NATHANAEL1 A LOTHAR
Di certo voi tutti sarete in grande apprensione, perché è tanto, davvero tanto, che non vi scrivo. La mamma, immagino, me ne vorrà e Clara penserà che stia qui a darmi alla pazza gioia e mi sia scordato il volto del dolce angelo mio2, che ho impresso così a fondo nel cuore e nella mente. – Ma così non è; non c’è giorno e non c’è ora che non vi rammenti tutti, nei miei dolci sogni si affaccia la gentile immagine della mia diletta piccola Clara, e mi sorride soave con quei suoi occhi così luminosi, come quando venivo a casa da voi. – Ma come avrei potuto, ahimè, scrivervi nello stato d’animo straziato che ha turbato fino a ora tutti i miei pensieri! – Qualcosa di tremendo ha sconvolto la mia vita! – Oscuri presagi di una sorte orribile che mi minaccia incombono su di me come le ombre di nere nubi, e non c’è raggio di sole che arrivi a squarciarle. – Ora ti dirò quel che mi è accaduto. Devo farlo, me ne avvedo, ma al solo pensarci sento montarmi dentro come una folle risata3. – Oh, carissimo Lothar!, come fare a spiegarti sia pure a grandi linee che quanto mi è successo qualche giorno fa poteva distruggere tragicamente la mia vita! Se solo tu fossi qui, potresti rendertene conto di persona; ora invece mi prenderai per un folle visionario4. In breve, le cose terribili che mi sono accadute e che mi hanno lasciato un’impressione esiziale5, alla quale invano tento di sottrarmi, consistono nulla più che in questo: qualche giorno fa, precisamente il 30 di ottobre, a mezzogiorno venne a casa mia un venditore di barometri a offrirmi la sua merce6. Non acquistai nulla e se ne andò di sua spontanea volontà solo quando minacciai di buttarlo giù dalle scale.
Non ti sarà difficile immaginare che soltanto corrispondenze molto speciali, profondamente radicate nella mia vita, siano in grado di fornire una spiegazione a questo accadimento; solo così potrai capire l’effetto davvero malefico che quello sciagurato mercante ha prodotto su di me7. Ora vedrò di raccogliere tutte le forze per raccontarti con calma e pazienza alcune vicende della mia infanzia8: ogni cosa allora si paleserà con la massima limpidezza al tuo acuto intelletto. Eppure, mentre sto iniziando, è come se sentissi te che ridi e Clara che dice: ma queste non sono altro che bambinate! – Ridete, vi prego, ridete pure di me! – Ve ne prego davvero! – Ma, Dio del cielo!, i capelli mi si rizzano in testa e mi sembra di implorarvi di deridermi, in preda a una folle disperazione, come quando Franz Moor scongiura Daniel9. Ma ora basta, cominciamo!
Durante il giorno, fuorché a pranzo, i miei fratelli e io vedevamo poco il babbo. Il lavoro pareva tenerlo molto occupato. Dopo la cena, che secondo un’antica consuetudine veniva consumata alle sette, tutti noi, compresa la mamma, andavamo nella stanza da lavoro di nostro padre e ci mettevamo intorno a un tavolo. Il babbo fumava e beveva un bicchierone di birra. Spesso ci raccontava storie meravigliose10, e si accalorava a tal punto che gli si spegneva di continuo la pipa; porgendogli un tizzo di carta, io avevo allora il compito di riaccendergliela, e per me era un diletto senza pari. Capitava spesso però che si limitasse a passarci libri illustrati, e a starsene zitto e fermo nella sua poltrona, mandando potenti boccate di fumo fino a ricoprirci tutti come di una coltre di nebbia11. In tali sere la mamma era molto triste e, ancora non erano suonate le nove, ci diceva: «Su, bambini! – a letto! a letto!, sta arrivando l’uomo della sabbia12, lo sento già». E davvero ogni volta io udivo passi lenti e pesanti che facevano rintronare le scale; non poteva che essere l’uomo della sabbia13. Una volta quei cupi passi e quel sordo rumore mi parvero particolarmente tremendi, e domandai a mia madre che ci stava portando via: «Mamma, senti, ma chi è questo uomo della sabbia tanto cattivo che ogni volta ci manda via dal babbo? Com’è fatto?». «L’uomo della sabbia non esiste, bambino mio» rispose la mamma «quando dico che arriva l’uomo della sabbia, voglio solo dire che avete sonno e non riuscite a tenere gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato sabbia negli occhi.»14 – Ma quella risposta non mi convinceva, anzi, nella mia mente di bimbo concepii fermamente l’idea che la mamma negasse l’esistenza dell’uomo della sabbia, perché non avessimo paura di lui; io, del resto, lo sentivo con le mie orecchie quando saliva le scale. Preso dalla curiosità di saperne di più su chi fosse quella creatura e che cosa avesse a che fare con noi bambini, mi rivolsi infine alla vecchia che si occupava di mia sorella più piccola chiedendole chi fosse mai quest’uomo della sabbia. «Ma come Thanelchen» replicò quella «ancora non lo sai? È un uomo cattivo che viene dai bimbi che non vogliono andare a letto e gli butta manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare via tutti pieni di sangue; lui poi li getta nel sacco e li porta sulla mezzaluna in pasto ai suoi figli, che se ne stanno dentro il nido e hanno becchi ricurvi come quelli delle civette per poter beccare gli occhi dei bimbi cattivi.»15 L’immagine dell’uomo della sabbia, crudele e disgustosa, mi si era dunque dipinta nell’animo; quando la sera sentivo le scale rintronare, tremavo di paura e di terrore. E la mamma non riusciva a strapparmi altro che il grido: «L’uomo della sabbia!, l’uomo della sabbia!» balbettato fra i singhiozzi. Dopodiché correvo nella mia stanza e per tutta la notte ero torturato da quella terribile apparizione. Ero già abbastanza grande per rendermi conto che tutta la storia dell’uomo della sabbia con il nido sulla mezzaluna, così come me l’aveva raccontata la bambinaia, non poteva certo quadrare, tuttavia l’uomo della sabbia rimase per me un terribile spettro e un vero orrore – raccapriccio mi coglieva non soltanto a sentirlo salire le scale, ma anche quando l’udivo spalancare con violenza la porta della stanza di mio padre ed entrare. Capitava che non si facesse vedere per lunghi periodi, ma poi ritornava e magari veniva per più giorni di seguito. Tutto questo andò avanti per anni: avvezzarmi a quel sinistro fantasma non mi fu mai possibile, né l’immagine di quella crudele figura accennò a impallidire. I rapporti che intratteneva con il babbo presero a occupare un posto sempre maggiore nella mia fantasia; un invincibile timore mi trattenne dall’interrogare direttamente mio padre, eppure con gli anni crebbe sempre più in me la voglia di sondare da solo – sì, da solo – quel mistero, di vedere quell’uomo della sabbia tanto favoloso. Quell’immagine mi aveva aperto la strada del meraviglioso e dell’avventuroso che si annidano con tanta facilità nell’animo di un bambino16. Nulla mi piaceva di più che ascoltare o leggere paurose storie di coboldi, streghe, gnomi e così via; ma al primo posto restava sempre l’uomo della sabbia, che nelle forme più strane e disgustose io scarabocchiavo con gesso e carboncino sui tavoli, sui mobili e alle pareti, dappertutto. All’età di dieci anni la mamma mi fece passare dalla camera dei bambini a una stanzetta che dava sul corridoio, non distante dalla camera del babbo17. E sempre, quando battevano le nove e in casa si udivano i passi di quello sconosciuto, dovevamo allontanarci in tutta fretta. Dalla mia stanzetta lo sentivo entrare da mio padre e subito dopo era come se per la casa si diffondesse un vapore leggero dall’odore strano. Insieme alla curiosità crebbe in me la speranza, sostanziata dal coraggio, di riuscire in qualche modo a conoscere l’uomo della sabbia. Spesso, dopo che la mamma se n’era andata, scivolavo ratto fuori dalla stanza nel corridoio, ma non riuscivo a sentire nulla, perché, quando avevo raggiunto un luogo dal quale avrei potuto scorgerlo, l’uomo della sabbia si era già chiuso la porta dietro le spalle. Spinto infine da un incoercibile impulso, decisi di nascondermi direttamente in camera del babbo e di attendere lì l’arrivo della misteriosa creatura.
Una sera capii, dai silenzi di papà, dalla tristezza della mamma, che sarebbe venuto l’uomo della sabbia; finsi pertanto una grande stanchezza, lasciai la stanza già prima delle nove e mi nascosi in un cantuccio immediatamente fuori. Dall’ingresso giunse un cigolio e si udirono dei passi lenti, pesanti e rintronanti che attraversavano il corridoio, diretti verso le scale18. La mamma mi passò accanto rapida insieme ai fratellini. Aprii piano piano la porta della camera del babbo. Lui, che come al solito se ne stava seduto silenzioso e immobile con le spalle rivolte alla porta, non si accorse di me. In un attimo mi ritrovai dentro la stanza e mi sistemai dietro la tenda di un armadio a giorno dove stavano appesi gli abiti di mio padre. Vicini, sempre più vicini echeggiavano quei passi. Fuori si sentivano strani colpi di tosse, un tramestio, un brontolio. Il cuore mi batteva all’impazzata per la paura e per l’attesa. Vicinissimo all’uscio un passo pesante, un colpo violento alla maniglia e la porta si spalanca con fracasso! Trattenendo a forza un grido sbircio fuori con la massima cautela. Eccolo, l’uomo della sabbia, in piedi in mezzo alla stanza, il chiarore delle luci gli illumina il volto!19 L’uomo della sabbia, il terribile uomo della sabbia non è altri che il vecchio avvocato Coppelius20, che ogni tanto viene a pranzo da noi!
Ma neanche la creatura più orribile sarebbe riuscita a incutermi un orrore più profondo di questo Coppelius. Immaginati un uomo alto, dalle spalle larghe, con una testa grossa e deforme, la faccia terrea, le sopracciglia grigie e folte, sotto le quali brillano due pungenti occhi verdognoli da gatto, un naso grosso e ben pronunciato sopra il labbro superiore. La bocca si contorce spesso in un riso maligno e allora sulle guance compaiono macchie rossastre e fra i denti serrati passa uno strano sibilo. Coppelius arrivava vestito sempre con una giacca grigio cenere di taglio antiquato, panciotto uguale e calzoni dello stesso genere, le calze invece erano nere e le scarpe con piccole fibbie d’osso. Il parrucchino arrivava appena a coprirgli il cocuzzolo con le ciocche appiccicate ritte sopra le grandi orecchie rosse; teneva l’ampia retina così discosta dalla nuca che si arrivava a scorgere la fibbia d’argento che gli chiudeva la cravatta increspata. Tutta la figura era odiosa e repellente, ma a noi bambini ripugnavano soprattutto quelle sue manacce ossute e pelose: ogni cosa sfiorassero non ci piaceva più21. Lui se n’era accorto e provava un gran gusto a toccare con questo o quel pretesto un pezzetto di torta, un frutto candito che la nostra mammina ci aveva messo di nascosto nel piatto, e a noi allora, i lucciconi negli occhi per lo schifo e il disgusto, ci passava la voglia e non volevamo più mangiare quella cosina prelibata che desideravamo tanto. Faceva lo stesso quando durante le feste il babbo ci versava un bicchierino di vin santo. In quei casi allungava lesto le mani o magari si avvicinava addirittura il bicchiere a quelle sue labbra blu e se solo sfogavamo la nostra rabbia con sommessi singhiozzi, lui se la rideva in modo davvero diabolico. Era solito chiamarci le bestioline; se c’era lui, non dovevamo aprire bocca, e noi allora maledivamo quell’uomo brutto e cattivo che di proposito s’ingegnava a rovinarci anche le gioie più innocue. Anche la mamma pareva odiarlo quanto noi, quel rivoltante Coppelius; al suo apparire, lei, sempre serena, dal carattere così allegro e spensierato, si faceva tutta seria e triste. Il babbo lo trattava come se fosse un essere superiore, di cui vanno sopportati gli sgarbi e che non si deve in nessun caso contrariare. Bastava solo che facesse un lieve cenno e subito si provvedeva a cucinargli i suoi piatti preferiti, a imbandirgli vini di pregio.
Quando vidi dunque questo Coppelius, la mia anima fu colta da orrore e spavento al pensiero che l’uomo della sabbia non fosse altri che lui; ora l’uomo della sabbia aveva smesso di essere per me lo spauracchio della fiaba della bambinaia, quello che porta gli occhi dei bambini in pasto alla sua nidiata di civette sulla mezza luna – questo no! – ma ugualmente un mostro odioso e spettrale che dovunque arriva reca con sé pena – angoscia – eterna rovina nel tempo22.
Ero pietrificato23. Rischiando di essere scoperto e, come ben sapevo, di essere duramente castigato, me ne rimasi fermo a origliare con il capo fuori della tenda24. Il babbo accolse Coppelius con solennità. «Forza! – al lavoro» esclamò quello con voce rauca e gutturale, togliendosi la giacca. Silenzioso e cupo il babbo si levò la vestaglia ed entrambi indossarono lunghi grembiuli neri. Non ero riuscito a vedere da dove li avessero presi. Il babbo aprì l’anta di un armadio a muro, o meglio di quello che avevo sempre ritenuto un armadio a muro e che invece era piuttosto una nicchia nera25, in cui era collocato un fornelletto. Coppelius si avvicinò e dal fornello scaturì scoppiettante una fiamma azzurrognola. Tutt’intorno c’erano strani arnesi di ogni genere. Oddio! – che aspetto diverso aveva il mio vecchio babbo quando si chinava sul fornello. Un orrendo spasimo di dolore sembrava aver sfigurato quei suoi tratti delicati e sinceri in una smorfia diabolica orribile e disgustosa. Finiva per assomigliare a Coppelius. Questi agitava le pinze rosse di bragia e dallo spesso vapore traeva masse scintillanti sulle quali poi vibrava vigorosi colpi di martello. Avevo la sensazione che dappertutto comparissero volti umani26, ma senza occhi – al loro posto orribili, profonde cavità nere. «Fuori gli occhi, fuori gli occhi!»27 gridava Coppelius con voce sorda e tonante. In preda a una paura selvaggia cacciai un urlo e crollai a terra uscendo fuori dal mio nascondiglio. Coppelius mi afferrò subito. «Bestiolina! Bestiolina!» belò digrignando i denti. Mi tirò su a forza e mi gettò sul fornello, tanto che le fiamme già cominciavano a strinarmi i capelli: «Ora sì che li abbiamo gli occhi – occhi – un bel paio di occhi di bambino». Così bisbigliava Coppelius e dalle fiamme afferrò con le mani dei grani di bragia che avrebbe voluto gettarmi nelle pupille. Il babbo allora levò implorante le braccia e gridò: «Maestro! Maestro! Lasciagli gli occhi al mio Nathanael, lasciaglieli!». Coppelius scoppiò in una sonora risata ed esclamò: «E se li tenga i suoi occhi il giovanotto e se le pianga tutte le sue belle lacrime, ma osserviamo ben bene il meccanismo delle mani e dei piedi»28. E così dicendo mi afferrò con tale violenza che tutte le giunture presero a scricchiolarmi e mi svitò le mani e i piedi, rimettendomeli ora in un modo ora nell’altro29: «No, così non funziona! Era meglio all’inizio. Il Vecchio sì che sapeva il fatto suo!»30. Così diceva Coppelius fra i sibili e i sussurri; poi tutto intorno a me si fece nero e buio, uno spasimo lancinante mi percorse i nervi e le ossa – e non sentii più nulla31. Un lieve alito caldo mi sfiorò il viso, mi destai come da un sonno di morte, c’era la mamma china su di me: «È ancora qui l’uomo della sabbia?» balbettai. «No, bambino mio, è andato via, via e non ti farà più nulla!» così disse la mamma baciando e abbracciando il suo ritrovato tesoro.
Ma cosa sto qui a stancarti, mio carissimo Lothar! Cosa sto qui a raccontarti tutti questi dettagli, quando restano da dire ancora tante cose? Insomma, Coppelius mi aveva scoperto a spiare e mi aveva maltrattato. La paura e il terrore mi procurarono una febbre violenta che mi tenne a letto per diverse settimane. «È ancora qui l’uomo della sabbia?» – Furono queste le mie prime parole sensate, segno della mia guarigione, della mia salvezza. Mi resta da narrarti solo il momento più tremendo della mia infanzia; ti convincerai allora che non dipende da un difetto dei miei occhi se tutto mi appare scialbo, ma che un oscuro destino ha steso sulla mia vita un fosco velo di nubi che forse solo con la morte riuscirò a strappare.
Coppelius non si fece più vedere; si diceva che avesse lasciato la città32.
