La mattina seguente, Abril era pensierosa. Marcus la osservava bevendo il caffè a letto, mentre lei si preparava per uscire.
«Per quanto apprezzi la tua compagnia, voglio che lasci la Spagna», disse, tirando fuori un borsone dall’armadio.
«Perché?»
«Non voglio che ti capiti qualcosa. Ti sei messo contro avversari determinati e influenti, chiunque essi siano. Hai già rischiato di morire! Non una, ma due volte! Non hai più le spalle coperte dalle risorse del governo americano. Non hai più nemmeno Andreason. Sei da solo.»
«Non è vero. Ho un amico nelle forze dell’ordine italiane. E ho te.»
«Non è uno scherzo, Marcus. Questi fanno sul serio. Lascia che la polizia faccia il suo lavoro. Vedrai che le troveranno.»
«No. Victoria ed Elizabeth mi chiamano ’zio Marcus’. Non posso deluderle.»
Lei iniziò ad aprire cassetti e infilare abiti nella borsa. «Sai perché lo fai, vero? Vuoi sentirti di nuovo vivo. Be’, a me sembravi vivo eccome, ieri sera, nonostante il barile di Glenlivet e la spalla malandata. L’ultima volta ti è andata male e... a proposito, lo sai che Burakov è morto d’infarto l’anno scorso?»
«Bene, spero abbia sofferto.»
«Sei divorato dai sensi di colpa per come ti sei comportato con Alice e speri che, se oggi ti comporti da eroe, magari il rimorso se ne andrà. Ma ti sbagli.»
«Grazie, dottor Freud. Quanto le devo?»
«Proprio non vuoi mollare, vero?»
Marcus scese dal letto e cercò le sigarette nella tasca dei pantaloni.
«Non ci pensare nemmeno.»
Lui aprì la porta finestra. «Vado in balcone.»
«Va bene, ma mettiti qualcosa addosso. Non voglio che i miei vicini vedano un uomo nudo.»
Lui obbedì, uscì e si sedette al tavolino di metallo per chiamare Lumaga.
«Hai novità?» gli chiese.
Lumaga sembrava stanchissimo. «Ho appena parlato con la polizia francese. Nell’elicottero hanno trovato bossoli calibro 5,56 di fattura slovacca. A parte questo, niente. Le telecamere di sorveglianza hanno ripreso un SUV verde che si allontanava dal punto di atterraggio e che poi è stato trovato a una cinquantina di chilometri. Era stato rubato un paio di giorni fa. Poi le tracce si perdono. Abbiamo ricevuto il rapporto dell’autopsia delle vittime del monte Prelà e di Villa Shibui, ma sai già come sono morte. I miei uomini stanno controllando i porti e gli aeroporti, ma non c’è traccia delle bambine. Purtroppo non c’è altro da dire.»
«Ho bisogno del tuo aiuto.»
«Certo, qualsiasi cosa.»
«Non credo di poter andare nell’ufficio amministrativo del La Paz e sperare che mi diano i fascicoli relativi a Celeste e Ferruccio Gressani. Potresti ricontattare i familiari e gli amici di Ferruccio per scoprire in che reparto lavorava? Magari riesci a farti dare il nome di un medico o di un collega.»
«Certo, ci provo. A dopo.»
Abril doveva andare a Bruxelles per una conferenza della NATO, perciò disse a Marcus che poteva usare la sua macchina. Quando arrivò il suo autista, si salutarono con un bacio, come una coppia, dopodiché Marcus andò in garage a prendere la BMW.
Fabiana Odorico tornò a Cessaniti, nella casetta con le persiane rosse e i vasconi di fiori. Manuela Gressani la aspettava e la accolse con caffè e biscotti.
«Avete scoperto chi ha ucciso il mio Ferruccio?» chiese.
«No, ma ci stiamo lavorando. Per questo sono venuta a trovarla.»
«Come vi posso aiutare?»
«Avremmo bisogno di sapere qualcosa di più sull’ospedale in cui lavorava Ferruccio.»
«Le ho già detto come si chiamava l’ospedale, non si ricorda?»
«Sì, certo. Intendo dire che vorrei sapere in che reparto lavorava Ferruccio. O magari se si ricorda il nome del suo capo.»
«Non ne ho idea. Non le veniva a raccontare a me, queste cose.»
«Le ha mai scritto con la carta intestata dell’ospedale?»
La donna scosse la testa e chiese a Odorico di alzarsi.
«Mi spiace. Ho detto qualcosa che l’ha offesa?»
«Certo che no! Vorrei solo che venisse con me in soggiorno.»
Sul tavolo della sala c’era un raccoglitore in cui Manuela aveva riunito tutti i ricordi di Ferruccio.
«Qui c’è tutta la sua vita. Dalla nascita alla morte. Non mi resta altro. Non ho ancora inserito le ultime foto che mi ha spedito dalla Spagna, ma sono lì, se le vuole guardare.»
