranchirsi i muscoli, tendendo l’orecchio all’incessante sibilo e ripresa della pala di Armstid sotto a loro; lo persuasero all’alba che smettesse, rientrarono nella stanza e mangiarono – il salmone in scatola, la carne fredda nel suo grasso gelatinoso, il freddo pane abbrustolito –, di nuovo dormirono nelle trapunte sconvolte, finché non venne il meriggio e il sole dorato strisciante e tentante, al cui contatto si girarono e spostarono come in un incubo di fuga impotente da quel peso impalpabile e senza peso. Quel mattino avevano finito il pane. Quando nel secondo crepuscolo si svegliarono gli altri, Ratliff aveva messo al fuoco la caffettiera e abbrustoliva nella casseruola un altro strato di pane. Armstid non volle aspettare. Mangiò il suo pezzo di carne senz’accompagnarlo, trangugiò il caffè, e di nuovo si alzò come fanno i bambini, e uscì. Bookwright era in piedi anche lui. Ratliff, accovacciato presso la casseruola, levò la testa a guardarlo. «Andate dunque» disse. «Non c’è bisogno che aspettiate».

«Siamo già a un metro e mezzo» disse Bookwright. «Uno in lungo e tre in largo. Voglio cercare dove c’era il terzo sacco».

«Bene» disse Ratliff. «Andate, andate». Perché di nuovo qualcosa gli si era mosso dentro. Forse era accaduto mentre dormiva, chi sa. Ma sapeva stavolta di non sbagliarsi. Soltanto non voglio guardare, non voglio ascoltare, pensò accoccolato, tenendo ferma la casseruola sulla fiamma, torcendo gli occhi lacrimanti per il fumo che il camino spezzato non sfiatava più per il tetto. Non oso farlo. Tanto, non è ancora necessario. Stanotte posso ancora scavare. Abbiamo perfino un posto nuovo da provare. Attese così che il pane fosse a punto. Poi lo tolse dalla casseruola, lo posò accanto alla cenere e affettò nella casseruola un po’ di lardo e lo cosse; erano tre giorni che non mangiava nulla di caldo, e mangiò senza fretta, accoccolato, sorseggiando il caffè mentre gli ultimi rossori del tramonto salivano sopra il soffitto sfondato e si spegnevano anche lassù, e nella stanza non restava che il riverbero del fuoco morente.

Bookwright e Armstid scavavano da un pezzo. Quando fu tanto vicino da vederci, trovò che Armstid da solo era sotto di un metro e la sua buca era lunga quasi quanto quella che lui e Bookwright avevano scavato insieme. Andò dove Bookwright aveva cominciato la nuova buca, prese la pala (Bookwright l’aveva portata per lui) e cominciò a scavare. Lavorarono anche tutta quella notte, sotto le stelle familiari e lente, fermandosi di tanto in tanto a riposare benché Armstid non si fermasse con loro, sedendosi sul margine della nuova fossa, e Ratliff raccontava, a mormorio, non d’oro né di soldi, ma storielle, faceto, la faccia invisibile, beffarda, assorta, impenetrabile. Ripresero a scavare. Domani a giorno ci sarà tempo di guardare, pensava. Tanto, guardato ho già guardato, pensava. Ho guardato tre giorni fa. Poi venne l’alba. Nel pallido inizio di quella luce, Ratliff depose la pala e si drizzò. Il piccone di Bookwright gli saliva e ricadeva incessante davanti; dodici metri più in là, vedeva Armstid sporgere da terra dalla cintola in su quasi fosse tagliato in due alla vita, e quel busto morto, che non sapeva di esser morto, faticava faticava curvandosi e rialzandosi cadenzato come un metronomo: Armstid tornava a seppellirsi nella terra che lo aveva fatalmente generato a esserle schiavo per sempre fino alla morte. Ratliff uscì dalla buca e si fermò nel fresco terriccio nero che ne avevano cavato, coi muscoli ingranchiti e sussultanti dalla fatica, e si fermò a guardare pacato Bookwright finché Bookwright non se ne accorse e si fermò, il piccone levato per il colpo, guardandolo. Si fissarono – le due facce scarne, barbute, spossate. «Odum,» disse Ratliff «chi era la moglie di Eustace Grimm?».