Sarà passato un anno e noi, secondo l’antico immutato costume, sedevamo una sera intorno al tavolo. Il babbo era molto allegro e raccontava aneddoti divertenti di viaggi compiuti in gioventù. D’improvviso, quando batterono le nove, sentimmo la porta stridere nei cardini e passi lenti e pesanti come il ferro rintronarono nel corridoio e poi su per le scale. «Questo è Coppelius» disse mia madre impallidendo. «Sì! – è Coppelius» ripeté il babbo con voce fioca e rotta. Gli occhi della mamma si riempirono di lacrime. «Ma babbo, babbo,»33 gridò «è proprio necessario?» «È l’ultima volta,» replicò lui «è l’ultima volta che viene, te lo prometto. Ora va’, va’, prendi i bambini! – Andate, andate a letto! Buonanotte!»
Mi sentivo come schiacciato dentro una pietra gelida e pesante. Mi mancò il respiro! Siccome ero rimasto impalato mia madre mi prese per un braccio e disse: «Vieni Nathanael, su, vieni!». Mi lasciai trascinare via ed entrai nella mia stanza. «Calmati, calmati, mettiti a letto! – dormi – dormi» mi disse la mamma uscendo, ma, tormentato da un’indescrivibile angoscia interiore e dall’agitazione, non riuscii a chiudere occhio. Quel Coppelius, quell’uomo così odioso, così schifoso, mi si parava dinanzi con gli occhi scintillanti e rideva di me colmo di perfidia, e io invano cercavo di liberarmi della sua immagine. Sarà stata già mezzanotte, quando risuonò un botto terrificante, come se qualcuno avesse sparato un colpo di cannone. Tutta la casa rintronò, davanti alla porta della mia camera si sentì uno strepito e un fracasso e poi il portone di casa sbattuto con forza. «È Coppelius» gridai sconvolto e saltai dal letto. Ma proprio allora si udì un grido lancinante, disperato, mi precipitai nella stanza del babbo, la porta era aperta, mi avvolse un vapore asfissiante, la serva gridava: «Oddio, il padrone! Il padrone!». Per terra, davanti al fornello fumigante, mio padre giaceva morto con il volto nero, ustionato e orribilmente sfigurato, intorno a lui le mie sorelle gemevano e piangevano e la mamma giaceva lì accanto, priva di sensi! «Coppelius, diavolo infame, hai ammazzato il babbo!» così gridai; e persi conoscenza. Quando due giorni dopo mio padre venne adagiato nella bara, i tratti del suo volto erano tornati miti e delicati, quelli di sempre. La mia anima si consolò al pensiero che il patto con il diabolico Coppelius non era bastato a precipitarlo nella dannazione eterna34.
L’esplosione aveva destato i vicini, l’episodio divenne di dominio pubblico e giunse alle orecchie delle autorità che volevano convocare l’avvocato per chiedergli conto delle sue azioni. Ma questi era sparito dalla città senza lasciare traccia. Se ora ti dico, carissimo mio, che quel commerciante di barometri altri non era che l’infame Coppelius, sono convinto di non suscitare la tua riprovazione interpretando quell’ostile apparizione come apportatrice di grande sventura. Era vestito diversamente, ma la figura e i tratti di quell’uomo sono impressi così a fondo nel mio intimo che non posso sbagliarmi. Eppoi Coppelius non ha neanche cambiato nome. A quanto sento, si spaccia qui per un meccanico piemontese35 e si fa chiamare Giuseppe Coppola. Sono deciso a rivalermi su di lui e a vendicare la morte del babbo, accada quel che accada. Alla mamma non raccontare nulla della comparsa dell’orribile mostro. Saluta la mia cara, dolce Clara, le scriverò in uno stato d’animo più tranquillo. Addio ecc.
CLARA A NATHANAEL
È ben vero che tu non mi scrivi da tanto tempo, ma credo proprio di essere in cima ai tuoi pensieri. Era a me che pensavi, se, pur volendo spedire la tua ultima lettera a mio fratello Lothar, hai poi finito invece per indirizzarla a me invece che a lui36. Con gioia ho aperto la busta e, alle parole: «Oh carissimo Lothar!», mi sono accorta dell’errore. A quel punto non avrei dovuto continuare a leggere, bensì dare la lettera a mio fratello. Ma non sei stato forse proprio tu a rimproverarmi spesso, scherzando come un bambino, di essere una donna così tranquilla e così posata al punto che, lo ricordo ancora, una volta dicesti che se mi stesse crollando la casa addosso, prima di darmi alla fuga in tutta fretta, mi sarei fermata ancora un attimo ad aggiustare le pieghe di una tendina? Ebbene, devo confessarti che l’inizio della tua lettera mi ha profondamente sconvolta. Non riuscivo quasi più a respirare e la vista mi si era annebbiata. Oh, mio amato Nathanael, cosa mai poteva essere entrato nella tua vita di così tremendo! Separarmi da te, non rivederti più, il pensiero mi ha trafitto il petto come un pugnale infuocato. Non riuscivo a smettere di leggere! La descrizione che fai del disgustoso Coppelius è terribile. Soltanto ora so com’è stata tremenda, violenta la morte del tuo buon vecchio padre. Quando gli ho riconsegnato la sua legittima proprietà, mio fratello Lothar ha cercato di calmarmi, ma senza successo. Quel maledetto venditore di barometri, quel Giuseppe Coppola mi perseguitava a ogni piè sospinto e quasi mi vergogno a confessare che addirittura è riuscito con i sogni più bizzarri a turbare il mio sonno salutare, di solito così tranquillo. Ma ben presto, già il giorno dopo, il tutto ha preso una piega diversa. Non volermene, adorato mio bene, se magari Lothar verrà a dirti che sono del mio solito umore allegro e spensierato, nonostante tutti i tuoi strani presagi sulle cattive intenzioni di Coppelius.
Voglio anzi subito confessarti che secondo me tutti gli avvenimenti terribili e spaventosi di cui parli sono accaduti soltanto nel tuo animo, mentre invece il mondo esterno, quello vero e reale vi ha ben poca parte37. Il vecchio Coppelius sarà pur stato rivoltante, ma da piccoli il vostro disgusto era provocato semplicemente dal fatto che lui detestasse i bambini.
Com’è naturale, nel tuo animo di bimbo il tremendo uomo della sabbia, di cui aveva raccontato la bambinaia, finì per fondersi con il vecchio Coppelius che per te, se anche tu non avessi creduto a quella specifica figura fantastica, sarebbe comunque rimasto un fantasma, un mostro pericoloso soprattutto per i bambini. I sinistri maneggi notturni insieme al babbo altro non erano che esperimenti di alchimia fatti di nascosto38, che la mamma non guardava di buon occhio, perché vedeva sprecare senza senso una gran quantità di danaro; e poi, come sempre accade a quelli che si dedicano a queste ricerche, l’animo del babbo, tutto colmo di fallaci aspirazioni verso una superiore saggezza, veniva a essere distolto dalla famiglia. Con ogni probabilità tuo padre morì a causa della propria imprudenza e Coppelius non ne ha colpa. Ci credi che ieri ho domandato al nostro vicino, un esperto farmacista, se è possibile che durante esperimenti chimici si possa verificare un’esplosione che provoca una morte istantanea? Lui mi ha detto: «Eccome», e mi ha descritto a modo suo, prendendola larga e con gran dovizia di particolari, come ciò possa accadere e ha pronunciato tutta una serie di nomi dal suono strano che non mi è riuscito di tenere a mente. Sento già che le mie parole ti avranno messo di malumore nei confronti della tua Clara e mi sembra di sentirti dire: in quell’animo freddo non entra nemmeno un barlume dell’arcano che spesso stringe l’uomo con braccia invisibili39; lei riesce a scorgere soltanto la variopinta superficie del mondo e, come il bimbo più ingenuo, eccola lì a gioire del luccichio dorato del frutto in cui s’annida il veleno mortale.
Ah, mio amatissimo Nathanael!, non credi che anche negli animi sereni, tranquilli e spensierati possa albergare il presagio di una forza oscura e ostile che intende produrre rovina nel nostro intimo? Perdonami se io, da quell’ingenua fanciulla che sono, mi arrischio però a darti una qualche idea delle mie opinioni intorno a questa lotta interiore. Alla fine non trovo neanche le parole giuste e tu riderai di me, non tanto perché io pensi qualcosa di sciocco, ma perché sono così poco versata nel dirlo.
Se esiste una forza oscura e nemica, che a tradimento pone un filo nel nostro intimo, con cui ci tiene stretti, traendoci su un cammino pericoloso e rovinoso che noi altrimenti mai avremmo percorso, se una tale forza esiste deve prendere le nostre stesse sembianze, diventare come noi; poiché solo in tal modo noi riusciremmo a crederle e le concederemmo lo spazio di cui ha bisogno per compiere la sua opera segreta. Ma se noi possediamo una mente abbastanza vigile e resa salda da un’esistenza serena che ci permetta sempre di riconoscere un influsso estraneo e ostile e di seguire con passo calmo la strada su cui ci hanno spinto inclinazioni e vocazione, quel potere sinistro non potrà che soccombere nel vano tentativo di assumere quelle sembianze che dovrebbero essere la nostra immagine riflessa40. E poi si può star certi, aggiunge Lothar, che se ci siamo abbandonati a una forza oscura di natura fisica, essa riesce spesso a sospingere nel nostro intimo le forme estranee in cui il mondo esterno ci fa imbattere, così che finiamo per essere noi stessi ad alimentare il nostro spirito che ci parla attraverso quelle forme, mentre lo crediamo come noi in preda a un bizzarro inganno. È soltanto il fantasma del nostro io, che per l’intima affinità con il nostro animo e il profondo influsso su di esso, ci fa sprofondare nell’inferno o ci rapisce in cielo41. Come vedi, mio amato Nathanael, io e mio fratello Lothar abbiamo discusso molto a lungo di forze e poteri oscuri, e ora che, non senza fatica, ho trascritto i punti salienti il tutto mi sembra decisamente profondo. Le ultime parole di Lothar non le capisco appieno, posso soltanto intuire ciò che vuol dire, eppure ho la sensazione che sia tutto molto vero. Ti prego, cancella dalla tua mente sia l’orribile avvocato Coppelius che Giuseppe Coppola, l’uomo dei barometri. Convinciti che queste figure estranee nulla possono su di te, soltanto credere nel loro potere negativo può rendertele davvero ostili. Se da ogni parola della lettera non parlasse l’agitazione che stai provando, se il tuo stato non prostrasse tutta me stessa, potrei anche ridere di quell’avvocato-uomo della sabbia e del venditore di barometri Coppola. Sta’ sereno, sereno!42 Mi sono ripromessa di comparirti dinanzi come il tuo angelo custode e di bandire con una bella risata l’orribile Coppola, se ancora dovesse saltargli in testa di venire a turbare i tuoi sogni. Non ho paura alcuna né di lui, né delle sue manacce pelose, non lascerò né che l’avvocato mi rovini le mie leccornie, né l’uomo della sabbia gli occhi.
Eternamente mio amatissimo Nathanael ecc. ecc.
NATHANAEL A LOTHAR
Mi è molto dispiaciuto che per via dello sbaglio, invero causato dalla mia distrazione, Clara abbia aperto e letto la mia ultima lettera che avevo invece indirizzato a te. Lei mi ha poi risposto con parole assai profonde e filosofiche, con cui dimostra che Coppelius e Coppola esistono solo dentro di me, fantasmi del mio io che svaniranno all’istante non appena li riconoscerò come tali. Si stenta a credere che lo spirito rilucente, come in un sogno delizioso, da quei chiari occhi che sorridono con tanta dolcezza sappia discettare43 in modo così accorto, così professorale. Nella lettera riporta anche le tue osservazioni. Avete dunque parlato di me. E tu le dai anche lezioni di logica, affinché impari a esaminare e distinguere tutto con la massima sottigliezza. Ma lascia perdere! Del resto, lo so per certo, Giuseppe Coppola, il venditore di barometri, non è affatto il vecchio avvocato Coppelius. Ho preso a frequentare i corsi di un professore di fisica arrivato di recente che come il famoso naturalista si chiama Spalanzani44 ed è di origine italiana. Già da diversi anni costui conosce Coppola, e per giunta dalla sua pronuncia si capisce che è davvero piemontese45. Coppelius era tedesco, anche se, a quanto pare, non un vero tedesco. Non è che mi sia calmato del tutto. Continuate pure tu e Clara a considerarmi un cupo sognatore, ma io non riesco a liberarmi dall’impressione che mi fa il maledetto viso di Coppelius. Sono contento che abbia lasciato la città, come mi ha detto Spalanzani. Questo professore è un tipo strano. Un omino basso e paffuto, il volto dagli zigomi pronunciati, un naso sottile, le labbra carnose e gli occhietti pungenti. Ma meglio di qualsiasi descrizione, basta che tu abbia presente il Cagliostro ritratto da Chodowiecki in non so più quale almanacco berlinese46. Ecco, quello è Spalanzani. Giorni fa salgo le scale e noto che la tendina, di solito tirata davanti alla porta a vetri, lascia intravedere un piccolo spiraglio. Neanch’io so com’è che mi sia venuto in mente di dare una sbirciata. In quella stanza era seduta una ragazza alta, assai snella, perfettamente proporzionata ed elegantemente vestita, le braccia e le mani conserte su un tavolino dinanzi a sé. Siccome sedeva con il viso alla porta, potei contemplarne i tratti, belli come quelli di un angelo. Lei non parve accorgersi di me e più in generale i suoi occhi avevano un che di fisso, vorrei quasi dire che parevano ciechi, mi dava come l’impressione che stesse dormendo a occhi aperti47. La cosa mi inquietò parecchio48 e perciò scivolai ratto nell’aula, che è lì accanto. In seguito appresi che la persona che avevo visto era Olimpia49, la figlia di Spalanzani, che lui, con strana malvagità, tiene segregata, in modo che nessuno le si possa avvicinare. In fondo ci deve sere qualcosa sotto, chissà, forse è demente o qualcosa di simile. Perché ti scrivo tutto questo? Potevo raccontarti tutto meglio e in modo più preciso a voce. Sappi infatti che fra due settimane sarò da voi. Devo rivedere il mio dolce e caro angelo, la mia Clara. Così si dileguerà il malumore che (devo pur confessarlo) ha preso possesso di me dopo l’increscioso incidente di quella lettera così giudiziosa. È per questo che neanche oggi le scriverò.
Mille saluti ecc. ecc.
Nulla di più strano e di più bizzarro si può immaginare di ciò che è accaduto al mio povero amico, il giovane studente Nathanael, e di quello che, benigno lettore, ho preso a raccontarti.50 Non ti è mai accaduto, gentilissimo, che qualcosa ti abbia riempito il petto, la mente e i pensieri, scacciandone tutto il resto? Dentro di te avvertivi un fermento, un bollore, il sangue infiammato in una vampa cocente ti schizzava dalle vene e ti colorava le guance. Il tuo sguardo era così strano, quasi a voler afferrare nello spazio vuoto immagini, invisibili ad altro occhio, e le parole ti si sfaldavano in cupi sospiri. E gli amici allora lì a domandarti: Ma che cosa vi è successo, stimatissimo? Che cosa avete, mio caro? E tu che avresti voluto descrivere le figure del tuo intimo51 con i toni più accesi, le ombre e le luci, ti sforzavi di trovare le parole, anche solo per cominciare. Ma era come se qualcuno ti obbligasse a esprimere già con la prima parola tutto quanto di meraviglioso, stupendo, terribile, divertente, orrendo ti era accaduto: e appena l’avevi pronunciata tutti dovevano avvertire come una scossa elettrica52. Ma ciascun vocabolo e tutto ciò che può dire ti pareva scialbo e gelido e morto. Cerchi e cerchi, e balbetti e t’incagli, e le lucide domande degli amici s’insinuano, come soffi di vento gelido, nel tuo intimo ardore fino a estinguerlo. Ma se tu, alla stregua di un ardito pittore53, avessi schizzato, anche solo con pochi audaci tratti, i contorni dell’immagine che ti si agitava dentro, con un piccolo sforzo vi avresti potuto aggiungere tinte sempre più accese e il vivo intreccio di quelle multiformi figure avrebbe travolto gli amici, i quali, al pari di te, si sarebbero rivisti al centro dell’immagine sprigionatasi dall’animo tuo! Devo pur confessare, gentile lettore, che nessuno è venuto a chiedermi la storia del giovane Nathanael; ma tu sai bene che io appartengo a quella bizzarra genia di autori, i quali, se solo hanno qualcosa dentro di sé simile a quanto ho appena descritto, pensano che chiunque si avvicini a loro – anzi in genere un po’ tutto il mondo – non faccia altro che domandargli: «Che cos’è mai? Carissimo, raccontate!» E così ho provato un incoercibile impulso a parlarti della sciagurata vita di Nathanael. I suoi tratti meravigliosi e strani colmarono tutto il mio animo, ma proprio per questo motivo e per il fatto che io, mio caro lettore, dovevo renderti subito incline a sopportare cose strambe – impresa non da poco – mi sono scervellato per iniziare la storia di Nathanael in modo significativo, originale, avvincente: «C’era una volta», il miglior attacco per un racconto: ma no! troppo freddo! «Nella cittadina di provincia di S. viveva», un po’ meglio, quanto meno serve ad avviare il climax. Oppure direttamente medias in res: «“Ma andate al diavolo” gridò, collera e orrore nello sguardo selvaggio, lo studente Nathanael, quando il venditore di barometri Giuseppe Coppola»54. E infatti avevo scritto così, ma poi mi parve di scorgere nello sguardo selvaggio dello studente un che di farsesco: questa storia però non ha proprio nulla di divertente. Non mi venne in mente nessun discorso capace di rendere, sia pur lontanamente, le fulgide tinte di un’immagine interiore. Decisi pertanto di non cominciare affatto. Prendi dunque, gentile lettore, le tre lettere che l’amico Lothar mi ha cortesemente fatto pervenire come il contorno di quelle immagini cui nel corso del mio racconto tenterò di aggiungere qualche pennellata di colore55. Forse mi riuscirà, come a un buon ritrattista, di cogliere qualche figura in modo che tu la trovi rassomigliante all’originale che pure tu non conosci o che – meglio ancora – tu abbia l’impressione di aver già visto altre volte quella persona con i tuoi stessi occhi. E allora, o mio lettore, ti convincerai che non vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e che il poeta in fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno specchio opaco56.
