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L’incubo è finito. Quando apro gli occhi, vedo solo il buio.

Sono sdraiata su un letto, e non è il mio. Il materasso è molto largo e segue alla perfezione i contorni del mio corpo; per un momento mi domando se i miei amici mi abbiano trasportata in una delle camere da letto dell’attico di Nove. Allargo braccia e gambe, ma non trovo i bordi del materasso. Il lenzuolo che mi copre è più liscio che morbido, sembra quasi un telo di plastica, ed emana calore. Anzi non solo calore, ma anche una vibrazione costante che allevia il dolore nei muscoli.

Quanto ho dormito? E dove mi trovo?

Cerco di ricordare cosa mi è successo, ma mi torna in mente soltanto l’ultima visione. Un incubo orribile e interminabile. Sento ancora la puzza di gomma bruciata, le nubi di fumo che aleggiano sopra Washington dopo la battaglia che è infuriata lì. O che infurierà, se la mia visione dovesse avverarsi.

Le visioni. Sono la manifestazione di una nuova Eredità? Le Eredità degli altri non li lasciano traumatizzati ogni mattina. Sono profezie? O minacce inviate da Setrákus Ra, come i sogni che John e Otto facevano? Sono avvertimenti?

Qualsiasi cosa siano, vorrei che se ne andassero.

Faccio lunghi respiri per scacciare dalle narici la puzza di Washington, pur sapendo che è solo nella mia testa. Peggio ancora della puzza è il fatto che ricordo ogni dettaglio, fino allo sguardo di terrore sul volto di John quando mi ha vista condannare a morte Sei, su quel palco con Setrákus Ra. John era intrappolato con me nella visione. Ero inerme, lassù, stretta fra Setrákus Ra, che si era autonominato imperatore del mondo, e...

E Cinque. Cinque è complice dei Mogadorian! Devo avvertire gli altri!

Mi alzo di scatto a sedere sul letto. La testa mi comincia a girare, sfere color ruggine mi offuscano la vista. Batto le palpebre, sento gli occhi appiccicosi, le labbra secche e la gola riarsa.

No, non mi trovo nell’attico.

Muovendomi devo avere attivato qualche sensore, perché le luci si accendono gradualmente e gettano sulla stanza una luminescenza rossastra. Mi guardo intorno in cerca della fonte di luce e vedo che sulle pareti coperte da pannelli cromati pulsano vene luminose. Mi corre un brivido lungo la schiena quando vedo com’è spoglia e severa la stanza, priva di qualsiasi decorazione. Ora la coperta emana più calore di prima, quasi mi stesse chiedendo di raggomitolarmi nel letto. La spingo via.

Questo posto appartiene ai Mogadorian.

Avanzo carponi fino al bordo dell’enorme letto – è più grande di un SUV, potrebbe ospitare comodamente un dittatore mog alto tre metri – e tiro giù le gambe: i miei piedi nudi restano sospesi sopra un pavimento di metallo. Indosso una lunga camicia da notte grigia, ricamata con tralci e spine nere. Rabbrividisco all’idea che mi abbiano infilato questa camicia e mi abbiano lasciata qui a riposare. Potevano uccidermi, e invece mi hanno messa in pigiama. Nella visione ero seduta accanto a Setrákus Ra, che mi definiva la sua erede. Ma cosa significa? È per questo che sono ancora viva?

Non importa. Sta di fatto che sono prigioniera. E, ora che lo so, cosa posso farci?

Immagino che i Mog mi abbiano trasferita in una delle loro basi. Ma la stanza in cui mi trovo non somiglia alle orribili e anguste celle in cui Nove e Sei mi hanno raccontato di essere stati rinchiusi. No, questa dev’essere l’idea distorta di ospitalità dei Mogadorian. Vogliono prendersi cura di me.

Setrákus Ra ha ordinato a tutti di trattarmi più da ospite che da prigioniera, perché vuole che un giorno io regni al suo fianco. Non capisco ancora perché, ma al momento è l’unica cosa che mi tiene in vita.

E gli altri?

Se io sono qui, cos’è successo agli altri, a Chicago?

Mi tremano le mani, mi vengono le lacrime agli occhi. Devo andarmene di qui. E devo riuscirci da sola.

Mi faccio forza, ricaccio indietro la paura e le visioni di una Washington rasa al suolo, i timori per la sorte dei miei amici. Sgombero la mente da ogni pensiero: devo essere una tabula rasa, com’ero quando abbiamo combattuto per la prima volta contro Setrákus Ra in New Mexico, e com’ero durante l’addestramento con gli altri. È più facile essere coraggiosa se non ci penso. Se mi affido all’istinto, posso farcela.