«Non so» disse Bookwright.

«Io lo so» disse Ratliff. «Era dei Doshey della contea Calhoun. E non va mica bene. E la madre di Eustace era una Fite. E neanche questo non va bene». Bookwright smise di guardarlo. Depose il piccone con cautela, quasi con dolcezza, come se fosse un cucchiaio pieno di brodo o di tanta nitroglicerina, e uscì fuori dalla buca, nettandosi le mani sui calzoni.

«Credevo lo sapeste» disse. «Credevo che della gente di queste parti sapeste tutto».

«Mi sa che adesso lo so» disse Ratliff. «Ma mi sa che è meglio me lo diciate».

«Era la seconda moglie che si chiamava Fite. Non era lei sua madre. Me lo disse mio padre quando Ab Snopes affittò la prima volta quel podere dei Varner, cinque anni fa».

«Sì» disse Ratliff. «Dite».

«La madre di Eustace era la sorella più giovane di Ab Snopes». Si fissarono, socchiudendo gli occhi. Presto la luce avrebbe tutto invaso.

«Già» disse Ratliff. «Avete finito?».

«Sì» disse Bookwright. «Ho finito».

«Ne scommetto una che vi batto» disse Ratliff. Risalirono il pendio ed entrarono in casa, nella stanza dove dormivano. Nella stanza era ancor buio, perciò mentre Ratliff. cercava a tentoni i due sacchetti nel camino, Bookwright accese la lanterna e la depose sul pavimento. S’accovacciarono uno di fronte all’altro, ai due lati della lanterna, e aprirono i sacchi.

«Avremmo dovuto capire che nessuna tela di sacco...» disse Bookwright. «Dopo trent’anni...». Vuotarono i sacchi sul pavimento. Presero una moneta per uno, l’esaminarono un istante, poi le deposero accanto alla lanterna l’una sull’altra come si fa giocando a dama. Poi, a una a una esaminarono le altre al lume della sporca lanterna. «Ma come ha fatto a sapere che saremmo stati noi?» disse Bookwright.

«Non lo sapeva» disse Ratliff. «Non gliene importava. Veniva qui tutte le notti e scavava un po’. Sapeva bene che non potevano passare due settimane senza che qualcuno lo vedesse». Depose l’ultima moneta e si sedette sui tacchi, in attesa che Bookwright avesse finito. «1871» disse.

«1879» disse Bookwright. «Ne ho persino una dell’anno scorso. Avete vinto».

«Ho vinto» disse Ratliff. Prese le due monete e rimisero il denaro nei sacchetti. Non li nascosero. Li lasciarono entrambi sulle rispettive trapunte e spensero la lanterna. Era già più chiaro e si vedeva benissimo Armstid che si curvava e drizzava e curvava, dentro la buca fino ai fianchi. Presto sarebbe comparso il sole; si vedevano già tre bozzagri librati nell’alto gialloceleste. Armstid non levò neppure il capo quando gli si avvicinarono; continuò a scavare anche quando si fermarono sull’orlo e abbassarono gli occhi a guardarlo. «Henry» disse Ratliff. Poi si chinò e lo toccò sulla spalla. L’altro fece una giravolta brandendo la pala di taglio, luccicante d’un filo sottile d’alba d’acciaio, come il filo di una scure.

«Fuori dal mio buco» disse. «Fuori».