Perché sia chiaro ciò che fin dall’inizio è necessario sapere, a quelle lettere va aggiunto che, poco dopo la morte del padre di Nathanael, Clara e Lothar, figli di un lontano parente, morto a sua volta lasciandoli orfani, erano stati accolti in casa dalla madre di Nathanael. Clara e Nathanael maturarono un forte affetto reciproco, contro il quale nessuno al mondo aveva alcunché da eccepire; si erano dunque fidanzati quando il giovane lasciò la città per proseguire gli studi a G.57 Ed è proprio lì che si trova nella sua ultima lettera e frequenta le lezioni di Spalanzani, celebre professore di fisica.
Ecco, ora potrei proseguire tranquillo il racconto; ma subito mi si para dinanzi, così viva, l’immagine di Clara e io non riesco a distoglier lo sguardo, come del resto mai ho saputo fare, quando lei mi guardava così sorridente, così soave58. Non si poteva certo dire che Clara fosse bella, stando almeno all’opinione di tutti quelli che per mestiere si intendono di bellezza59. Eppure gli architetti elogiavano le pure proporzioni della sua figura, i pittori trovavano la nuca, le spalle e il petto fin troppo casti e poi tutti finivano per innamorarsi dei suoi meravigliosi capelli da Maddalena, ed era un continuo discettare di un colorito alla Battoni60. Uno di loro, personaggio davvero fantasioso, ebbe a paragonare in modo quanto mai originale gli occhi di Clara a un lago di Ruisdael in cui si rispecchia il puro azzurro di un cielo senza nubi, i boschi e i fiori e tutta la vita gaia e variopinta di un ricco paesaggio61. I poeti e i maestri non si fermavano qui e dicevano: Macché lago, macché specchio! Possiamo forse guardare la ragazza, senza che ci irradino dal suo sguardo canti mirabili, suoni celesti, i quali penetrando nei nostri animi tutto destano e tutto muovono? E se allora anche a noi non vien fatto di prendere a cantare qualcosa di bello, vuol dire che siamo ben poca cosa; ed è proprio questo ciò che leggiamo chiaramente nel sottile sorriso che vibra sulle labbra di Clara se proviamo a canticchiarle qualcosa che pretenderebbe essere una canzone, mentre invece non ci rendiamo conto di saper produrre soltanto suoni isolati e confusi. Proprio così: Clara possedeva la vivace fantasia di un bambino felice, spensierato e ingenuo, un animo profondo e ricco di grazia tutta femminile, un’intelligenza limpida e acuta. Le persone complicate, le persone confuse, con lei non facevano molta strada; senza tante parole, cosa del resto tipica della sua indole taciturna, il lucido sguardo e quel lieve sorrisetto ironico dicevano loro: Cari amici! Come potete solo pensare che io abbia a prender per vere, con tanto di vita e sentimento, queste vostre ombre inconsistenti? Clara veniva perciò considerata da molti persona fredda, insensibile, prosaica; altri invece, capaci di concepire la vita con profondità e chiarezza, amavano quella ragazza così piena di sentimento, comprensiva e ingenua, ma certo nessuno al pari di Nathanael che incedeva con sereno vigore nei sentieri della scienza e dell’arte62. Clara era attaccata all’amato con tutta se stessa; le prime nubi le attraversarono la vita solo quando egli si separò da lei. Con quale diletto gli volò fra le braccia, allorché, come promesso nell’ultima lettera a Lothar, egli fece ritorno nella sua città natale ed entrò in camera della madre. Tutto avvenne come Nathanael aveva immaginato; nell’istante stesso in cui rivide Clara non pensò più né all’avvocato Coppelius, né a quella lettera così giudiziosa: ogni dissapore era svanito.
Eppure Nathanael aveva avuto ragione a scrivere all’amico Lothar che la persona di Coppola, il disgustoso venditore di barometri, aveva prodotto un effetto davvero malefico sulla sua vita. Tutti se ne accorsero, fin dai primi giorni si notò che la sua indole era parecchio cambiata. Si lasciava andare a cupe fantasticherie, assumendo talora atteggiamenti così strani che nessuno lo riconosceva più. Ogni cosa, la vita intera, tutto era diventato per lui sogno, presagio; diceva di continuo che ciascuno, credendosi libero, in realtà non faceva altro che fungere da crudele trastullo a oscure potenze; inutile, sosteneva, ribellarsi, bisognava soltanto rassegnarsi in tutta umiltà a ciò che il destino aveva deliberato. Giunse addirittura ad affermare che era follia pensare che l’uomo possa esser libero di creare nei campi dell’arte o della scienza: l’entusiasmo che ci rende capaci di creare non proviene dal nostro intimo ma è dovuto soltanto all’influsso di un qualche principio superiore al di fuori di noi63.
Agli occhi della giudiziosa Clara tali stati di mistica esaltazione erano alquanto sgradevoli, ma cercare di contraddirlo pareva impresa vana. Soltanto quando Nathanael pretendeva di dimostrare che Coppelius fosse il principio del male, impossessatosi di lui quella volta che aveva spiato da dietro la tenda, e che quel disgustoso demone avrebbe distrutto la felicità del loro amore, Clara si faceva tutta seria e diceva: «Sì, Nathanael, hai ragione, Coppelius è un principio del male, il tuo nemico, può avere effetti terribili, come una potenza diabolica che ha preso tangibile possesso della vita, ma soltanto se non lo bandisci dalla tua mente e dai tuoi pensieri. Fintantoché tu credi a lui, lui esisterà e agirà: la tua fede nella sua esistenza è la sua sola forza». E allora Nathanael, profondamente adirato che Clara intendesse collocare l’esistenza di quel demone dentro il suo animo, avrebbe voluto esporre tutte le sue mistiche teorie di diavoli e potenze oscure, ma Clara lo interrompeva annoiata, con una qualche osservazione indifferente, aumentando così ulteriormente la sua ira. E il ragazzo arrivava a pensare che misteri tanto profondi non si manifestano agli animi freddi e insensibili, senza essere del tutto cosciente di stare annoverando Clara proprio fra queste nature inferiori, motivo per cui non voleva desistere dai tentativi di iniziarla a quei misteri. La mattina presto, quando l’aiutava a preparare la colazione, le stava accanto e le leggeva passi dai più svariati testi di mistica, finché lei non lo implorava: «Ma caro Nathanael, e se ti dicessi che sei tu il principio del male che vuol rovinare il mio caffè?64 Se, come tu pretenderesti, io lasciassi perdere tutto e ti guardassi negli occhi mentre leggi, finirei per rovesciare sul fuoco il caffè e voi dovreste scordarvela la colazione!». Nathanael chiudeva allora il libro con gran fracasso e pieno di malumore si precipitava nella sua stanza. In passato aveva dimostrato una particolare abilità nello scrivere gradevoli racconti pieni di brio che Clara ascoltava con il massimo piacere, ora invece le sue opere erano così cupe, incomprensibili e senza forma che, malgrado Clara per riguardo non gli dicesse nulla, egli ben sentiva quanto poco la intrigassero65. Per lei nulla era più letale della noia; lo sguardo e le parole rivelavano allora un’invincibile sonnolenza dello spirito. E le opere di Nathanael erano in effetti parecchio noiose. Il dispetto per l’animo di Clara, così freddo, così prosaico, crebbe sempre più, né Clara dal canto suo riusciva a dominare il proprio disagio per quell’oscuro misticismo del fidanzato, così tetro e noioso; e fu così che, senza che se ne rendessero conto, i loro animi finirono per allontanarsi sempre più. Come Nathanael stesso dové confessarsi, l’orrenda figura di Coppelius era sbiadita nella sua fantasia e spesso faceva fatica a dargli vivo colore nelle sue opere, dove compariva come un tremendo spauracchio del destino. Alla fine gli venne l’idea di prendere quel cupo presagio secondo il quale Coppelius avrebbe finito per distruggere il suo amore felice e di farne il tema di una sua composizione in versi. Descrisse se stesso e Clara, uniti da amore fedele, ma era come se talora una mano nera si abbattesse sulla loro vita, distruggendo ogni gioia. Quando già sono all’altare, ecco infine comparire il terribile Coppelius e toccare i leggiadri occhi di Clara; quelli schizzano allora nel petto di Nathanael come scintille di sangue, e ardono, e bruciano, poi Coppelius afferra lo sposo e lo getta in un fiammante cerchio di fuoco66 che ruota con velocità di tempesta e lo trascina via con fragoroso frastuono67. È tutto un mugghiare come quando l’uragano frusta impetuoso le onde schiumanti del mare che s’alzano come neri giganti dal capo bianco in aspra battaglia. Ma in mezzo a questo selvaggio mugghiare sente la voce di Clara: «Come fai a non vedermi?68 Coppelius ti ha ingannato, quelli che ti bruciavano il petto non erano i miei occhi, erano solo le ardenti stille del tuo sangue. Li ho ancora i miei occhi, basta solo che tu mi guardi!». Nathanael allora pensa: «Ma questa è Clara e io sono suo in eterno». Ed è come se questo pensiero s’insinuasse potente nel cerchio di fuoco fino ad arrestarlo e nel nero abisso si estingue quel sordo frastuono. Nathanael guarda Clara negli occhi; ma a fissarlo benevola con gli occhi della sua sposa è la Morte.
Mentre il ragazzo componeva tutto questo, si sentiva molto calmo e compassato, correggeva e limava ogni verso, e poiché si era sottoposto alla costrizione del metro, non si arrestò fintantoché tutto non giunse a costituire un’unità pura e armonica69. Una volta che l’ebbe finito, volle leggere quel componimento ad alta voce, ma, colto da orrore, da selvaggio spavento, gridò: «Di chi è questa voce orrenda?»70. Subito dopo tuttavia l’opera tornò a sembrargli ben riuscita; aveva la sensazione che l’animo freddo di Clara si sarebbe come infiammato, anche se non aveva ben chiaro per che cosa Clara dovesse infiammarsi e che senso poi avesse terrorizzarla con le immagini raccapriccianti che le predicevano un destino terribile, capace di distruggere il loro amore71. Un giorno erano seduti nel piccolo giardino della madre, Clara era molto tranquilla, perché il fidanzato negli ultimi tre giorni, durante i quali aveva lavorato alla sua opera, aveva smesso di tormentarla con i suoi sogni e i suoi presagi. E anche Nathanael parlava di cose divertenti con la vivacità e l’allegria di un tempo, tanto che Clara disse: «Soltanto ora ti sento di nuovo mio. Vedi che siamo riusciti a scacciarlo, il malvagio Coppelius?». Solo allora Nathanael ricordò di avere in tasca l’opera che intendeva leggere ad alta voce. Tirò fuori subito i fogli e iniziò a declamare; Clara, immaginando come al solito qualcosa di noioso, prese rassegnata a lavorare a maglia. Ma quando tutta quella cupa nuvolaglia divenne sempre più nera, fece cadere la calza guardando Nathanael fisso negli occhi. E quello invece continuava inarrestabile a farsi trascinare dalla sua opera, l’intimo ardore gli colorava le guance di un rosso acceso e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Quando finalmente ebbe terminato, prese ad ansimare in preda a una profonda spossatezza, poi afferrò la mano della ragazza e come sciolto in una pena inconsolabile sospirò: «Ah… Clara… Clara». E lei se lo strinse dolcemente contro il seno e sottovoce, lenta e grave disse: «Nathanael, mio carissimo Nathanael! Gettala nel fuoco questa favola così bizzarra… dissennata… folle»72. A quelle parole Nathanael saltò su indignato e, respingendola via da sé, gridò: «Maledetto automa senza vita!»73. Poi scappò via lasciando la fidanzata offesa nell’intimo a piangere lacrime amare: «Oh povera me! Non mi ha mai amata, è per questo che non mi capisce» singhiozzava forte. Sotto il pergolato sopraggiunse Lothar; e Clara dové raccontargli l’accaduto; per lui che amava la sorella con tutta l’anima, le accuse pronunciate contro di lei ebbero l’effetto di una folgore nel cuore, e così tutto il malumore verso Nathanael, che a lungo si era portato dentro, si infiammò trasformandosi in collera selvaggia. Corse dall’amico e a muso duro gli rimproverò l’insensata condotta nei confronti dell’amata sorella; questo, adirato, replicò con altrettanta durezza. «Pazzo, squilibrato bellimbusto» diceva l’uno. «Miserabile, volgare filisteo» replicava l’altro. Un duello divenne inevitabile. Decisero di battersi l’indomani mattina dietro il giardino, secondo il locale costume accademico, con fioretti appuntiti. Passarono il tempo ad aggirarsi in preda a un cupo mutismo; Clara, che aveva sentito la lite furibonda e all’ora del crepuscolo aveva visto il maestro di scherma portare le armi, presagì che cosa dovesse accadere. Giunti sul luogo dello scontro, Lothar e Nathanael, tetri e silenti, si erano tolti le giacche e, l’occhio acceso dalla sete di sangue, già volevano scagliarsi l’uno contro l’altro, quand’ecco che dalla porta del giardino giunse a precipizio Clara gridando fra i singhiozzi: «Sciagurati, siete solo dei barbari! Forza, colpite me prima di aggredirvi; come potrei continuare a vivere su questa Terra se l’amato avrà ucciso il fratello o il fratello l’amato!». Lothar lasciò cadere il fioretto, volgendo in silenzio lo sguardo verso il basso, l’animo di Nathanael, in preda alla più straziante tristezza, tornò invece ad accogliere tutto l’amore che aveva provato per la dolce Clara nei giorni più radiosi della giovinezza. L’arma micidiale gli sfuggì di mano ed egli cadde ai piedi della fidanzata. «Potrai mai perdonarmi, o Clara, mia unica, mia amatissima! E tu potrai perdonarmi, mio amato fratello Lothar!» Il profondo dolore dell’amico commosse Lothar; fra mille lacrime i tre, riconciliati, si abbracciarono giurando di restare per sempre uniti in amore e fedeltà74.
A Nathanael parve di essersi liberato di un grave peso che l’aveva prostrato, sentì anzi di aver salvato tutto il suo essere minacciato dall’annientamento opponendo resistenza alle oscure potenze che lo avevano tenuto prigioniero. Passati altri tre giorni presso i suoi cari fece quindi ritorno a G. dove contava di restare ancora un anno e poi tornare per sempre nella sua città natale.
Alla madre tutto quanto aveva a che fare con Coppelius era stato taciuto; si sapeva bene che non avrebbe potuto fare a meno di pensare a lui con orrore, perché, al pari di Nathanael, gli attribuiva la colpa della morte del marito.