Corri, mi dico, immaginando che sia la voce di Crayton. Corri finché non saranno troppo stanchi per inseguirti ancora.

Ho bisogno di un’arma con cui combatterli. Mi guardo intorno. Accanto al letto c’è un comodino di metallo, l’unico altro mobile nella stanza. I Mog mi hanno lasciato un bicchiere d’acqua, che mi rifiuto di bere anche se ho una sete terribile. Accanto al bicchiere c’è un libro grosso come un dizionario, con la copertina in pelle di serpente su cui è inciso un titolo in lettere concave dai bordi frastagliati, come se avessero usato l’acido al posto dell’inchiostro: Il grande libro del progresso mogadorian. Al di sotto ci sono strani geroglifici spigolosi, che immagino siano nella lingua dei Mog.

Prendo il libro e lo apro. Ogni pagina è divisa a metà, inglese da una parte e mogadorian dall’altra. Vogliono che lo legga?

Lo richiudo di scatto. L’importante è che è un libro grosso e pesante: non basterà per trasformare un Mog in una nube di cenere, ma è meglio di niente.

Scendo dal letto e raggiungo quella che mi sembra la porta: un pannello rettangolare ritagliato nella parete metallica, senza maniglie né pulsanti.

Mentre mi avvicino in punta di piedi, chiedendomi come aprire la porta, sento un ronzio meccanico dall’interno della parete. Dev’essere un sensore di movimento, come le luci: non appena la raggiungo, la porta inizia a scorrere sibilando dal basso verso l’alto e scompare nel soffitto.

Non mi soffermo a chiedermi perché non mi abbiano chiusa dentro. Stringo il libro ed esco in un corridoio freddo e rivestito di metallo come la stanza.

«Ah, sei sveglia», dice una voce femminile.

Non ci sono guardie, ma c’è una Mogadorian seduta su uno sgabello appena fuori dalla stanza: è chiaro che mi aspettava. Non avevo mai visto una Mog femmina, credo, e di sicuro nessuna che somigliasse a lei. Di mezz’età, con un reticolo di rughe sulla pelle chiara intorno agli occhi, la Mog sembra stranamente poco minacciosa nel suo abito a collo alto e lungo fino ai piedi, simile a quelli che indossavano le suore del convento di Santa Teresa. Ha la testa rasata, a parte due lunghe trecce nere fissate sulla nuca; il resto del cuoio capelluto è coperto da un intricato tatuaggio. Gli altri Mog contro cui ho combattuto erano spietati e violenti, ma questa è quasi elegante.

Mi fermo davanti a lei, incerta sul da farsi.

La Mog guarda il libro che ho tra le mani e sorride. «E sei pronta a iniziare i tuoi studi, vedo.» Si alza. È alta e magra, ha un po’ le movenze di un ragno. Si profonde in un inchino. «Padrona Ella, sarò la tua istitutrice finché...»

Non appena ha chinato la testa a sufficienza, le sferro col libro un colpo in pieno volto, con tutta la forza che ho.

La colgo alla sprovvista, e mi sembra strano: tutti i Mog che finora ho incontrato erano pronti a combattere. Lei invece emette un breve gemito e stramazza a terra in un frusciare di gonne.

Non mi fermo a controllare se è svenuta, o se sta tirando fuori un fucile da qualche piega di quel vestito. Scelgo una direzione a caso e mi metto a correre più veloce che posso. Il pavimento di metallo mi fa male ai piedi nudi; i muscoli iniziano a dolermi, ma li ignoro. Devo andarmene.

Purtroppo nelle basi dei Mogadorian non ci sono mai cartelli che indichino l’uscita. Svolto un angolo e poi un altro, percorro una serie di corridoi identici tra loro. Mi aspetto di sentire da un momento all’altro una sirena che annuncia la mia fuga, e invece no. E non sento dietro di me i passi pesanti dei Mog lanciati all’inseguimento.

Proprio quando non ho più fiato e temo di dover rallentare, alla mia destra si apre una porta da cui escono due Mogadorian. A differenza della femmina, hanno l’aspetto tipico della loro razza: grandi e grossi, in uniforme nera, mi fissano con gli occhietti penetranti. Li aggiro e continuo a correre, anche se loro non tentano di fermarmi. Anzi mi sembra di sentir ridere uno dei due.

Ma che succede?

Percepisco che i due Mog mi guardano scappare, perciò m’infilo nel primo corridoio che trovo. Non so se sto girando in tondo; non c’è luce naturale né nessun rumore dall’esterno, nulla che mi lasci pensare di essere vicina a un’uscita. I Mog sembrano disinteressati a me, come se sapessero che in ogni caso non riuscirei a fuggire.