Odorico si sedette e passò in rassegna gli scatti. Si fermò su uno che mostrava un giovane con la barba che indossava un camice di laboratorio.
«Quella me l’ha mandata i primi giorni che era a Madrid. Guardi com’era bello.»
«Posso tenerla?»
«Preferirei di no. È l’unica in cui sorride così.»
«Allora la fotografo, se non le dispiace.»
«Ma no, faccia pure. Capisco perché ci tenga. È venuto proprio bene.»
La Biblioteca Pública Municipal Eugenio Trías si trovava all’interno del parco del Retiro e occupava due edifici che un tempo facevano parte dello zoo. Marcus esordì in spagnolo, ma la donna al banco informazioni gli rispose in perfetto inglese. «Se vuole, possiamo continuare nella sua lingua».
«Grazie. Sto cercando i vecchi elenchi telefonici di Madrid.»
«Quanto vecchi?»
«Non tanto. Degli ultimi dieci anni.»
La donna segnò un punto su una piantina. «Li trova qui.»
Marcus partì dal più recente, ma non compariva nessuna Celeste. Procedette a ritroso, fino a quello di sei anni prima. Eccola: C. Bobier, calle de la Villa de Marín, 45 #719. Ringraziò la donna al banco informazioni e tornò a prendere la BMW di Abril.
Finalmente era uscito il sole e il parco era inondato di luce. Intorno a lui passeggiavano pensionati e genitori coi passeggini, oltre a turisti che scattavano foto.
D’un tratto Marcus non vide più nulla di ciò che lo circondava.
Il messaggio di Lumaga aveva cancellato tutto.
La foto allegata era di Ferruccio Gressani, di quando ancora lavorava all’Hospital La Paz. Il giovane con la barba e il camice da laboratorio che sorrideva all’obiettivo si trovava in piedi nel corridoio di un ospedale. Sopra di lui c’era un cartello: INSTITUTO DE GENÉTICA MÉDICA Y MOLECULAR.
Marcus corse verso la macchina.
L’ospedale era a nord del centro. Marcus ci arrivò tramite la M-30, parcheggiò e raggiunse l’istituto di genetica medica e molecolare, che si trovava in un edificio dedicato proprio al centro del complesso ospedaliero. Trovò l’ufficio dell’amministrazione e chiese di poter parlare col direttore.
«Intende il dottor Gaytán?» chiese la receptionist.
«Se il dottor Gaytán è il direttore, allora sì.»
«Ha un appuntamento?»
«No, ma è davvero urgente.»
«Qui non riceviamo i pazienti. Se torna all’accettazione, le mostreranno come accedere ai vari reparti.»
«Non sono un paziente. È una questione personale di cui devo discutere col dottor Gaytán.»
«Mi spiace ma, se non ha un appuntamento, temo sia impossibile.» Annotò un numero su un foglietto. «Ecco, lasci un messaggio in segreteria, così il dottor Gaytán la può richiamare.»
Marcus aveva capito che, se avesse insistito, la donna avrebbe chiamato la sicurezza. Nel parcheggio sotterraneo, aveva preparato un’arma di riserva. Una reliquia del passato che sperava avrebbe sbloccato la situazione.
Un vecchio biglietto da visita.
Central Intelligence Agency
Marcus Handler
George Bush Center for Intelligence
Langley, Virginia 22101
Lo porse alla receptionist e ripeté che doveva parlare urgentemente col direttore. La donna lo prese, lo guardò con occhi sgranati e sparì dietro una porta. Mentre aspettava, Marcus si chiese quante leggi avesse appena infranto. La donna tornò dopo pochi minuti e gli chiese di seguirlo. Lo condusse in un ufficio d’angolo, dalle cui finestre s’intravedeva un parco. Alla scrivania era seduto un uomo dell’età di Marcus, che si alzò e indossò la giacca che aveva riposto sullo schienale della sedia. «Piacere di conoscerla, signor Handler. Sono il dottor Gaytán. Prego, si accomodi.»
Marcus lo squadrò. Non aveva mai prestato molta attenzione all’aspetto fisico degli uomini, ma doveva riconoscere che il direttore era molto attraente. Aveva folti capelli neri, con appena una spruzzata di grigio sulle tempie, e un’abbronzatura da star di Hollywood. Restituì a Marcus il suo biglietto da visita e gli allungò il proprio, dove c’era scritto: Dottor Ferrol Luis Gaytán, direttore.
«Come posso aiutarla? Non capita tutti i giorni di ricevere una visita della CIA.»
«Ho bisogno d’informazioni in merito a un suo ex dipendente.»
«Qui abbiamo centinaia di impiegati ma, se non lo conosco personalmente, posso indicarle la persona giusta cui rivolgersi.»