Quale fu la meraviglia di Nathanael allorché, volendo rientrare nel suo appartamento, si accorse che l’intero edificio aveva preso fuoco: solo i muri maestri emergevano da quel cumulo di macerie. Sebbene l’incendio fosse scoppiato nel laboratorio del farmacista che abitava al pianterreno e la casa fosse dunque bruciata dal basso verso l’alto, gli amici di Nathanael erano stati così bravi e così arditi da fare in tempo a irrompere nella stanza dell’amico, situata al piano superiore, e porre in salvo libri, manoscritti e strumenti75. Tutti quegli oggetti, rimasti intatti, li avevano poi portati in un’altra abitazione, dove avevano preso una stanza che Nathanael provvide subito a occupare. Non diede peso al fatto di abitare proprio dirimpetto alla casa del professor Spalanzani, né fu stupito quando vide che la sua finestra si affacciava direttamente sulla camera dove Olimpia era solita starsene tutta sola, tanto che poteva riconoscerne distintamente la figura, pur restando i tratti del suo volto evanescenti e confusi. Notò infine che Olimpia rimaneva per ore e ore proprio nella stessa posizione in cui egli l’aveva scorta quella volta attraverso la porta a vetri; se ne stava seduta a un tavolino senza fare alcunché e pareva guardare verso di lui, con lo sguardo immobile. E Nathanael fu anche costretto a confessarsi di non aver mai visto in vita sua una creatura così bella; tuttavia, con Clara nel cuore, Olimpia, così rigida e impalata, gli rimase piuttosto indifferente. Solo ogni tanto alzava gli occhi dal suo compendio e lanciava uno sguardo verso quella statua, nulla più76. Stava scrivendo a Clara, quando sentì bussare piano piano; che entrassero pure, disse. La porta si aprì e sulla soglia si affacciò il viso ributtante di Coppola. Nathanael si sentì tremare in tutto il suo essere; memore di ciò che Spalanzani aveva detto sul conto del suo connazionale Coppola e anche di ciò che con tanta solennità aveva promesso all’amata riguardo a Coppelius, l’uomo della sabbia, Nathanael fu il primo a vergognarsi di quella sua infantile paura dei fantasmi, si fece coraggio raccogliendo tutte le proprie forze e, con la massima calma e gentilezza possibili, affermò: «Non compro barometri, caro amico, andate pure!». Al che Coppola, entrando nella stanza, la bocca enorme sfigurata da un riso maligno e gli occhietti che brillavano pungenti sotto le lunghe ciglia grigie77, rispose con voce roca: «Ah, no barometri, no barometri! Ho anche bei oci… bei oci!»78. Nathanael gridò allora spaventato: «Folle d’un individuo, e come fai ad avere occhi? Occhi… occhi?». Ma in quell’istante Coppola aveva messo da parte i suoi barometri e, rovistando nelle ampie tasche della giacca, aveva tirato fuori occhialini e occhiali che poi aveva sparso sul tavolo. «Ecco, ecco, occhiali… occhiali a mettere su naso, questi essere miei oci, bei oci!» E così dicendo continuava a tirare fuori occhiali su occhiali, e tutto il tavolo prese a lampeggiare, a scintillare in modo strano. Migliaia di occhi guardavano Nathanael e sbattevano convulsi e lo fissavano; lui non riusciva ad allontanare lo sguardo da quel tavolo, e Coppola continuava a metterci occhiali e sempre più selvaggi saltavano e si confondevano quegli sguardi fiammanti e scagliavano raggi rossi come il sangue nel petto di Nathanael. Sopraffatto da un folle spavento egli gridò: «Smetti, smetti, uomo tremendo!». E così dicendo aveva acchiappato Coppola per il braccio, il quale, malgrado il tavolo fosse già tutto coperto di occhiali, non cessava di tirarne fuori altri. Con una risata rauca e disgustosa il venditore si liberò abilmente dalla stretta e con le parole «Ah! No volere allora ecco bella lente» aveva radunato tutti gli occhiali e li aveva rimessi a posto, poi da una tasca laterale della giacca aveva estratto una gran quantità di cannocchiali piccoli e grandi79. Spariti gli occhiali, Nathanael ritrovò la calma e pensando a Clara si rese conto che tutta quell’orribile apparizione era frutto della sua fantasia e Coppola non era altro che un onestissimo meccanico e un ottico e non poteva certo essere il maledetto sosia o la reincarnazione di Coppelius. E poi i cannocchiali che aveva messo sul tavolo non avevano alcunché di strano, o almeno nulla di così spettrale come invece gli occhiali e così, tanto per rimediare, Nathanael decise di acquistare per davvero qualcosa dal venditore. Prese un piccolo cannocchiale tascabile di ottima fattura e, per saggiarne la qualità, guardò attraverso la finestra. Mai in vita sua gli era capitato per le mani uno strumento che avvicinasse gli oggetti agli occhi in modo così chiaro, nitido e preciso. Senza volerlo80 guardò nella stanza di Spalanzani: Olimpia sedeva, come al solito, con le braccia posate sul tavolino e le mani conserte. Ora soltanto Nathanael ebbe modo di scorgere le forme mirabili del volto della ragazza81. Solo gli occhi gli parvero proprio di una strana fissità, come morti. Ma mettendo sempre più a fuoco il cannocchiale, era come se in quelle pupille sorgessero roridi raggi di luna. Pareva che soltanto adesso le si fosse accesa la vista e quegli sguardi fiammeggiavano sempre più vivi82. Nathanael rimase alla finestra come incantato, fermo a contemplare Olimpia, bella come il cielo83. Un colpo di tosse e un raschio lo destarono come da un sogno profondo. Alle sue spalle c’era Coppola: «Tre zechini84, tre ducati». E Nathanael, che si era proprio scordato dell’ottico, pagò tosto la cifra richiesta. «No detto? Bella lente, bella lente!» domandò Coppola con quella sua voce rauca e rivoltante e con quel suo sorrisetto falso. «Sì, sì, sì!» replicò Nathanael contrariato. «Addio, caro amico!» Coppola lasciò la stanza non senza aver lanciato una serie di strani sguardi torvi all’indirizzo di Nathanael. E lui lo sentì ridere forte sulle scale. «Embè» pensò Nathanael «riderà di me, chissà quanto ci avrà guadagnato con quel cannocchiale, chissà quanto?» Mentre pronunciava sottovoce queste parole fu come se un profondo sospiro di morte echeggiasse sinistro nella stanza, e dall’angoscia il respiro di Nathanael quasi si fermò. Ma era stato lui stesso a sospirar così, se ne rendeva ben conto. Clara ha proprio ragione, si disse, a considerarmi un folle visionario; ma è curioso. Oddio, molto più che curioso: la sola idea insignificante di averglielo pagato troppo caro quel cannocchiale continua a mettermi addosso una strana paura, non riesco proprio a capirne il motivo85. Dopodiché tornò a sedersi per finire la lettera a Clara, ma gli bastò un’occhiata in direzione della finestra per convincersi che Olimpia era ancora là e all’istante, come sospinto da una forza irresistibile, saltò su, afferrò il cannocchiale di Coppola e fin quando non venne a chiamarlo Siegmund, suo amico e compagno di studi, per andare al corso del professor Spalanzani, non riuscì a staccarsi da quello sguardo seducente86. La tenda davanti a quella stanza tanto fatale rimase chiusa, e anche nei due giorni successivi non gli riuscì di scorgere Olimpia né lì né nella sua camera, malgrado non lasciasse quasi mai la finestra e non facesse altro che guardare attraverso il cannocchiale di Coppola. Il terzo giorno vennero chiuse addirittura le finestre87. In preda alla più grande disperazione e spinto dalla nostalgia e da un cocente desiderio, uscì di casa. La figura di Olimpia gli balenava dinanzi nell’aria, usciva dai cespugli e con i suoi grandi occhi raggianti lo guardava da un limpido ruscello. L’immagine di Clara era completamente svanita dal suo animo, egli non pensava ad altro che a Olimpia e, fra pianti e lamenti, diceva: «Oh, alto e splendido astro del mio amore, sei sorto ahimè soltanto per subito svanire e lasciarmi in questa notte buia e disperata?»88.
Stava già ritornando a casa, quando avvertì un gran tramestio in casa di Spalanzani. Le porte erano spalancate, e stavano portando dentro ogni sorta di mobili, le finestre del primo piano erano state tolte, le domestiche tutte indaffarate a spazzare e spolverare con grandi scope di crine, falegnami e tappezzieri erano dietro a bussare e martellare. Pieno di meraviglia, Nathanael rimase impalato in mezzo alla strada; fu allora che tutto sorridente gli si avvicinò Siegmund e disse: «E allora che ne dici del nostro vecchio Spalanzani?». Nathanael assicurò che non aveva proprio nulla da dire, perché non sapeva assolutamente niente, notava solo con grande meraviglia che in quella casa, così tranquilla e anche un po’ tetra, d’un tratto si era scatenato un gran bel fracasso. Apprese così da Siegmund che l’indomani Spalanzani intendeva dare una grande festa con musica e danze, e che aveva invitato mezza università. Un po’ dappertutto girava la voce che Spalanzani avrebbe presentato per la prima volta la figlia Olimpia, così a lungo e con tanta ostinazione sottratta agli occhi della gente.
Nathanael recuperò un invito e con il cuore palpitante andò dal professore all’ora indicata, quando già era tutto uno sferragliar di carrozze e le luci scintillavano nelle sale addobbate per la festa. Gli invitati erano numerosi e magnifici. Olimpia comparve abbigliata in modo assai sfarzoso e pieno di gusto. Non si poteva non ammirare quel volto dalle splendide fattezze, quel personale. La schiena con quella strana curvatura e il vitino di vespa sembravano causati solo da un busto un po’ troppo stretto. Nel passo e nel portamento aveva un che di troppo compassato e rigido che a qualcuno fece un effetto un po’ sgradevole, ma si finì per attribuirlo alla soggezione che le incutevano tutti quegli invitati89. Il concerto ebbe inizio. Olimpia suonò il piano con grande abilità ed eseguì un pezzo di bravura con una voce limpida, acuta, che pareva di cristallo90. Nathanael ne fu alquanto deliziato; seduto in ultima fila, alla luce abbagliante delle candele91, non riusciva a scorgere appieno i tratti di Olimpia. Così, senza volerlo, estrasse il cannocchiale di Coppola e guardò in direzione della bella pianista92. Ah! D’improvviso si avvide che lei piena di nostalgia lo stava guardando e che ogni nota si compiva solo in quello sguardo d’amore che rovente gli trafiggeva l’anima. Quei sapienti gorgheggi parvero a Nathanael il celestiale giubilo di un animo trasfigurato nell’amore e quando, dopo la cadenza, il lungo trillo squillò infine festoso per la sala egli non poté più trattenersi. Come se ardenti braccia l’avessero avvinto d’un tratto, il dolore e la delizia lo fecero gridare forte: Olimpia! Tutti si voltarono a guardarlo e alcuni risero. L’organista del duomo però fece un’espressione ancor più tetra di prima, limitandosi a dire: «Suvvia suvvia!». Il concerto era terminato e fu la volta del ballo. Ballar con lei, con lei93! Questa era divenuta per Nathanael la meta di ogni desiderio, di ogni aspirazione; ma dove trovare il coraggio di invitare proprio la regina della festa? Eppure! Neanche lui riuscì a capire bene come fu che, appena iniziate le danze, si era ritrovato vicino a Olimpia, la quale ancora non aveva ricevuto inviti, e, appena in grado di balbettare qualche parola, le aveva afferrato la mano. Gelida era la mano di Olimpia ed egli, sentendosi pervadere da un orrendo brivido di morte, la fissava negli occhi e quelli rispondevano al suo sguardo con un luccichio pieno di amore e di desiderio, e in quell’istante fu come se quella fredda mano prendesse a pulsare, flussi di linfa vitale ad ardere94. E Nathanael, anch’egli sempre più arroventato dal desiderio d’amore, avvinse in un abbraccio la bella Olimpia e i due presero a volteggiare in mezzo alle file di ballerini. Aveva creduto fino ad allora di saper ballare a tempo, ma l’assoluta esattezza della danza di Olimpia, che lo portava spesso a perdere il passo, gli fece capire di non avere alcun senso del ritmo95. Tuttavia non volle danzare con nessun’altra e sarebbe stato capace di uccidere chi avesse solo osato avvicinarsi per chiedere alla ragazza di danzare96. La cosa accadde due volte soltanto, con stupore notò che Olimpia però rimaneva seduta, e così lui tornò a più riprese a invitarla97. Se Nathanael fosse stato in grado di vedere qualcos’altro a parte la bella Olimpia, non si sarebbero potuti evitare diverbi e risse incresciose; era evidente infatti che le risatine sommesse, represse solo a fatica, che serpeggiavano un po’ dappertutto e gli sguardi alquanto incuriositi fossero tutti rivolti alla bella Olimpia: non si riusciva proprio a capirne il motivo98. Eccitato dalla danza e dall’abbondante consumo di vino, Nathanael aveva vinto la sua innata timidezza. Sedeva accanto a Olimpia, la mano di lei nella sua, tutto infiammato ed entusiasta le esprimeva il proprio amore con parole che nessuno comprendeva, né lui né Olimpia. Ma lei chissà, forse sì; perché lo guardava incessantemente negli occhi e non faceva altro che sospirare: «Ah… Ah… Ah!»99 e Nathanael allora replicava: «Oh donna splendida, celeste! Oh, tu raggio del mondo lontano che l’amore promette! Animo profondo in cui tutto l’esser mio si rispecchia»100, e frasi del genere, ma Olimpia continuava a sospirare: «Ah, ah!». Il professor Spalanzani passò per diverse volte dalle parti di quella coppia felice, indirizzandole degli strani sorrisetti soddisfatti. Pur essendo rapito in altro mondo, d’un tratto Nathanael ebbe la sensazione che, qui sulla Terra, nelle vicinanze del professor Spalanzani, ogni cosa prendesse a oscurarsi a vista d’occhio; si guardò d’intorno e con non poco orrore si rese conto che nella sala ormai deserta le ultime due candele si erano consumate ed erano sul punto di spegnersi101. Le musiche e le danze erano da tempo cessate. «Separarci, separarci» gridò allora in preda alla più selvaggia disperazione, baciò la mano di Olimpia, si piegò verso la bocca di lei, e gelide labbra toccarono quelle ardenti di lui! Come quando aveva preso la fredda mano di Olimpia, si sentì colto da un intimo orrore, gli tornò in mente la leggenda della fidanzata morta; ma poi la ragazza lo strinse forte a sé e nel bacio le labbra parvero scaldarsi di vita102. Il professor Spalanzani prese a incedere lentamente per la sala, i passi mandavano un’eco sinistra e la sua figura, avvolta di ombre baluginanti, aveva un che di lugubre e spettrale103. «Mi ami Olimpia? Mi ami? Dimmi solo questo! Mi ami?» Così sussurrava Nathanael, ma alzandosi Olimpia si limitava a sospirare: «Ah… Ah!». «Sì, o mio dolce, o mio splendido astro d’amore,» diceva lo spasimante «tu sei sorta per me e brillerai e per sempre trasfigurerai l’animo mio.»104 «Ah, ah!» replicava in continuazione Olimpia. Nathanael la seguì e si ritrovarono di fronte al professore. «Vi siete intrattenuto105 con la mia figliola in modo straordinariamente vivace» lo apostrofò costui sorridendo. «Bene, bene, caro signor Nathanael, se trovate gusto a conversare con questa sciocchina, le vostre visite saranno le benvenute.» Il ragazzo tornò a casa con il petto tutto colmo dei limpidi raggi del cielo. In società nei giorni successivi la festa di Spalanzani costituì il principale argomento di conversazione. Malgrado il professore non avesse lesinato gli sforzi per fare una splendida figura, le teste matte avevano da raccontare tutta una serie di episodi strani e disdicevoli accaduti alla festa; in particolare fu tutto un parlare di Olimpia, rigida come la morte e muta; tutti, nonostante il bell’aspetto, continuavano a considerarla totalmente idiota ed era proprio questo il motivo – pensavano – per cui Spalanzani l’aveva tenuta nascosta così a lungo. Nathanael ascoltò questi discorsi non senza un intimo raccapriccio, tuttavia tacque; non val certo la pena, pensava, dimostrare a questi giovinastri che è proprio la loro idiozia a renderli incapaci di riconoscere l’animo profondo e sublime di Olimpia. «Ma fammi il piacere, fratello,» gli disse un giorno Siegmund «fammi il piacere e dimmi un po’ com’è possibile che tu, che sei uno con la testa a posto, ti sia incapricciato di quella faccia di cera, di quella bambola di legno?» Nathanael avrebbe voluto lasciarsi andare alla collera, ma dandosi un contegno replicò: «E dimmelo tu Siegmund come sia potuto sfuggire al tuo sguardo sempre così pronto a scorgere il bello, al tuo intelletto così vivo, il fascino celestiale di Olimpia. Ma sia ringraziato il destino che è così, sennò saremmo diventati rivali e uno di noi due avrebbe finito per rimetterci la pelle»106. Comprendendo bene in che stato versava l’amico, Siegmund cambiò abilmente argomento e dopo aver detto che in amore è sempre meglio non giudicare, aggiunse: «È curioso però che su Olimpia la pensino un po’ tutti allo stesso modo. A noi tutti è sembrata – non prendertela, fratello! – stranamente rigida e senz’anima. La sua figura è regolare, e così il suo volto, questo è vero! E quasi la si potrebbe dir bella se al suo sguardo non mancasse un raggio di vita, vorrei quasi dire, se non sembrasse privo di forza visiva. Ha un passo così strano, così misurato, e ogni movimento pare regolato dalla carica di un congegno meccanico. Le sue esecuzioni, il suo canto hanno quel ritmo sgradevolmente perfetto e inanimato di una macchina che canta e anche quando balla fa lo stesso effetto. A noi questa Olimpia ha fatto un’impressione piuttosto sinistra107, non vorremmo averci proprio nulla a che spartire, ci è sembrato che facesse solo finta di comportarsi come un essere vivente, ma che in realtà ci fosse qualcosa sotto». Nathanael non si lasciò prendere dalle amare sensazioni che quelle parole di Siegmund volevano comunicargli, rimase invece padrone di sé e in tono molto serio si limitò a commentare: «Ah come siete freddi e prosaici; Olimpia potrà anche parervi sinistra. La verità è che solo un animo poetico108 riconosce uno spirito a lui affine! Soltanto a me si è rivelato il suo sguardo d’amore, irradiando di sé la mente e i pensieri, soltanto nell’amore di Olimpia io ritrovo me stesso. A voi potrà anche non piacere che lei non si lasci andare a piatte conversazioni, come tanti altri esseri vacui. Parla poco, questo è vero, ma queste poche parole appaiono come gli autentici geroglifici109 di quel mondo interiore, così pieno d’amore e di una superiore conoscenza della vita spirituale, che nasce dalla contemplazione di un’eterna trascendenza. Ma voi tanto non avete sensibilità per tutto questo e le mie sono tutte parole sprecate». «Dio ti protegga, fratello,» disse Siegmund con grande dolcezza e con un tono quasi rattristato «ma a me pare che tu abbia preso una brutta china. Su di me puoi contare, se le cose dovessero… No, non voglio dire altro!» D’un tratto parve a Nathanael che il freddo, prosaico Siegmund gli fosse molto vicino, e perciò strinse con grande cordialità la mano che quello gli aveva offerto.