Rallento per riprendere fiato, procedo con cautela nel corridoio bianco e vuoto. Il libro che stringo ancora – la mia unica arma – inizia a farmi male. Lo sposto nell’altra mano e proseguo.

Di fronte a me una grande porta si apre sibilando; è diversa dalle altre, più larga e a forma di arco, e dall’altra parte vedo strane luci lampeggianti.

No, non luci. Stelle.

Quando varco la soglia, il soffitto rivestito da pannelli metallici lascia il posto a una cupola di vetro: mi trovo in una grande sala che somiglia a un planetario, ma l’universo che mostra è quello vero. Dal pavimento spuntano vari computer e pulsantiere – forse è una specie di sala di controllo – ma ho occhi solo per l’incredibile panorama che vedo al di là della cupola di vetro.

Buio. Stelle.

La Terra.

Ora capisco perché i Mogadorian non m’inseguivano. Sanno che non posso fuggire.

Sono nello spazio.

Mi avvicino al vetro e ci appoggio le mani. Percepisco il vuoto che è là fuori, lo spazio interminabile e gelido che mi separa da quella sfera azzurra.

«Bello, vero?»

La sua voce tonante mi sferza come una secchiata d’acqua fredda. Mi volto addossandomi al vetro: il vuoto dietro di me mi sembra preferibile a lui.

Setrákus Ra è in piedi dietro uno dei moduli di controllo e mi guarda accennando un sorriso. La prima cosa che noto è che la sua statura si è ridotta rispetto a quando abbiamo combattuto contro di lui alla base di Dulce. Ma è ancora alto e imponente, col corpo massiccio stretto nella severa uniforme nera decorata in un assortimento di medaglie mogadorian dai contorni frastagliati. Porta al collo tre ciondoli loric che emanano una leggera luminescenza azzurra: sono quelli che ha sottratto ai primi tre Garde uccisi. «Vedo che hai già preso il mio libro», dice indicando la mia arma, il volume grande come un dizionario. Non mi ero resa conto di stringerlo al petto. «Benché non per il motivo che speravo. Per fortuna la tua sorvegliante non è rimasta ferita in modo grave...»

All’improvviso, tra le mie mani, il libro inizia a brillare di una luce rossa, com’era successo al frammento di macerie che ho raccolto alla base di Dulce. Non so esattamente come io ci stia riuscendo e perché accada.

«Ah, molto bene», commenta Setrákus Ra, inarcando un sopracciglio.

«Va’ al diavolo!» strillo, e gli scaglio addosso il libro che brilla ancora.

Setrákus Ra alza una delle grandi mani: il libro si ferma a mezz’aria. «Basta così», mi rimprovera.

Guardo svanire lentamente la luminescenza rossa. «Cosa vuoi da me?» grido. Gli occhi mi si riempiono di lacrime per la frustrazione.

«Lo sai già. Ti ho mostrato cosa succederà. Come un tempo l’avevo mostrato a Pittacus Lore.» Setrákus Ra preme alcuni pulsanti sul pannello di controllo che ha davanti.

L’astronave inizia a muoversi. La Terra, che sembra al contempo lontanissima e così vicina da poterla toccare con un dito, mi scorre davanti lentamente. Non ci stiamo muovendo verso di lei; stiamo girando su noi stessi.

«Sei a bordo dell’Anubis», m’informa Setrákus Ra, con una nota d’orgoglio. «La nave ammiraglia della flotta mogadorian.»

Quando l’astronave termina la rotazione, resto senza fiato. E mi appoggio al vetro per non cadere, perché improvvisamente mi tremano le ginocchia.

Là fuori, in orbita intorno alla Terra, c’è la flotta mogadorian. Centinaia di astronavi, quasi tutte argentate e di forma allungata, delle dimensioni di piccoli aeroplani: proprio come quelle contro cui i Garde raccontano di avere combattuto. Ma poi c’è anche una ventina di gigantesche astronavi da guerra, imponenti e minacciose, dalla cui carena spuntano cannoni che mirano dritti sull’ignaro pianeta.

«No, non è possibile», sussurro.

Setrákus Ra viene verso di me, ma sono troppo scioccata per muovermi. Mi appoggia delicatamente una mano sulla spalla. Sento il gelo delle sue dita pallide attraverso la camicia da notte.

«È giunto il momento. Finalmente la Grande Espansione ha raggiunto la Terra», dice, guardando la flotta. «Festeggeremo insieme il progresso mogadorian, nipote.»