2

I carri carichi di uomini, donne, bambini, che venivano al villaggio da quella direzione, si fermavano e gli uomini venuti a piedi dall’emporio per appoggiarsi alla palizzata di Varner guardavano, mentre Lump, Eck Snopes e Sam, il negro di Varner, caricavano il mobilio, i bauli e le casse sul carro acculato contro la veranda. Era il medesimo carro, tirato dai medesimi muli, che in aprile aveva riportato Flem Snopes dal Texas, e quei tre andavano e venivano dalla casa al carro – Eck o il negro camminando cauti a ritroso per la porta col carico frammezzo, e Lump Snopes saltellando intorno con un continuo cicaleccio di esortazioni e di comandi, dando una mano, certo, ma senza portare pesi, per issarlo sul carro, e tornando, arrestandosi sulla soglia e scansandosi, davanti alla signora Varner che sbucava con un’altra bracciata di boccaletti e di barattoli, ermeticamente chiusi, di frutta e ortaggi. Gli astanti dalla palizzata tenevano il conto degli oggetti – il letto smontato, il cassettone, il portacatino con bacinella, brocca, secchia e orinale tutti a fiori, il baule che conteneva senza dubbio gli indumenti di moglie e figlia, la cassa di legno che almeno le donne sapevano che certo conteneva piatti, posateria e pentole, e finalmente una balla di tela marrone strettamente legata. «Quello cos’è?» disse Freeman. «Sembra una tenda».

«È una tenda» disse Tull. «L’ha ritirata Eck l’altra settimana all’ufficio postale».

«Non andranno mica a Jefferson a vivere sotto la tenda?» disse Freeman.

«Non so» disse Tull. Finalmente il carro fu carico; Eck e il negro uscirono scalpicciando per l’ultima volta; la signora Varner sbucò con l’ultimo barattolo a chiusura ermetica; Lump Snopes rientrò in casa e ne uscì con la valigia di paglia che tutti conoscevano; poi Flem Snopes e poi la moglie uscirono. Lei portava la marmocchia ch’era troppo grossa per essere nata di sette mesi ma che certo non aveva aspettato fino a maggio, e si fermò un istante, olimpica di statura, superando della testa sia la madre che il marito, in un abito a giacchetta malgrado l’abbondante calore dell’estate piena, mostrando anche soltanto con la carnagione di non avere ancora diciott’anni, poiché la maschera senza sguardo o espressione non aveva età, mentre le donne sui carri la guardavano e pensavano che quello era il primo abito a giacchetta che al Gomito del Francese si fosse mai visto e che dunque era riuscita a cavare vestiti da Flem Snopes perché non era certo Will Varner quello che adesso li comprava, e gli uomini dalla palizzata la guardavano e pensavano a Hoake MacCarron e che ciascuno di loro le avrebbe comprato quel vestito o qualunque altra cosa lei avesse voluto.

La signora Varner le tolse la marmocchia, e tutti la videro raccogliersi la sottana nella mano con l’eterno, sconvolgente gesto femminile, la videro salire dalla ruota alla panca dove già Snopes sedeva tenendo le redini, e sporgersi e ricevere la marmocchia dalla signora Varner. Il carro si mosse, traballò nel movimento – dondolando le bestie nel traversare il cortile alla volta del cancello aperto sul viottolo, e ciò fu tutto. Se addio ci fu, era stato quello: i carri fermi sulla strada scricchiolarono nel muoversi, benché Freeman, Tull e gli altri quattro si voltassero soltanto, di nuovo rilassati, la schiena stavolta contro la palizzata, i visi gravi tutti allo stesso modo, un po’ velati e forse persino compunti, senza guardare direttamente il carro carico che girava dal viottolo, s’avvicinava e finalmente passava – il berretto scozzese, la mandibola lenta e continua, la farfalla minuscola e la camicia bianca; l’altro viso, calmo, bellissimo, di un’espressione scolpita, quasi cadaverica, e che certo non guardava loro, probabilmente non guardava nulla che loro sapessero. «Addio, Flem» disse Freeman. «Tienimi una costoletta pronta, quando avrai imparato a far cucina». Lui non rispose. Come non avesse sentito. Il carro proseguì. Osservandolo, non muovendosi ancora, lo videro svoltare sulla vecchia strada che fino a due settimane prima per vent’anni era stata segnata soltanto dagli zoccoli del cavallone bianco di Varner.