Nathanael aveva letteralmente scordato che al mondo esisteva una persona di nome Clara, che fino ad allora aveva tanto amato; la madre, Lothar, tutti erano svaniti dalla sua memoria, ormai viveva solo per Olimpia, e presso di lei trascorreva ogni giorno ore intere a fantasticare del proprio amore, di simpatia che l’ardore trasforma in vita, di affinità elettive della psiche, tutte cose che Olimpia ascoltava con gran devozione110. Dal fondo più nascosto del suo scrittoio il ragazzo tirò fuori tutto quanto avesse mai scritto, poesie, fantasie, visioni, romanzi, racconti, e a queste letture ogni volta aggiungeva ogni sorta d’improvvisazioni: sonetti, stanze, canzoni, e senza mai stancarsi le leggeva tutti questi componimenti, uno dopo l’altro, per tutta la giornata111. Mai gli era capitato di avere un’ascoltatrice tanto straordinaria. Non ricamava e non faceva mai la calza, non guardava fuori dalla finestra, non dava da mangiare all’uccellino, non giocava né con il cagnolino né col suo gattino preferito, non faceva palline di carta o altre cose del genere e neanche era costretta a vincere gli sbadigli con leggeri e sforzati colpi di tosse. Insomma, per ore e ore ella guardava incessantemente l’amato negli occhi, senza muoversi, né agitarsi, con sguardo fisso, uno sguardo che diveniva sempre più ardente e vivo112. Soltanto quando alla fine Nathanael si alzava e le baciava la mano o anche la bocca, ella diceva «Ah, ah!», e poi anche «Buonanotte, mio caro!»113. «Oh, animo sublime, profondo,» esclamava Nathanael tornato nella sua stanza «tu sola, tu sola mi comprendi.» E palpitava di intima delizia solo pensando a quale accordo straordinario rivelavano ogni giorno di più l’animo suo e quello di Olimpia; gli sembrava infatti che la ragazza gli avesse parlato delle sue opere e in genere delle sue doti di poeta calandosi nelle profondità dell’animo di lui, anzi, che quella voce venisse proprio dal suo più intimo sé114. Doveva proprio esser così, perché, oltre alle parole sopra riferite, la ragazza mai ebbe a pronunciarne altre. E quando nei limpidi momenti di lucidità, per esempio la mattina subito dopo il risveglio, Nathanael ricordava la totale passività e la scarsa loquacità di Olimpia, diceva tuttavia: «Che cosa sono le parole – parole! – Lo sguardo del suo occhio celestiale dice più di ogni linguaggio di questa Terra. Può forse una creatura del cielo lasciarsi costringere nel cerchio angusto tracciato da miseri bisogni terreni?»115. Il professor Spalanzani, che pareva rallegrarsi assai del rapporto di sua figlia con Nathanael, diede a costui ogni sorta di segnali inequivocabili della propria benevolenza e allorché il ragazzo ebbe infine l’ardire di accennargli, sia pure molto vagamente, a una unione con Olimpia, il professore si fece tutto raggiante in volto e disse che avrebbe lasciato alla figlia completa libertà di scegliere. Incoraggiato da queste parole, un desiderio cocente nel cuore, Nathanael si risolse a implorare Olimpia già l’indomani di esprimergli con sincerità a chiare lettere quel che da tempo il suo leggiadro sguardo d’amore gli aveva significato, ossia che voleva esser sua per sempre. Cercò l’anello, che la madre gli aveva donato quando era partito, per offrirglielo come segno della sua devozione e di quella nuova vita che germogliava e fioriva insieme a lei. Nel far questo gli vennero per le mani le lettere di Clara e di Lothar; indifferente le gettò in un canto, poi trovò l’anello, se lo mise in tasca e si precipitò di là, da Olimpia. Mentre era per le scale e poi già sul pianerottolo, avvertì uno strano fracasso che sembrava provenire dallo studio di Spalanzani. Un pesticciare, uno scricchiolare, uno sbattere… Colpi alla porta e nel mezzo bestemmie e imprecazioni116. «Molla, molla! Infame, maledetto! – con tutto il tempo che ci ho perso? – ah ah ah ah! – non erano questi i patti – io, io ho fatto gli occhi – e io il congegno117 – poveraccio tu e il tuo congegno – cane maledetto di uno stupido orologiaio – vattene – Satana – fermo – torcibambole – bestia, demonio! – fermo – vattene – molla!» Erano le voci di Spalanzani e dell’orrendo Coppelius118 che si confondevano fra urla e strepiti. Preso da un’indicibile angoscia Nathanael si precipitò nella stanza. Il professore aveva afferrato una figura femminile per le spalle, Coppola, l’italiano, l’aveva presa per i piedi, e non facevano che tirarla ora da una parte ora dall’altra, litigando furibondi per impadronirsene. Al colmo del più profondo orrore, Nathanael balzò all’indietro quando riconobbe i tratti di Olimpia; infiammato, nell’impeto di un’ira selvaggia, voleva liberare l’amata da quei due forsennati, ma proprio in quell’istante Coppola, compiendo una mezza giravolta, con forza immane riuscì a strappare la figura dalle mani del professore, assestandogli proprio con questa un colpo tremendo che lo fece barcollare e cadere all’indietro, sopra un tavolo sul quale si trovavano fiale, alambicchi, provette119, cilindri di vetro; tutto finì in mille pezzi. Dopodiché Coppola se la gettò sulle spalle e con una risata agghiacciante si fiondò giù per le scale; i piedi della figura ciondolavano da far paura e li si sentiva sbatacchiare sugli scalini con rumore di legno. Nathanael pareva di pietra. Aveva visto tutto fin troppo bene, il volto cereo e pallido come la morte di Olimpia non aveva occhi, al loro posto c’erano solo due cavità nere120: era una bambola senza vita. Spalanzani si torceva per terra, le schegge di vetro lo avevano ferito al capo, al petto e alle braccia e il sangue sgorgava a fiumi. Riuscì tuttavia a raccogliere le forze. «Vagli dietro, vagli dietro, che cosa te ne stai lì così? Coppelius, Coppelius m’ha rubato il mio automa migliore121. Vent’anni ci ho lavorato. Con tutta la fatica che mi è costata. Ah, il congegno… parlava… camminava… mio… mio… gli occhi… gli occhi ti ha rubato122. Disgraziato, maledetto, vagli dietro! Riportami Olimpia, eccoteli gli occhi!» Nathanael vide allora un paio di occhi insanguinati123, posati sul pavimento, che lo fissavano, Spalanzani li afferrò con la mano sana e scagliandoglieli addosso lo colpì al petto. Fu allora che, con le sue grinfie di fuoco124, la follia lo colse e gli entrò nell’anima dilaniandogli la mente e i pensieri. «Ohi! Ohi! Ohi! Cerchio di fuoco… cerchio di fuoco! E gira cerchio di fuoco… e dai – e dai! Pupattola di legno, dai bella, pupattola di legno, gira»125, e così dicendo si scagliò sul professore serrandogli la gola. Avrebbe finito per strozzarlo, se tutto quel fracasso non avesse richiamato una gran quantità di persone, le quali fecero irruzione nella stanza e, afferrando l’inferocito Nathanael, riuscirono a trarre in salvo il professore che subito venne medicato. Pur impiegando tutte le sue forze Siegmund non riuscì a contenere da solo il forsennato, il quale con voce tremenda seguitava a urlare: «Pupattola di legno, gira», menando colpi intorno a sé con i pugni chiusi. Infine con l’aiuto di molti riuscì a sopraffarlo, gettarlo a terra e legarlo. Le sue parole sfumarono in un urlo terribile e bestiale. E così in preda a uno spaventoso accesso di pazzia fu condotto al manicomio.
Prima che io, gentile lettore, seguiti a raccontarti quel che accadde allo sventurato Nathanael, posso assicurarti che, qualora tu abbia preso a cuore le sorti di Spalanzani, meccanico e fabbricante di automi, egli è guarito del tutto dalle sue ferite126. Tuttavia fu costretto a lasciare l’università, perché la storia di Nathanael aveva suscitato parecchio scalpore e da più parti fu ritenuto un atto assolutamente illecito quello d’aver spacciato di fronte a illustri circoli del tè127 (che Olimpia aveva regolarmente frequentato e anche con successo) una bambola per una persona in carne e ossa. Molti uomini di legge la considerarono una truffa assai raffinata e dunque da punirsi con tanta maggior durezza, in quanto attuata contro la società e ideata in modo talmente astuto che nessuno (con l’eccezione di qualche studente particolarmente acuto) se n’era accorto, malgrado tutti ora si atteggiassero a sapientoni, alludendo a una serie di circostanze già a suo tempo parse sospette. Costoro tuttavia non riuscirono a dimostrare alcunché di sensato. Si poteva forse considerare sospetto il fatto che, stando alla testimonianza di un assiduo teista128, a dispetto del più elementare bon ton, Olimpia avesse più spesso starnutito che sbadigliato? Ebbene, il rumore dello starnuto, sostenne quell’elegantone, altro non era che la ricarica del congegno nascosto, si sentiva infatti un gran cigolio… e via di seguito con discorsi del genere. Il docente di poesia e di retorica pizzicò una presa, chiuse la tabacchiera, diede un colpetto di tosse, e solenne asserì: «Stimatissimi signori e signore! Suvvia, ma non si accorgono qual è la questione? Il tutto, diamine, è un’allegoria, una metafora continuata! Loro mi comprendono, no? Sapienti sat!129». Ma parecchi di quegli stimatissimi non si placarono affatto. La storia dell’automa aveva lasciato tracce profonde nei loro animi e di fatto si diffuse una sfiducia davvero incresciosa nei confronti degli esseri umani130. Per persuadersi appieno di non amare una bambola di legno, molti amanti pretesero d’ora innanzi che l’amata cantasse e ballasse senza alcun senso del ritmo, che se uno leggeva qualcosa ad alta voce lei facesse la calza, giocasse con il bassottino e cose del genere; soprattutto era importante però che non si limitasse ad ascoltare, ma che di tanto in tanto parlasse in modo tale che le parole si fondassero davvero su pensieri e sentimenti. Molti legami d’amore si rinsaldarono e al tempo stesso si fecero più teneri, altri invece, piano piano, si sciolsero. «Non ci si può proprio fidare di nessuno» dicevano un po’ tutti. Ai tè si sbadigliava in modo incredibile e non si starnutiva mai per non destare sospetti di alcun genere. Spalanzani, come detto, fu costretto ad andarsene per sottrarsi all’accusa di introduzione fraudolenta di automa al cospetto del civil consesso e alle relative indagini131. E anche Coppola era sparito132.
Nathanael si ridestò come da un sogno greve e tremendo, aprì gli occhi e si sentì pervaso da un indescrivibile senso di delizia accompagnato da un dolce tepore celestiale. Era disteso sul letto nella stanza della sua casa paterna, Clara era china su di lui133 e non lontani c’erano anche la madre e Lothar. «Finalmente, finalmente, o mio caro, amato Nathanael, ora sì che sei guarito da questa grave malattia. Ora sei di nuovo mio!» Così parlava Clara con tutta se stessa prendendo il fidanzato fra le braccia. Ma tanta era la tristezza e tanta la delizia, che il ragazzo sentì lacrime ardenti sgorgargli dagli occhi, e, mandando un sospiro profondo, disse: «Oh, Clara mia… mia!». Siegmund, che aveva vegliato costantemente al capezzale dell’amico nel momento del tremendo bisogno, entrò nella stanza. L’amico gli porse la mano: «Oh fratello fedele, tu non mi hai abbandonato». Ogni traccia di follia era scomparsa; con le amorose cure della madre, dell’amata e degli amici Nathanael riacquistò presto le forze. Nel frattempo la famiglia era stata baciata dalla fortuna134; un vecchio zio avaro, dal quale nessuno aveva mai sperato alcunché, era morto e aveva lasciato alla madre, oltre a un patrimonio non del tutto trascurabile, una piccola tenuta in una amena regione non troppo distante dalla città. Volevano trasferirsi là, la madre, Nathanael con la sua Clara – che egli presto avrebbe sposato – e Lothar. Il ragazzo si era fatto più tenero, più bambino di quanto mai fosse stato e solo adesso riconobbe appieno la bellezza dell’animo di Clara, puro come il cielo. Nessuno gli rammentava, neppure per vaghi accenni, il passato. Soltanto quando Siegmund fece per accomiatarsi da lui, Nathanael esclamò: «Per Dio fratello! Avevo preso davvero una brutta china, ma al momento opportuno un angelo mi ha guidato sul sentiero della luce! Eh sì, è stata proprio Clara!». Siegmund non lasciò che finisse di parlare, nel timore che potesse risorgere vivido e bruciante il ricordo di eventi che tanto l’avevano straziato. Era infine venuta l’epoca in cui quelle quattro persone felici intendevano trasferirsi nella piccola tenuta. Nell’ora del meriggio stavano passeggiando per le strade della città. Avevano acquistato alcune cose, e l’alta torre del municipio gettava la sua enorme ombra sopra la piazza del mercato135. «Senti,» propose Clara «perché non saliamo su di nuovo a guardare le montagne lontane?» Detto, fatto! Entrambi, Nathanael e Clara, salirono, la madre, insieme alla domestica, andò a casa e Lothar, che non aveva voglia di fare tutti quegli scalini, decise di aspettare dabbasso. I due amanti136, abbracciati sulla loggia più alta della torre, scrutavano i boschi aulenti, dietro i quali si levava, come una città di giganti, l’azzurra montagna.
«Ma lo vedi quel buffo cespuglietto grigio che pare proprio si stia muovendo verso di noi?»137 chiese Clara. Con gesto meccanico Nathanael mise la mano in tasca; trovò il cannocchiale di Coppola e guardò di sbieco: dinanzi alla lente c’era Clara!138 D’un tratto sentì un fremito convulso nei polsi e nelle vene; pallido come un morto fissò Clara, ma subito dopo le orbite furono invase da torrenti di fuoco che ardevano e sprizzavano, Nathanael lanciò un grido terribile, come una bestia braccata; poi prese a saltare e fra orrende risa con tono straziante gridava: «Pupattola di legno gira. Pupattola di legno gira», e con forza straordinaria afferrò Clara e voleva scagliarla giù, ma la ragazza, disperata per la paura di morire, si teneva aggrappata alla balaustra. Lothar udì le urla del forsennato, sentì il grido di paura di Clara, un orribile presagio lo attraversò, corse su, la porta della scala secondaria era chiusa. Sempre più alte risuonavano le grida di dolore di Clara. Fuori di sé per la collera e per il terrore si mise a dare spallate contro la porta che alla fine cedette. Sempre più flebili divenivano gli accenti di Clara: «Aiuto… Salvatemi… salvatemi!», e la voce svaniva nel vento. «È perduta, quel pazzo l’ha uccisa» gridava Lothar. Anche la porta della loggia era chiusa. La disperazione gli diede una forza enorme: riuscì a scardinarla. Dio del cielo! Clara, tenuta in pugno da quel pazzo di Nathanael, penzolava in aria oltre la balaustra; con una sola mano si teneva abbarbicata alle sbarre di ferro139. Rapido come il fulmine Lothar afferrò la sorella, la tirò dentro e nello stesso istante tirò un pugno in faccia al pazzo, il quale ricadde all’indietro mollando la preda che aveva destinato alla morte140.