Una segretaria di bell’aspetto si materializzò con due caffè e, non appena li lasciò soli, Marcus disse: «Si tratta di Ferruccio Gressani. Era un tecnico di laboratorio che lavorava qui sei anni fa».
Gaytán aggrottò la fronte. «Il nome non mi dice niente. Quanti anni ha?»
«La domanda corretta sarebbe ’quanti anni aveva’. Trentadue.»
«È morto?»
«Assassinato.»
«Posso chiedere perché la CIA è interessata a lui?»
«Non sono autorizzato a rispondere.»
«Il che vuol dire che ci sono di mezzo i terroristi. E per voi è importante scoprire di cosa si occupava qui da noi?»
«Esatto. Vorremmo anche scoprire se qualcuno sa dove sia andato dopo aver lasciato questo lavoro.»
«Mi faccia fare una telefonata.» Gaytán chiese alla segretaria di farsi passare l’ufficio risorse umane, cui chiese informazioni in merito a Ferruccio Gressani. «Sì, era italiano... ah, nel laboratorio di citogenetica. Chi era il suo supervisore? Io? Non è possibile. Ah, ecco, lui faceva capo a López. Sì, all’epoca ero il responsabile del laboratorio. Aspetta un attimo, ora me lo ricordo! Sì, sì, ho capito chi è. Sì, mi sono rifiutato di scrivergli una lettera di referenze. Per ovvi motivi. Ha lasciato un recapito? Grazie, mi sei stato di grande aiuto.» Riagganciò e scosse la testa.
«Ho capito quasi tutto. Ho passato anni di stanza qui in Spagna», disse Marcus.
«Ah, bene. Come ha sentito, a quanto pare lo conoscevo, Gressani, e la telefonata mi ha rinfrescato la memoria. Un ragazzo simpatico, che lavorava in uno dei nostri laboratori. A volte scherzava sul fatto che i nostri nomi erano molto simili: Ferruccio e Ferrol. Lo trovavo un po’ inopportuno, ma lasciavo correre. È stato licenziato. A quanto pare, era sparito un macchinario dal laboratorio e il suo superiore sospettava fosse stato lui. Quando lo ha messo alle strette, ha confessato il furto e ha restituito il macchinario. Temo che avesse problemi di droga. Abbiamo accettato di non denunciarlo, a patto che rassegnasse subito le dimissioni. Volevamo chiudere quello sgradevole incidente il prima possibile. Non ha lasciato un recapito. Ha detto che è stato assassinato?»
«In Italia.»
«Capisco. Pare proprio che avesse preso una brutta piega. Mi spiace di non poter fare di più per aiutarla.»
Marcus sospirò. Un altro vicolo cieco. «Potrebbe indicarmi l’ufficio risorse umane? C’è un’altra persona su cui sto indagando che potrebbe aver lavorato per questo ospedale. Si chiama Celeste Bobier.»
Gaytán sgranò gli occhi. «Celeste? La conosco. Ha lavorato come infermiera per un breve periodo. Si occupava di alcuni pazienti che si erano sottoposti a un trial sperimentale. Non è rimasta molto, però non è un tipo che si dimentica in fretta, se capisce cosa intendo. Spero non si sia cacciata nei guai.»
«Purtroppo è morta anche lei.»
«Oddio! Com’è successo?»
«Anche lei assassinata. Temo di non essere autorizzato a dirle altro.»
Gaytán scosse la testa. «Che tragedia. Il mondo sembra essere impazzito.»
«Che cosa mi sa dire di Celeste?»
«Veniva dal Sud della Francia. Era molto in gamba, solare, gran senso dell’umorismo. Nonché molto bella.»
«L’ha mai frequentata al di fuori dell’ospedale?»
«Santo cielo, no! Spero di non averle dato questa impressione. Il nostro era un rapporto professionale.»
«Quando se n’è andata?»
«Non ricordo di preciso, sarà stato quattro o cinque anni fa.»
«Come mai?»
«Mi pare dovesse tornare in Francia. Sua madre si era ammalata.»
«Non ha più avuto sue notizie?»
«No.»
«Le ha scritto una lettera di referenze?»
«È possibile, era un’ottima infermiera. Posso cercare nel computer.»
«Sa se conosceva Gressani?»
«Non ne ho idea. Non può proprio dirmi che cosa le è capitato? Sono davvero sconvolto.»
«Purtroppo no. Posso chiederle un’ultima cosa? Potrebbe controllare se lei ha lasciato un recapito?»
Gaytán si alzò e lanciò un’occhiata al sottile orologio d’oro. «Ho una riunione, ma più tardi chiederò alle risorse umane. Sul suo biglietto da visita non c’era nessun numero di telefono. Come posso contattarla?»
Marcus scrisse il numero del suo cellulare su un pezzo di carta.
«Alloggia qui a Madrid?»
Marcus gli diede il nome dell’albergo.
«Lo conosco. Pensavo che voi della CIA vi poteste permettere di meglio.»