«Dovrà fare tre miglia in più per ritornare sullo stradale da quella parte» disse Tull con voce ansiosa.

«Magari fa conto di portarsi quelle tre miglia a Jefferson e rifilarle ad Aaron Rideout per la metà che resta della trattoria» disse Freeman.

«Magari le rifilerà a Ratliff, Bookwright e Armstid in cambio di qualche altra cosa» disse un terzo – si chiamava anch’egli Rideout, fratello del primo, entrambi cugini di Ratliff. «A Jefferson troverà Ratliff».

«Troverà Armstid senza andare tanto lontano» disse Freeman.

La strada non era più una cicatrice sbiadita e quasi rimarginata. Era di nuovo solcata, perché una settimana prima era piovuto, e adesso l’erba e le gramigne abbondanti di quasi trent’anni mostravano quattro solchi diversi: le due esterne dove erano passate ruote cerchiate di ferro, le due interne dove quotidianamente i tiri bardati camminavano sin da quel pomeriggio che c’era entrato il primo – i carri logori e scricchiolanti, cavalli e muli scorticati dall’aratro, gli uomini, le donne e i bambini che entravano in un altro mondo, traversavano un’altra terra, si movevano in un altro tempo, in un altro pomeriggio senza tempo né nome.

Dove la sabbia s’incupiva nell’acqua scarsa del torrente e poi schiariva e tornava a salire, le innumerevoli tracce sovrapposte di ruote e di zoccoli erano come clamori in una chiesa abbandonata. Poi i carri cominciavano a mostrarsi, allineati lungo la strada, i bimbi più piccini accovacciati dentro, le donne tuttora sedute sulle sedie d’assicella nei carri, intente a sfamare i marmocchi se era il caso, gli uomini e i bambini più grandicelli ritti in silenzio lungo la cinta di ferro sconquassata e coperta di caprifoglio, a guardare Armstid che vangava senza posa sul pendio del vecchio giardino. Era due settimane che lo guardavano. Dopo il primo giorno, dopo che i primi l’avevano visto e ne avevano portato la notizia a casa, erano cominciati ad arrivare in carro o a dorso di cavallo o di mulo, da un raggio di dieci-quindici miglia, uomini, donne e bambini, ottuagenari e lattanti, quattro generazioni alla volta su un assito logoro e sconquassato ancor tutto sporco di letame secco o di fieno o di pula, e sedevano sui carri o si piantavano lungo la cinta col sussiego di una visita di cerimonia, con l’estatico interesse di una folla che contempla un ciarlatano a una fiera. Il primo giorno quando il primo era smontato accostandosi alla cinta, Armstid era sbucato dalla fossa e gli era corso contro, trascinando la gamba storpia, brandendo la pala, imprecando in un susurro rauco, fioco, ansimante, e aveva scacciato quel tale. Ma presto aveva smesso; aveva l’aria di non accorgersi più degli astanti lungo la cinta, che lo contemplavano intento a vangare senza posa, avanti e indietro per il pendio, con quella esausta e indomabile furia. Ma nessuno aveva più cercato di entrare nel giardino, e adesso erano soltanto i ragazzetti che gli davano qualche noia.