Lothar corse giù portando in braccio la sorella svenuta. Era salva. Nathanael prese ora a girare per la loggia; faceva balzi e gridava: «Cerchio di fuoco gira. Cerchio di fuoco gira». A quelle urla selvagge si radunò molta gente; e fra gli altri si levò, enorme, l’avvocato Coppelius che, appena arrivato in città, si era subito diretto verso la piazza del mercato. Qualcuno voleva salire per portar via il folle; ma Coppelius ridendo disse: «Ah, ah, aspettate e vedrete che viene giù da solo», e poi al pari degli altri guardò su. D’un tratto Nathanael si arrestò come pietrificato, si piegò giù, vide Coppelius e, con il grido straziante «Ah! Bei oci… bei oci», precipitò giù dalla balaustra141.
Nathanael giaceva sul selciato con la testa fracassata; Coppelius era sparito nella calca.
Molti anni dopo, raccontano di aver visto Clara in una lontana regione insieme a un uomo d’aspetto gentile, mano nella mano davanti alla porta di una bella casa di campagna con due vivaci ragazzini che le giocavano davanti. Se ne dovrebbe dedurre che Clara sia infine riuscita a ritrovare quella tranquilla felicità domestica che tanto si addiceva al suo carattere allegro e vitale, e che Nathanael, così dilacerato nell’animo, mai avrebbe potuto donarle142.
Note
1 Cominciamo dai nomi: Nathanael è di origine ebraica ed equivale sul piano semantico al nome tedesco (di origine greca) Theodor, uno dei tre prenomi di Hoffmann. C’è fin dall’inizio da chiedersi se il nome esotico di Nathanael non costituisca una premessa o un correlativo nominale alla sua stranezza. Ma, soprattutto, non si può non notare la funzione antifrastica del nome: Nathanael come Theodor vuol dire «dono di Dio» e si fa fatica a vedere il carattere divino di Nathanael. Molto più semplice il discorso per Clara, titolare all’interno della novella delle istanze della ragione e della clarté, peraltro nient’affatto aride, bensì contemperate da empatia, saggezza e sentimentalismo. Quanto a Lothar: il Lothar più noto della letteratura tedesca della Goethezeit è il barone Lothar (Lotharius) dei Wilhelm Meisters Lehrjahre (Anni di apprendistato di Wilhelm Meister) di Goethe (1796). Lothar si chiamerà anche uno dei sei confratelli di san Serapione, i personaggi di finzione ideati da Hoffmann che danno il titolo alla sua terza raccolta di novelle (1819-1821) e che fra un testo e l’altro discutono e commentano. Lothar, che non fa parte del nucleo storico dei quattro confratelli, interviene a partire dalla seconda parte, “raccontando” quattro fra novelle e fiabe.
2 La contiguità madre-Clara non è casuale, sottolinea anzi già da subito il carattere edipico del rapporto fra il protagonista e la fidanzata. Fin dalla sua prima menzione Clara viene angelicata e medializzata: «Engelsbild» ossia «Engel + Bild», «Immagine + angelo». La stessa cosa accadrà quando entrerà in scena Olimpia, ciò che la dice lunga sul carattere meramente proiettivo (e in fin dei conti interscambiabile) rivestito dal femminile nella psiche di Nathanael.
3 L’espressione tedesca è, a differenza di quella italiana, impersonale, o meglio il soggetto è un «es», un dato grammaticale che in un testo incentrato sui contorcimenti psicopatologici di un personaggio non può non fare pensare a una anticipazione della topografia psichica freudiana.
4 Il termine – in tedesco «Geisterseher» – evoca un testo importante della Goethezeit, il romanzo omonimo incompiuto di Friedrich Schiller, che Hoffmann provvederà a citare in modo esplicito nel Maggiorasco.
5 L’accumulazione smisurata nell’arco di poche righe di aggettivi negativi («straziato», «tremendo», «oscuro», «orribile», «nero», «terribile», «esiziale») situa fin dall’inizio il testo nella sfera dell’inquietante. Essa dice altresì che Nathanael non governa particolarmente bene i mezzi espressivi, ciò che per un aspirante scrittore non è esattamente il massimo.
6 La datazione precisa, addirittura con l’indicazione dell’ora esatta, conferisce alla vicenda un ancoraggio realistico. La scelta delle ore dodici non è casuale: nel folklore il mezzogiorno, al pari della mezzanotte, è l’ora dei fantasmi. La tragica fine di Nathanael si compirà anch’essa nell’ora del meriggio.
7 Sia dalla prospettiva di Nathanael che – più avanti – da quella del narratore il testo oscilla fra psicologia e fatalismo: l’incontro col venditore è una minaccia perché riattualizza il rimosso di Nathanael, i presunti traumi subiti, oppure è un evento fatale di per sé, perché il male incombe sul mondo?
8 Volendo datare con precisione questo riferimento si potrebbe immaginare un Nathanael di sette-otto anni, partendo dal presupposto che l’identificazione fra l’uomo della sabbia e Coppelius di cui si parlerà più avanti avviene quando lui ha dieci anni. Del resto, stando alla medicina dell’epoca, i traumi infantili vengono situati in una fase ben posteriore rispetto a quella in cui li colloca la vulgata freudiana.
9 Seconda citazione schilleriana nel giro di poche righe, qui Die Räuber (I masnadieri): Franz Moor prega il servo Daniel di deriderlo per scacciare i suoi incubi che grondano senso di colpa. Riso e sorriso svolgeranno nel testo funzione di Leitmotive (ventiquattro menzioni in tutto!): la presenza di Coppelius/Coppola sarà sempre accompagnata – proprio fino alla fine! – da una risata maligna, malvagia, sardonica, stridente, agghiacciante, mentre alla sfera angelicata di Clara verrà attibuito sempre ed esclusivamente il sorriso dolce e leggiadro, tutt’al più leggermente ironico.
10 Il padre è dunque colui che introduce Nathanael al meraviglioso.
11 La scissione dell’imago paterna in padre buono e padre cattivo che Freud vedrà raffigurata nella coppia padre di Nathanael/Coppelius e riattualizzata successivamente nella coppia di artigiani/scienziati Spalanzani/Coppola trova, in realtà, la sua origine in questa scena primaria: è il padre stesso a presentarsi in duplice veste, introdotta ognuna da un «oft» («spesso»).
12 Figura benigna e protettiva del folklore che porta il sonno ai bambini gettando sabbia negli occhi. Ancora oggi è totalmente preminente l’accezione positiva – si veda, ad esempio, il titolo di una delle più famose trasmissioni televisive per bambini, creata nel 1959 dalla televisione della DDR e proseguita anche dopo la riunificazione. Hoffmann segue la linea nettamente minoritaria del mito, la quale presenta punti di tangenza col mito dell’orco e dell’uomo nero che spaventa/mangia i bambini. Le traduzioni italiane del titolo e della figura testimoniano della polisemia: uomo della sabbia, Mago Sabbiolino, Orco Insabbia.
13 La metafora antropomorfa utilizzata dalla madre dà il via a una serie di contrastanti ipotesi interpretative. La prima, di natura prevalentemente acustica, è di Nathanael stesso.
14 La seconda: la madre riconduce l’immaginazione (o anche i problemi di acquisizione linguistica: confusione fra livello letterale e livello traslato, vedi anche nota 78) di Nathanael entro le coordinate del reale, ossia – sembra un paradosso – nella sfera metaforica.
15 La terza attribuzione è la più inquietante, perché arriva dalla tata che semmai dovrebbe tranquillizzare il ragazzino ed è introdotta da una – solo in apparenza rassicurante – allocuzione infantile («Thanelchen»). La confusione che ingenerano le parole della bambinaia è originata dal fatto che esse da una parte confermano la versione metaforica della madre ma dall’altra invece statuiscono l’esistenza “reale” della figura conferendole tratti agghiaccianti che introducono nel testo il Leitmotiv (della perdita) degli occhi.
16 Come detto, in realtà è il padre colui che introduce Nathanael al fantastico. L’esitazione ermeneutica sul conto del Sandmann incentiva poi l’ulteriore attrazione verso quella sfera che assume ben presto i tratti di un’ossessione.
17 Il passaggio in un’altra stanza, che corrisponde all’ingresso nell’età puberale, prelude al disvelamento del mistero.
18 Nathanael non ha ancora visto l’uomo della sabbia (del resto, fin dai racconti della bambinaia, l’occhio è sottoposto a un divieto, a un tabu) ma ne ha avuto contezza con almeno altri due sensi: l’olfatto («un vapore leggero dall’odore strano») e soprattutto l’udito (l’arrivo dell’uomo della sabbia è contrassegnato da rumori inquietanti).
19 La rivelazione avviene grazie a una sorta di riflettore puntato in faccia a Coppelius, primo esempio di Nachtstück, di pittura notturna di tutto il testo.
20 Molti sono i campi associativi che il nome evoca: a) coppo=cavità oculare, poche righe e si capirà perché; 2) coppella=forno in cui avviene la coppellazione (=processo per ottenere l’argento dai minerali di piombo argentiferi), allusione a tutta la sfera alchemica; c) copula sia nel significato chimico che in quello sessuale. Il nome latinizzato colloca sì l’avvocato – non sappiamo quanto legittimamente – nella sfera dei dotti, ma al tempo stesso, trattandosi con tutta evidenza non di un nome reale ma di uno pseudonimo, potrebbe costituire una prova a favore dell’ipotesi di una corrispondenza identitaria fra l’avvocato e l’ambulante italiano.
21 Nella prima descrizione, fortemente dettagliata e “schierata”, di Coppelius Nathanael – e con lui Hoffmann – si rivelano in tutto e per tutto figli di un’epoca che aveva fatto della fisiognomica quasi una scienza esatta (a partire dai Physiognomische Fragmente di Johann Caspar Lavater, usciti fra il 1775 e il 1778): in poche righe Nathanael, ricorrendo a sintagmi standard della letteratura di genere (vedi alla voce: limiti di Nathanael scrittore), accumula una serie infinita di aggettivi negativi e di tratti fisici volti ad animalizzare Coppelius. Il giudizio sul personaggio, prima ancora che entri in scena, è già chiarissimo. Fra i numerosi particolari riportati saltano agli occhi l’abbigliamento fuori moda, ancien régime, che sottolinea il carattere inquietante del personaggio e la preminenza del colore grigio che – secondo la vulgata del folklore e della superstizione – condivide col diavolo, cui lo accomunano anche l’andatura, gli occhi, la risata e gli arcaismi linguistici (anche il padre di Nathanael assume connotati diabolici quando opera accanto a Coppelius). La giacca grigio cenere la indossa anche il “diavolo” del Peter Schlemihl (1813) di Adalbert von Chamisso, uno dei testi chiave del Romanticismo berlinese che Hoffmann conosce a memoria e cita nelle Avventure della notte di san Silvestro.
22 Ogni volta che l’emozione di Nathanael si riattualizza la sintassi diventa ellittica.
23 Prima occorrenza del Leitmotiv della catalessi ipnotica che ritroviamo in altri punti del testo, per esempio nella relazione fra Nathanael e Olimpia.
24 Si è conservato un disegno dell’autore che ritrae la scena, il disegno venne riprodotto nel 1823 da Julius Eduard Hitzig nella biografia dello scrittore pubblicata a immediato ridosso della morte di Hoffmann. È questa la scena primaria che ha attirato l’attenzione di Freud: Nathanael si ritrova a spiare un “rapporto intimo” fra il padre umile e devoto e Coppelius, autoritario e – almeno nel disegno – dotato di bastone fallico. Ciò darebbe luogo a una classica costellazione edipica: Nathanael «desidera», ama la parte femminile (il padre) e «si augura» la morte della parte maschile (Coppelius) della coppia. L’infrazione del divieto ancestrale di assistere a un rapporto sessuale “genitoriale” da parte del ragazzino verrebbe punita con la castrazione che nel testo, secondo una – in termini freudiani – classica operazione di sostituzione diventa l’atto di privazione degli occhi.
25 La parola tedesca «Höhlung» ricorda le «Höhlen», le cavità oculari che Nathanael vedrà fra un attimo al posto degli occhi.
26 Pur situandosi nel modo percettivo della soggettività («avevo la sensazione…»), la situazione lascia pensare che i due personaggi stiano compiendo un esperimento alchimistico volto alla creazione di esseri artificiali («volti umani»).
27 Quattro almeno i campi associativi di questa esclamazione: quello metallurgico («metallo incastonato nella pietra che forma piccoli punti», secondo la definizione del vocabolario dei Grimm), quello magico (gli occhi utilizzati per fabbricare elisir, pozioni oppure pallottole truccate), quello metaforico classico (occhi=anima), quello metaforico psicoanalitico (occhi=organi genitali).
28 Coppelius si rivela qui adepto, non privo di tratti caricaturali, del meccanicismo di Julien Offray de La Mettrie che ne L’homme machine (1748) aveva equiparato i corpi a macchine del tutto prive di sostanza pensante, pura meccanica, appunto, seppur, almeno nel caso del corpo umano, di estrema sofisticazione. Inutile dire che Hoffmann, come tutti i romantici, ricusava in modo reciso la negazione di ogni «principio spirituale» e tutte le aberrazioni del razionalismo meccanicista.
29 Viene qua descritto uno dei traumi primari di Nathanael, smontato e rimontato come una bambola meccanica. Ciò conferisce al futuro amore per Olimpia un ulteriore tratto narcisistico poiché il protagonista nella bambola meccanica rivede/rivive se stesso.
30 «Il vecchio» è, ovviamente, Dio. Anche Mefistofele nel Prologo in cielo del Faust di Goethe apostrofa Dio chiamandolo «il vecchio»: «Von Zeit zu Zeit seh ich den Alten gern» («Lo vedo volentieri, di tanto in tanto, il vecchio», v. 350).
31 È il primo di una lunga serie di svenimenti di Nathanael. Al risveglio: la madre china su di lui. Prossimamente, dopo un ulteriore stato comatoso post-traumatico: Clara.
32 Nel manoscritto – uno dei pochi conservati di Hoffmann – vi era a questo punto un lungo brano, poi tagliato dall’autore, che oggettivava il carattere malefico di Coppelius descrivendo i sadici maltrattamenti ai danni della sorella di Nathanael. In questo modo, con questo taglio la vicenda resta invece sospesa nell’incertezza fra l’oggettività fattuale e l’immaginazione debordante del protagonista: l’episodio descritto che ha portato allo “svenimento” è frutto della sua immaginazione o è realmente accaduto?
33 Come se la madre si mettesse dal punto di vista del figlio traumatizzato, dei figli traumatizzati, apostrofa il proprio marito chiamandolo padre.
34 Il rapporto fra il padre di Nathanael e Coppelius viene letto dal protagonista alla stregua di un patto col diavolo: per Nathanael in più di una occasione Coppelius è il diavolo. Il fatto che i tratti del volto del padre morto non restino sfigurati in una smorfia malefica è segno che l’anima è salva e che dunque, contrariamente alle illazioni di Nathanael, non vi era alcun patto fra i due.
35 La parola tedesca «Mechanicus» si riferisce a un artigiano che inventa e costruisce strumenti fisici e matematici, non di rado anche musicali. Il Piemonte nella letteratura tedesca della Goethezeit gioca un ruolo di una qualche importanza; nel William Lovell (1795-1796) di Ludwig Tieck, il protagonista, per esempio, viene aggredito da banditi piemontesi.
36 Freud l’avrebbe definita una «Fehlleistung», ossia un atto mancato, compromesso fra intenzione dichiarata e desiderio rimosso.
37 Clara mostra competenze psicologiche ed empatiche sopra la media che vanno ben oltre il freddo razionalismo saccente, di cui più avanti l’accuserà Nathanael: pur delegittimando lo statuto fattuale di quanto il fidanzato racconta, riconosce il trauma subito e prova anche a spiegarne l’origine (omologia fra i terrifici racconti della bambinaia e la disgustosa figura di Coppelius).
38 Difficile capire se si trattasse di esperimenti alchemici classici (pietra filosofale, trasformazione di metalli in oro ecc.) o se i due lavorassero a un progetto prometeico di creazione di homunculi e cloni, come lascerebbero pensare i «volti umani» visti da Nathanael nella scena primaria.
39 Clara sa con chi ha a che fare, ossia con un sedicente artista romantico e dunque prima ancora che sia lui a farlo oggettiva le obiezioni del fidanzato ricorrendo a un topos, quello dell’«animo freddo» (equivalente del «cuore freddo», con cui l’artista romantico, pronto a farsi folgorare dall’arcano (il sintagma tedesco è «Strahl des Geheimnisvollen», ossia «raggio del misterioso»), critica borghesi e filistei.
40 Il ragionamento di Clara concepisce l’esistenza di un «potere oscuro» che assumerebbe fattezze simili a quelle del soggetto, una specie di sosia negativo, non molto dissimile dalla costellazione psichica esposta negli Elisir del diavolo. Ma se la ratio è vigile – e per Clara, nomen est omen, non può non esserlo – l’avatar non arriva a prendere forma («vano tentativo di assumere quelle sembianze»).
41 Lothar invece esternalizza il potere oscuro, niente avatar ma «figure estranee» che tuttavia sono e restano proiezioni e fantasmi del nostro io.
42 La serenità («Heiterkeit») è il valore guida di Clara. «Heiterkeit» sia nel significato di «frohe Gemütsstimmung» («stato d’animo allegro») sia nel significato di «Klarheit für das Sehen, Erkennen, Auffassen» («chiarezza nel vedere, conoscere, comprendere»).
43 In tedesco Nathanael usa «distinguieren», un termine piuttosto ricercato del lessico filosofico-religioso, che significa appunto discettare, disquisire.
44 A parte il fatto che Hoffmann scrive Spalanzani con una sola «l», non è un caso che il professore porti lo stesso nome dello scienziato realmente esistito, poiché fin dalla scena primaria e per tutto il resto della novella uno dei grandi temi del testo è la possibilità di generare vita in modo artificiale, meccanico, anche se uno dei principali apporti scientifici di Lazzaro Spallanzani (1729-1799) consisté proprio, fin dal 1765, nella confutazione delle teorie allora diffuse circa la plausibilità della generazione spontanea. Successivamente, invece, si dedicò alla fecondazione artificiale giungendo a realizzarla nelle rane e nei rospi. La fonte di Hoffmann non è Spallanzani stesso ma è indiretta, ossia Carl Alexander Friedrich Kluge che nel suo Versuch einer Darstellung des animalischen Magnetismus als Heilmittel (1811) – testo cui, come vedremo, Hoffmann più volte ricorrerà – aveva, fra moltissime altre cose, esposto anche le idee del naturalista italiano.
45 Dettaglio non privo di una certa ironia. Nathanael conosce l’inflessione piemontese?
46 Di origine polacca, Daniel Chodowiecki (1726-1801) fu uno dei principali illustratori della vita borghese del Settecento, autore di centinaia di copertine per libri, almanacchi e tascabili (Hoffmann lo citerà ancora nel suo ultimo testo, La finestra d’angolo del cugino). L’illustrazione a cui si riferisce Nathanael fu pubblicata nel «Berliner genealogischer Kalender auf das Jahr 1789» e ritrae Alessandro conte di Cagliostro (1743-1795), che in realtà si chiamava Giuseppe Balsamo (donde, forse, il nome di Coppola). La figura di Cagliostro interessò quasi tutti gli scrittori della Goethezeit, a cominciare da Goethe stesso (a Cagliostro è ispirata la commedia Der Groß-Cophta del 1792, e ancor prima – durante la tappa siciliana del suo viaggio in Italia – lo scrittore va in cerca delle sue tracce) proseguendo con Schiller (il già citato Geisterseher trae spunto dalle avventure di Cagliostro), con Jean Paul e Wieland.
47 A parte il fatto che fin dalla sua prima descrizione di Olimpia, Nathanael tradisce la sua coazione ad angelicare le donne («engelschönes Gesicht»), la percezione del protagonista appare all’inizio tutto sommato corretta, lucida.
48 Se vale l’ipotesi freudiana secondo cui la sensazione «unheimlich» insorge allorché l’individuo torna a imbattersi nel rimosso, ovvero in qualcosa che un tempo gli era familiare, «heimlich» appunto, ecco che la sensazione provata da Nathanael è dovuta al fatto che, inconsciamente, Nathanael ritrova in Olimpia quel se stesso della scena primaria, l’essere “artificiale”, l’automa, smontato e rimontato da Coppelius.
49 In un testo in cui i nomi non sono scelti a caso, Olimpia (italianizzazione di Olympia) sta per la donna-angelo, che viene dal cielo, dall’Olimpo appunto. Nathanael abbonderà di qui in avanti di una aggettivazione che rimarcherà l’origine celeste, divina della fanciulla. Poche righe dopo, tuttavia, il protagonista tornerà a chiamare Clara «mein süßes, liebes Engelsbild» («il mio dolce e caro angelo», vedi nota 2).
50 Dopo l’esordio epistolare il racconto viene preso in gestione da un narratore che, con un tipico espediente allocutorio, spiega nel corso delle prossime righe che cosa lo ha indotto ha propendere per la scelta iniziale di aprire con tre lettere. L’attacco del narratore è introdotto da due aggettivi chiave dell’intera raccolta: «seltsam» («strano») e «wunderlich» («bizzarro»). Sulla distinzione fra «wunderlich» e «wunderbar».
51 Il narratore dell’Uomo della sabbia è – almeno all’inizio – il tipico artista hoffmanniano. Ha un «inneres Gebilde» («figure del suo intimo») e non riesce a governarlo, a tradurlo in opus perché gli manca la necessaria lucidità, ciò che si ripercuote anche nella sua fisiognomica, nella sua patognomica e nelle reazioni corporee.
52 La similitudine, all’epoca, è molto di moda: gli esperimenti di Luigi Galvani sull’elettricità animale erano molto recenti.
53 I narratori hoffmanniani si situano sempre in un terreno intermediale, muovendosi fra letteratura, musica e pittura, qui e nelle prossime righe reiteratamente soprattutto quest’ultima. Il «kecker Maler» (il «pittore ardito») ricorda da vicino il «kecker Meister» («ardito maestro») con cui viene apostrofato Jacques Callot nella pagina poetologica che funge da introduzione ai Pezzi fantastici alla maniera di Callot.
54 Il narratore prende in esame e istantaneamente ricusa tre possibili inizi, o topoi dell’esordio come si direbbe in retorica. Il primo è un incipit fiabesco («C’era una volta»), il secondo è novellistico («Nella cittadina di provincia di S.»), il terzo è teatral-mimetico («Ma andate…»).
55 Prosegue la metafora pittorica e al contempo il narratore si legittima in senso documentale citando le lettere che Lothar gli ha fatto avere. Ciò evidentemente conferisce al testo una struttura poliprospettica che impedisce l’individuazione univoca di un dato fattuale.
56 In questa che è una delle principali dichiarazioni poetologiche di Hoffmann, che arriva al termine di una lunga riflessione, che sembra anticipare il postmoderno, sull’opera d’arte nel suo farsi, sui limiti della rappresentazione, si rinuncia alla possibilità della poesia di restituire mimeticamente il reale. La negazione della mimesi è quadruplice: specchio, opaco, scuro, riflesso. Vedi Introduzione.
57 Nathanael, Lothar e Clara: Ladislao Mittner lo avrebbe chiamato un classico caso di triangolo filadelfico, due uomini e una donna, rapporto fraterno e sororale, la ragazza si fidanza con uno, è amica o sorella dell’altro, i due maschi si amano come fratelli. Come quello fra Lotte, Werther e Albert anche questo triangolo non funziona.
58 Ennesima excusatio, ennesima retardatio del narratore.
59 Ironia del narratore sui professionisti del ramo. Com’è possibile discettare di «Schönheit» («bellezza») in modo professionale, tenuto conto che la parola utilizzata dal narratore è la prosaicissima «Amt» («ufficio»)?
60 Il 26 agosto del 1798, in visita alla Gemäldegalerie di Dresda, Hoffmann scrive con toni entusiastici di esser stato deliziato dalla Maddalena penitente di Pompeo Girolamo Batoni (1708-1787). La visita alla pinacoteca di Dresda rappresenta per Hoffmann – come per molti altri artisti della Goethezeit che non ebbero i soldi e l’occasione di andare in Italia – un’esperienza decisiva costituendo una sorta di archivio permanente di pittura italiana cui attingere alla bisogna. Al riguardo vedi soprattutto La chiesa dei gesuiti a G.
61 Jakob Isaackzoon van Ruisdael (1628/9-1682) fu uno dei paesaggisti olandesi più amati da romantici tedeschi. Anche di lui – seppur non in modo esplicito – si parla nella Chiesa dei gesuiti a G. Viene qui introdotto uno dei temi chiave del testo, il tema dello specchio, del carattere meramente proiettivo del femminile, che adesso riguarda Clara, ovvero gli occhi di Clara, e presto riguarderà Olimpia. Hoffmann (o meglio il suo narratore, avvezzo, da buon artista romantico, a tutte le più raffinate tecniche di straniamento ironico) dapprima presenta gli occhi di Clara come schermo proiettivo dotato di un legame, seppur in larga parte ideale e iperbolico, con la sfera del reale per poi trasformarli/trasformarla in una musa che attiva e potenzia con il suo semplice sguardo la creatività dell’artista attivando inespresse potenzialità sinestetiche.
62 Nathanael nella sua fase prepatologica – se mai ce n’è stata una – era dunque, al pari di Clara, un individuo «heiter» («sereno») e non si sarebbe mai sognato di definirla «prosaisch», aggettivo che, riferito alla fidanzata, non esiterà invece a usare, non appena questa si dimostrerà insensibile alle sue creazioni poetiche.
63 È questa l’espressione più compiuta in tutta la novella del fatalismo di Nathanael e della distanza abissale dalla concezione di Clara che vede l’influsso del male solo come allucinazione frutto di una interiorità patologica, fantasma del proprio io. Interessante è che agli occhi di Nathanael ciò valga non solo per il male ma anche per i prodotti dell’arte e della scienza, non frutto di energia, talento e ispirazione individuale, ma risultanti solo da costellazioni eteronome.
64 L’ironia come strumento terapeutico con Nathanael non funziona per nulla.
65 Anche le opere di Nathanael hanno dunque subito una trasformazione dopo l’insorgere della patologia: prima erano gradevoli e piene di brio, ora invece sono cupe, incomprensibili e informi, e dunque noiose, come conferma anche il narratore con uno dei commenti più autorevoli dell’intera novella. Siamo dunque lontanissimi dall’omologia arte/malattia che tanto piacerà a Thomas Mann e che pure è di derivazione romantica e in moltissimi esempi anche hoffmanniana. Ciò può significare una cosa soltanto: Nathanael non può essere definito un artista. Quel che segue ne sarà la riprova.
66 Il cerchio di fuoco sta a simboleggiare per tutta la novella la spirale della follia, come già negli Elisir del diavolo.
67 Le opere di Nathanael saranno scadenti ma non si può non riconoscergli valore prolettico perché la scena ideata dal protagonista preannuncia ciò che accadrà nella realtà (della finzione) quando Coppola e Spalanzani smembreranno Olimpia e getteranno i suoi occhi addosso a Nathanael.
68 In tedesco «erschauen». Non è casuale che – nella finzione della sua composizione poetica – Nathanael, l’artista autoreferenziale, attribuisca a Clara, l’illuminista ironica, il verbo per eccellenza dell’estetica hoffmanniana, malgrado essa non faccia altro qui che ribadire l’idea razionalista che tutto il complesso Coppelius sia solo frutto della sua fantasia.
69 La scelta di usare il metro conferisce alla composizione di Nathanael un tratto formalista e anche un po’ meccanico («Zwang», «costrizione»). L’«animo poetico» teorizzato da Hoffmann e anche da Nathanael come condizione imprescindibile per la creazione artistica forse dovrebbe funzionare in modo diverso.
70 Primo evidente sintomo della schizofrenia di Nathanael, una patologia alquanto diffusa nella letteratura della Goethezeit, vedi per esempio William Lovell di Ludwig Tieck (1795/96) o Titan di Jean Paul (1802/04).
71 Fra le molte patologie di cui soffre Nathanael va segnalata anche quella che oggi si chiamerebbe sindrome bipolare: torna a casa e il “dissapore” è svanito, ma poi cerca di dar corpo poetico ai suoi fantasmi tentando in tal modo di elaborarli, ma risultandone alla fine letteralmente schiacciato, ora è cupo e tormentato, ora è sereno, calmo e compassato.
72 Clara non poteva fare proposta più aggressiva, chiamando «Märchen» («fiaba») l’opera di Nathanael – non tanto nel senso di uno dei generi privilegiati della poesia romantica, ma piuttosto in senso spregiativo, come testo del tutto privo di logica e raziocinio – e andando addirittura a scomodare il fuoco che circoscrive tutta la sfera della follia (vedi nota 66). Si noti l’uso in funzione ritmica (oltreché di climax) dei puntini di sospensione a distanziare gli aggettivi, uno stratagemma stilistico fra i più usati da Hoffmann.
73 In questa perversa triangolazione amorosa Nathanael parla, nel pieno del furor poeticus, proprio come tra pochissimo parlerà Olimpia («Ach – Clara – Clara»), poi apostrofa Clara chiamandola automa, quindi, allorché incontrerà la bambola Olimpia, la scambierà per una ragazza in carne e ossa.
74 È questa la prima, illusoria ricomposizione del conflitto, nonché apparente ricostituzione del triangolo filadelfico.
75 È già il secondo incendio nella vita di Nathanael, dopo quello che ha portato alla morte del padre, fuoco di alchimisti nel primo caso, fuoco nel laboratorio del farmacista nel secondo caso. Di nuovo, inoltre, il Leitmotiv del fuoco potenza distruttrice (reale e metaforica), in un testo che presenta una rete fittissima di Leitmotive che non ha eguali nella Goethezeit. Che il fatalismo di Nathanael convinca o meno, fatto sta che il caso/il destino, almeno in questa fase, nella vita dello studente gioca un ruolo non indifferente (incendio, trasloco coatto, posizione della stanza rispetto alla casa di Olimpia Spalanzani).
76 Anche la seconda percezione di Nathanael (vedi nota 47) relativamente ad Olimpia si mantiene corretta: è bella sì, nulla da dire, ma è rigida, fredda, è una statua. Il tutto grazie al fatto che ha «Clara nel cuore», fuor di metafora: che è vigile, ha la ratio dalla sua.
77 La fisiognomica è la medesima di Coppelius, il lessico animalizzante pure, come l’uso per descrivere la bocca della parola «Maul» («muso») anziché «Mund» («bocca»).
78 Forse uno dei primi casi in cui trova espressione nella letteratura tedesca il linguaggio sgrammaticato e la scrittura fonetica dei Gastarbeiter, i lavoratori immigrati. Se Coppola non sa bene il tedesco, Nathanael non capisce la metonimia (occhi anziché occhiali) usata dal venditore, il che per un poeta, o sedicente tale, non è esattamente il massimo. Resta ovviamente da chiedersi se l’uso della metonimia da parte di Coppola sia voluto (se fosse un revenant di Coppelius saprebbe quanto gli occhi rappresentino un nervo scoperto per il protagonista) o se sia stato un errore oppure un gioco. Anche qui, come in tutte le scene della novella che li vedono protagonisti, gli occhi saltano, schizzano e gettano sguardi fiammeggianti.
79 In tedesco l’oggetto si chiama «Perspektiv», un nome che è tutto un programma (estetico), visto che non sapremo mai che cosa è verità e cos’è invenzione/immaginazione in questa novella, e i diversi punti di vista si affiancano senza che l’uno sia più legittimato dell’altro. Inutile sottolineare la valenza fallica dell’oggetto.
80 Nathanael compie qui per la prima volta il gesto meccanico, quasi inconscio, di tirare fuori il cannocchiale e puntarlo verso un volto. Tornerà a farlo in alcuni momenti topici del testo.
81 Ritorna il verbo «erschauen», l’operazione creatrice tipica dell’artista hoffmanniano, che – anche grazie al cannocchiale – più che vedere immagina qualcosa che porta comunque dentro di sé e rispetto a cui la realtà si rivela solo una pretestuosa superficie proiettiva. Anziché potenziare e rendere più affidabile lo sguardo, la tecnologia (il cannocchiale) distorce la percezione, segno di una sfiducia “romantica” nei confronti dello scientismo tecnocratico dell’Illuminismo.
82 Lo sguardo tecnologico, fallico e narcisista di Nathanael vivifica gli occhi – ancora pochi istanti prima definiti – fissi e morti di Olimpia. Si tratta di un motivo fra i più frequenti nella letteratura romantica tedesca.
83 Il narratore con l’aggettivazione rende giustizia al nome di Olimpia.
84 Così nell’originale tedesco.
85 Come Thomas Mann nel dialogo fra Gustav von Aschenbach e il gondoliere («Pagherà, pagherà») ne La morte a Venezia, anche Hoffmann, in questo monologo di Nathanael, sembra intendere il significato letterale (l’acquisto è stato pagato troppo), ma in realtà allude a quel che presto succederà: il cannocchiale gli costerà davvero caro!
86 Il salto dalla vivificazione all’apparente fattualità dello sguardo seducente di Olimpia si è già compiuto nella percezione del protagonista.
87 Un’altra reiterazione di un’esperienza (traumatica) dell’infanzia: la sottrazione allo sguardo dell’oggetto amato: allora il padre adesso Olimpia.