Verso la metà del pomeriggio, quelli che erano venuti più da lontano cominciavano a ripartire. Ma c’era sempre qualcuno che rimaneva, anche se ciò voleva dire sbardare le bestie, farle mangiare o addirittura mungerle al buio. Poi, poco prima del tramonto, arrivava l’ultimo carro – i due muli sparuti, dall’aria di conigli, le ruote rafforzate, scentrate, raschianti – e tutti lungo la cinta si voltavano e guardavano cheti la donna dall’abito grigio e informe e dalla berretta scolorita smontare e prendere sotto la panca una secchia e farsi alla cinta, di là dalla quale l’uomo non aveva ancora levato gli occhi né rallentato i suoi gesti di metronomo. La donna posava la secchia nell’angolo della cinta e stava ferma un momento, immobile, l’abito grigio che le ricadeva in rigide pieghe scolpite fino alle sudice scarpe da tennis, le mani giunte e avvoltolate nel grembiale sul grembo. Che guardasse l’uomo, nessuno poteva dire; che guardasse qualcosa, nessuno lo sapeva. Poi si voltava e ritornava al carro (doveva anche nutrire le bestie e mungerle, oltre a preparare la cena per i figli), montava a cassetta, dava di piglio alle redini di corda, girava e si allontanava. Allora anche l’ultimo degli spettatori se ne andava, lasciando Armstid nel mezzo del suo oscurato pendio dove vangava sotto l’imbrunire crescente con la regolarità di un giocattolo meccanico e qualcosa di mostruoso nello sforzo indomabile, quasi che il giocattolo fosse troppo leggero per quanto doveva fare, o la sua carica sforzata. Nelle calde mattinate estive, accoccolati sulla balconata dell’emporio ciccando adagio o fiutando, o per i calmi crocicchi della campagna nei lunghi raggi obliqui del pomeriggio, ne discorrevano ancora, da carro a carro, da carro a cavaliere, da cavaliere a cavaliere, da carro a cavaliere a qualcuno fermo vicino a una cassetta postale o a un cancello: «Ci dà sempre dentro?».

«Ci dà sempre dentro».

«Finirà per ammazzarsi. Non sarà una gran perdita».

«Non certo per sua moglie».

«È un fatto. Così risparmierà la corsa di tutti i giorni per portargli da mangiare. Quel Flem Snopes».

«È un fatto. Chi altro ci sarebbe riuscito?».

«Nessun altro ci sarebbe riuscito. Chiunque avrebbe potuto farla a Henry Armstid. Ma chi se non Flem Snopes avrebbe saputo farla a Ratliff?».

Ora, benché fossero appena passate le dieci, non soltanto la folla quotidiana era già tutta arrivata, ma c’erano ancor tutti, compresi perfino quelli che come lui se ne andavano a Jefferson, quando Snopes arrivò. Non uscì dalla strada per mettersi in fila. Passò invece davanti ai carri fermi, mentre le teste delle donne che tenevano al seno i marmocchi si volgevano a guardarlo – i visi gravi, velati anche, che continuavano a guardarlo quando fermò il carro e rimase a sedere, ciccando con quello scarto cadenzato e continuo e guardando sopra le loro teste nel giardino. Allora le teste lungo la cinta in rovina si volsero come per seguire il suo sguardo, e videro due ragazzetti uscire dal sottobosco nell’angolo più lontano del giardino e traversare a passi di lupo, accostando Armstid alle spalle. Lui non aveva alzato il capo né smesso di scavare, pure i ragazzi non gli erano giunti a sei metri che si volse di scatto, si trascinò fuori della fossa e corse loro addosso brandendo la pala. Non disse nulla; non imprecava neppure, ormai. Li rincorse soltanto, strascinando la gamba, incespicando fra le zolle scavate, mentre i ragazzi scappavano avvantaggiandosi. Erano già dileguati tra i cespugli donde venivano, che Armstid continuò a correre finché non incespicò e stramazzò, e giacque un istante mentre di là dalla cinta tutti lo guardavano in un silenzio così assoluto che udivano l’ansito secco del suo respiro trafelato. Poi si rialzò, sulle mani e sulle ginocchia come fanno i marmocchi, raccolse la pala e tornò alla fossa. Non levò gli occhi al sole, come fa per valutare il tempo chi smetta un po’ di lavorare. Tornò difilato alla fossa, affrettandosi con quella sua indolenzita e spossata lentezza, col viso sparuto e barbuto ch’era ormai in tutto il viso di un pazzo. Ridiscese nella fossa e riprese a scavare.

Snopes volse il capo e sputò oltre la ruota del carro. Scosse appena le redini. «Su» disse.

 

FINE