88 Le metafore patetiche di cui si serve Nathanael, pur ampiamente codificate nell’immaginario amoroso (stella, notte ecc.), segnalano la distanza sempre più marcata dal reale, tanto che ormai è preda di visioni, di allucinazioni e Clara è sparita del tutto dal suo mondo interiore.
89 I Leitmotive di cui Hoffmann ha costellato la novella arrivano fino ai più minuscoli dettagli; qui la parola «Zwang», costrizione, coazione, termine già incontrato a proposito del «metrischen Zwang» (la «costrizione del metro») cui Nathanael aveva sottoposto la propria composizione poetica; ciò finisce per aumentare l’omologia Nathanael-Olimpia. Da non sottovalutare neanche la sfumatura ironica del brano: la rigidità dell’automa viene spiegata in termini di convenzioni sociali.
90 Hoffmann – che aveva già scritto sull’argomento, vedi Die Automate (Gli automi), novella del 1814 poi inclusa nei Confratelli di san Serapione – aveva sicuramente in mente La Musicienne, uno degli automi più famosi di Pierre Jaquet-Droz e da suo figlio Henri-Louis, costruito nel 1774 e da allora esposto in molte corti europee. La scena, fintantoché il punto di vista adottato è quello del narratore, produce segnali contrastanti, espressi tutti attraverso l’aggettivazione e i verbi: la voce è «limpida» e pare di cristallo, ma è anche «acuta» e «rintrona» (il verbo usato è «gellen», non esattamente connotato in senso positivo).
91 Un altro Nachtstück, un’altra pittura notturna. Che l’aggettivo usato da Hoffmann sia «blendend» («abbagliante» nel duplice senso) non è casuale: Nathanael è preda di un vero e proprio abbaglio.
92 Come se non bastasse all’abbaglio di fondo si aggiunge – estratto con gesto automatico – il «Perspektiv» (vedi nota 79), ciò che completa il carattere decisamente allucinatorio, autoreferenziale, sinestetico e ossimorico, della percezione, introdotta dallo «Ach» (vedi nota 73) e culminante nella nominazione estatica: «Olimpia!».
93 Chissà se Federico Fellini quando decise di concludere il Casanova (1976) con Donald Sutherland che danza sul Canal Grande con un automa aveva in mente questa scena? O forse più probabilmente la fonte è il balletto Coppelia di Léo Delibes (1870).
94 Il procedimento è il medesimo di quando, cannocchiale alla mano, lo sguardo di Nathanael aveva vivificato gli occhi. Adesso non c’è più bisogno del cannocchiale, anche se il punto di partenza è simile: occhi morti, mano morta. Attraverso la rinnovata vivificazione degli occhi il protagonista arriva stavolta a vivificare anche la mano. In tedesco tutto il brano pullula di allitterazioni: Nathanael balbetta («stammelt[e]»), fissa («starrt[e]») Olimpia negli occhi e lei irradia («strahlt[e]») fino a dar vita a flussi («Ströme») di sangue vitale.
95 In tedesco «der Takt gemangelt», espressione non priva di ambiguità: manca il ritmo, manca il tatto, manca l’equilibrio…
96 Sembra un’iperbole, ma il duello prima e la scena finale poi ci fanno capire che Nathanael è un soggetto a rischio anche sul piano della giustizia penale.
97 Il termine tedesco è clamorosamente ambiguo (e dunque ironico): «aufziehen», che vuol dire «tirare su, invitare ad alzarsi» ma anche «caricare», come si carica un orologio, un congegno meccanico.
98 È questo il brano dell’intera novella in cui il narratore – che avevamo conosciuto esitante, incerto, pieno di dubbi sulle sue possibilità di restituire il reale – assume un punto di vista categorico: Nathanael non si accorge di quel che vede, di quel che invece lui – il narratore – conosce: le reazioni degli altri, gli sguardi degli altri. Poco dopo, tuttavia, tornerà a dubitare quando si domanderà se Olimpia comprende le parole di Nathanael: «Worten, die keiner […] vielleicht».
99 Il vocabolario di Olimpia non può che definirsi limitato. A parte «Ach» si segnala solamente un «Gute Nacht, mein Lieber» («Buonanotte mio caro»). Forse il duo Spalanzani/Coppola, rispettivamente responsabili per l’automa e per gli occhi, doveva farsi affiancare da un terzo esperto in questioni linguistiche. Ma il laconismo di Olimpia è evidentemente funzionale a sottolineare il carattere proiettivo del personaggio, talché il suo «Ach» può di volta in volta colorarsi di entusiasmo, nostalgia, stupore, a seconda dello stato d’animo del suo interlocutore.
100 Senza rendersene conto fino in fondo e anzi attingendo come al solito a un linguaggio formulare Nathanael allude qui alla radice marcatamente narcisistica del suo amore.
101 Il progressivo dissolversi dell’ultimo barlume di luce conferma la consequenzialità simbolica di tutto il testo, di tutta la raccolta, adesso la pittura notturna sta trasformandosi nella notte nera, buia della follia.
102 Dopo gli occhi e la mano adesso la bocca; e anche in questo caso il modus della percezione è lo stesso: aveva la sensazione, gli pareva, gli sembrava. La respirazione bocca a bocca cui Nathanael sottopone le labbra gelide di Olimpia avviene dopo una ricaduta: la mano calda è tornata a raffreddarsi, di qui il riferimento a un mito del folklore e della letteratura, all’epoca anche recente (si pensi alla ballata goethiana La sposa di Corinto del 1798), quello della sposa morta il cui corpo viene riscaldato dall’amore dell’uomo, un amore che contestualmente ne sancisce la maledizione.
103 Altra descrizione che corrisponde perfettamente al genere del Nachtstück. Qui l’effetto inquietante provocato da Spalanzani è prodotto dall’ombra. In tedesco il sostantivo usato è «Schlagschatten», un termine tecnico della pittura, ossia «l’ombra ben disegnata gettata da un oggetto chiaramente illuminato», come recita la definizione del Grimm.
104 Nathanael riprende, quasi alla lettera, le metafore sideree di cui anche alla nota 88. Colpisce la lucida consapevolezza da parte del protagonista della natura squisitamente narcisistica del sentimento («trasfigurerai l’animo mio»).
105 In tedesco «konversieren». Spalanzani come Coppelius parla con lessico latineggiante e arcaizzante (vedi nota 21).
106 Da buon studente che non disdegna le maschie consuetudini goliardico-ribalde Nathanael ha il sangue caldo ed è sempre disposto a battersi, come già si è visto nell’episodio del duello sfiorato con Lothar. Il dialogo delinea una violenta opposizione ermeneutica fra Siegmund (portavoce della communis opinio) e Nathanael – sempre più isolato – in relazione a Olimpia: «rigida come la morte», «muta», «idiota», «faccia di cera», «bambola di legno», «senz’anima» ecc. vs. «animo profondo e sublime» e «fascino celeste».
107 Seconda occorrenza del termine «unheimlich», qui in un uso colloquiale difficilmente riconducibile alla valenza freudiana.
108 Espressione formulare hoffmanniana tra le più ricorrenti – dai Pezzi fantastici alla maniera di Callot in avanti – volta a segnalare la disposizione produttiva, ma anche ricettiva nei confronti dell’opera d’arte, la comunicazione artistica “funziona” anzi solamente se tale predisposizione è presente sia nel creatore che nel recettore (Siegmund viene poco dopo non a caso definito come «freddo» e «prosaico»).
109 Concetto chiave dell’estetica romantica che allude al carattere misterico e in fondo inesprimibile dell’arte e della conoscenza; qui evidentemente viene utilizzato in chiave ironica visto che viene applicato ai pallidi fonemi dell’automa e vista anche la proliferazione di genitivi che quasi rischia di tracimare nel nonsense.
110 Nathanael si rivela aggiornatissimo conoscitore di discorsi circolanti all’epoca, dalla vulgata dello scienziato, filosofo della Natura e divulgatore Gotthilf Heinrich Schubert (1780-1860) che aveva tenuto le sue seguitissime lezioni a Dresda ancora negli stessi anni in cui, in piene guerre di liberazione, vi era passato Hoffmann, fino ad arrivare a uno dei titoli più famosi dell’epoca, il romanzo di Goethe, uscito nel 1808. Su Schubert vedi le numerose note a lui dedicate a proposito della Casa desolata.
111 Fra una ragazza qualunque della buona borghesia tedesca e Olimpia c’è una sostanziale omologia: entrambe obbediscono a delle regole, l’una a quelle della società, l’altra a quelle della meccanica. La vivificazione dello sguardo è un fenomeno che ormai conosciamo.
112 Il contatto e l’affinità con la musa meccanica scatena la produttività forse altrettanto meccanica e seriale di Nathanael.
113 Che Olimpia oltre a «Ach» dica solamente «Gute Nacht, mein Lieber» può – di nuovo – essere letto in chiave ironica. È un «buonanotte» che allude alla notte della ragione nella quale è precipitato Nathanael.
114 Nell’obnubilamento generale Nathanael mantiene tuttavia un barlume di lucidità dicendo a modo suo il vero: Olimpia è mera proiezione della propria affezione narcisistica, un dato, questo, riconducibile anche al semplice fatto meccanico che gli occhi vitrei di Olimpia permettono tale rispecchiamento.
115 L’inadeguatezza della parola è un altro topos romantico di cui si serve Nathanael, anch’esso declinato in chiave ironica.
116 In tedesco ci sono quattro infiniti sostantivati, uno via l’altro. Ancora una volta, come nell’infanzia, si tratta in primis di uno shock acustico e l’ellissi ne rappresenta l’equivalente formale. Secondo il medesimo schema ellittico è costruito anche il successivo dialogo, di nuovo in linea con la prospettiva scioccata di Nathanael.
117 Dal dialogo convulso emerge ciò che il lettore da tempo presagisce, che Olimpia è una coproduzione Spalanzani/Coppola. Spalanzani ha firmato la meccanica, il congegno, Coppola ha costruito gli occhi.
118 Nathanael vede Coppola ma sente Coppelius. Tutta la scena, traumatica, è raccontata dalla prospettiva del protagonista che proprio perché vede/sente ritornare il rimosso lascia riaffiorare le sue paure primordiali relative alla figura di Coppelius e alla sua omologia con Coppola.
119 In tedesco «Retorten». Il termine fa – ancora oggi – pensare alla creazione artificiale di vite umane, alla clonazione.
120 Tornano le «Höhlen», le cavità dell’incubo infantile di Nathanael (vedi la nota 25).
121 Stavolta è Spalanzani a parlare, statuendo in modo apparentemente definitivo l’omologia fra Coppelius e Coppola. Ma vale quanto detto alla nota 118: resta plausibile che, poiché il destinatario delle parole di Spalanzani è lo stesso Nathanael, la percezione sia errata in linea con la propria ossessione primaria.
122 Quel «ti» (in tedesco: «dir») è da intendersi alla stregua di un dativo etico, dunque metaforico: Coppola non ha rubato gli occhi a Nathanael – che non a caso sta osservando la scena con i propri, seppur straziati, occhi – ma ha rubato gli occhi di Olimpia, che erano cari a Nathanael e che metaforicamente erano gli occhi di Nathanael.
123 Si realizza qui di fatto la sequenza ideata da Nathanael (vedi nota 67).
124 Espressione formulare che Hoffmann utilizza non di rado nel corso della sua opera a denotare la follia.
125 Cerchio di fuoco=follia, vedi anche la nota 66. Ciò che era un’invenzione del “poeta” Nathanael diviene adesso bruta realtà.
126 Forse il brano che meglio segnala l’utilizzo di tecniche di straniamento ironizzante da parte del narratore (e di Hoffmann) che, dopo aver spedito Nathanael al manicomio, postula una qualche empatia del lettore nei confronti di personaggi minori (Spalanzani) o antagonistici (Coppola/Coppelius) e si diffonde su questioni metariflessive e giuridiche.
127 La polemica hoffmanniana contro i circoli del tè è un Leitmotiv che percorre tutta la sua opera. I circoli del tè – spesso accompagnati dall’aggettivo «ästhetisch» («estetici») – rappresentano una sfera semipubblica che amministra normativamente il gusto e presso la quale gli artisti sono chiamati a esibirsi, vittime di una prostituzione culturale da Hoffmann a più riprese condannata.
128 Hoffmann gioca qui sull’omofonia e sulla quasi completa coincidenza grafica con «Theist» («teista») creando il neologismo «Teeist», quasi che la frequentazione dei circoli del tè sia da equiparare a un indirizzo filosofico ovvero a un’ideologia.
129 In latino nel testo: per il saggio ciò è sufficiente. Il discorso del professore di poesia e retorica ironizza da un lato sulle ossessioni tassonomiche degli eruditi ma dall’altro invita al contempo a una lettura metaforica o addirittura allegorica della vicenda che stiamo finendo di leggere, allegoria per esempio circa i pericoli di una non corretta interazione fra io e realtà, e circa i pericoli di una (presunta) arte autoreferenziale.
130 L’episodio produce un paradossale esito antiumanistico. Nathanael finisce al manicomio, ma la società omologata che lo condanna, lo stigmatizza e lo esclude non è messa molto meglio.
131 Il giurista Hoffmann si prende gioco dei sintagmi formulari del linguaggio giuridico.
132 Come Coppelius anni addietro. Rispetto al manoscritto vi è a questo punto un altro taglio decisivo, una breve ma significativa frase: «Alla fine lui era davvero l’orribile uomo della sabbia Coppelius». A dimostrazione ulteriore che la revisione hoffmanniana è tutta volta a produrre incertezza sullo statuto fattuale di quanto da Nathanael percepito, laddove invece la prima versione licenziava il lettore con una dose notevolmente maggiore di chiarezza sull’accaduto.
133 Riedizione identica del risveglio dopo la scena primaria della rivelazione di Coppelius/uomo della sabbia. Hoffmann usa anche lo stesso participio passato («hingebeugt»), la prima volta era la madre china su di lui (vedi anche la nota 31), adesso Clara.
134 Anche questa scena l’abbiamo già vista, dopo il primo ritorno a casa di Nathanael, e come quella anche questa si rivelerà illusoria.
135 Il dettaglio – del tutto privo di plausibilità realistica! – dell’ombra enorme (e fallica) del campanile sull’ora del mezzogiorno la dice lunga sul carattere mitico e sovrannaturale della minaccia che va adesso a concretizzarsi.
136 Nel manoscritto originale, a partire da qui, Coppelius svolge un’azione molto più attiva inducendo Nathanael a spiccare il salto.
137 In questa scena di vago sapore shakespeariano (la foresta del Macbeth) Clara contribuisce involontariamente a riattualizzare il trauma; il «cespuglio grigio» non può non rammentare a Nathanael le sopracciglia grigie di Coppelius.
138 Per l’ultima volta Nathanael compie il gesto meccanico di estrarre il canocchiale e il campo visivo viene investito da Clara, ciò che ricorda al protagonista una costellazione analoga con al centro Olimpia e dunque, indirettamente, la perdita dell’oggetto (!) amato. Di qui la reazione parossistica, in linea peraltro con quanto postulato dalla medicina dell’epoca, la quale raccomandava di evitare situazioni che potessero produrre una ricaduta in un soggetto vittima di un trauma psichico. E che il protagonista riviva il ricordo traumatico dello smembramento di Olimpia lo si capisce dal fatto che apostrofa Clara dicendo: «Pupattola di legno gira».
139 La scena ricorda da vicino uno dei pochi intertesti di questa altrimenti originalissima novella hoffmanniana: la sequenza finale di Liebeszauber (Incanto d’amore) di Ludwig Tieck, pubblicato nel 1812 all’interno del Phantasus. Il protagonista impazzito pugnala la fidanzata e si getta nel vuoto insieme alla vecchia strega.
140 Il duello goliardico nel giardino di casa scongiurato all’ultimo momento si trasforma nel last minute rescue con scazzottata finale. Se è un luogo comune ormai paragonare la costellazione della Finestra d’angolo del cugino, l’ultima novella scritta da Hoffmann, con Rear’s Window di Alfred Hitchcock, allo stesso modo, leggendo queste ultime righe, non può non venire in mente la scena finale di Vertigo.
141 Forse allora era non il campanile ma la gigantesca figura di Coppelius a produrre l’ombra di cui alla nota 135. Che Nathanael si lanci nel vuoto gridando «Sköne Oke – Sköne Oke» sembrerebbe alludere a una sua identificazione con Coppola, quasi che gettandosi verso Coppelius che lo aspetta nella piazza del mercato il protagonista intenda ricomporre le due identità separate, in una specie di amplesso finale fra il suo sé femminile (Coppola) e il suo sé maschile (Coppelius).
142 Anche quest’ultima – terza! – prova di idillio biedermeier appare problematica e restituita nei modi della congettura («raccontano», «se ne dovrebbe dedurre»).