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Il tramonto nelle Everglades sarebbe suggestivo, se non fosse per l’enorme astronave da guerra mogadorian che nasconde l’orizzonte. Di qualsiasi metallo alieno sia fatta, non riflette alcunché: la luce rosa e arancione del crepuscolo viene semplicemente assorbita dallo scafo. Il bestione non atterra: non c’è abbastanza spazio in quella zona paludosa, a meno di non voler schiacciare le navicelle più piccole che sono parcheggiate sulla stretta pista. Perciò resta sospesa in aria, e dalla sua pancia discendono passerelle di metallo che toccano terra. I Mog vanno e vengono dalle rampe, caricando materiali nella stiva.

«Dobbiamo distruggerli», dice Marina in tono inespressivo.

Nove la guarda incredulo. «Dici sul serio? Mi sembra di contare almeno cento Mog e l’astronave più grossa che abbia mai visto.»

«E allora? Non ti piace combattere?»

«Sì. Quando ho una possibilità di vincere.»

«E se non puoi vincere ti limiti a parlare, giusto?»

«Basta così», sibilo prima che Nove possa ribattere. Non so per quanto ancora Marina abbia intenzione di tenere il muso a Nove, e cosa ci vorrà per alleviare la tensione, ma di sicuro non è questo il momento giusto. «Bisticciare non ci aiuterà.»

Siamo sdraiati a pancia in sotto nel fango, nascosti dall’erba alta alla vista degli indaffarati Mogadorian, nel punto in cui la palude confina con uno spiazzo bonificato. Ci sono due edifici davanti a noi: uno è a un piano solo, in vetro e acciaio, e sembra quasi una serra; l’altro è un hangar con una breve pista d’atterraggio, perfetta per piccoli aerei o per le navicelle dei Mogadorian, ma decisamente troppo piccola per l’astronave da guerra sospesa a mezz’aria. Come ci aveva detto Dale prima di fuggire, il posto ha l’aria di essere rimasto abbandonato per molto tempo. La palude ricomincia a farsi strada incrinando l’asfalto, la struttura metallica della serra è arrugginita, il logo NASA è sbiadito quasi completamente sulla fiancata dell’hangar. Ovviamente queste condizioni non sembrano avere dissuaso i Mog dall’approntare qui una piccola base.

Ma ora sembra che se ne stiano andando.

«Marina, percepisci qualcosa?» chiedo.

A questo punto non abbiamo niente su cui basarci a parte l’intuito di Marina. È stato quello a portarci fin qui, in mezzo ai Mogadorian. Tanto vale continuare a farci affidamento ancora per un po’.

«Lui è qui», dice Marina. «Non so come faccio a saperlo, ma è qui.»

«Allora entriamo. Ma in modo intelligente.» Li prendo entrambi per mano e ci rendo invisibili. «Marina, fa’ strada tu», bisbiglio.

Mentre usciamo dalla palude, Nove inciampa su una radice e rischia di cadere e di staccarsi da noi: sarebbe stata la missione segreta più breve della storia. Gli stringo più forte la mano.

«Scusa», sussurra. «È strano non potermi vedere le gambe.»

«Non deve succedere di nuovo», lo avverto.

«Non sono più tanto convinto di questo piano: fare irruzione e ammazzarli tutti. Passare inosservato non è proprio il mio forte.»

Marina emette un gemito d’irritazione.

Stringo forte la mano anche a lei. «Dobbiamo muoverci all’unisono», dico tra i denti, sperando che riusciremo a ritrovare quella capacità istintiva di lavorare in squadra che abbiamo usato contro i tre ricognitori nella palude. «Procedete lentamente, in silenzio. Attenti a non urtare niente e nessuno.»

Ci avviamo a passo lento. Non mi preoccupo troppo del rumore dei nostri passi sull’asfalto; i Mogadorian sono indaffarati a trasportare attrezzature pesanti dalla serra all’astronave, e le ruote dei loro carrelli cigolano. Sono abituata a muovermi quando sono invisibile, mi fido dell’istinto, ma so che per gli altri può essere difficile. Ci avviciniamo lentamente, tenendoci stretti, più silenziosi possibile.

Marina ci porta dapprima verso la serra. I Mog sono concentrati in quell’area, trasportano carrelli carichi di strane apparecchiature da scienziato pazzo. Ne vedo uno spingere uno scaffale pieno di piante in vaso: fiori, zolle d’erba, arbusti... tutte cose trovate sulla Terra, ma venate di uno strano fluido grigio. Sembrano appassite, moribonde, e mi domando che genere di esperimenti i Mog stessero conducendo.

Uno molto alto staziona in fondo alla rampa che conduce all’astronave da guerra. La sua uniforme è diversa da quelle abituali dei guerrieri, formale e severa, tutta nera, tappezzata di medaglie lucenti e con le spalline dorate: dev’essere un ufficiale dell’esercito. I tatuaggi sulla testa sono molto più complessi degli altri che ho visto. Ha in mano un tablet su cui depenna le voci da una lista mentre gli altri caricano le attrezzature sulla nave. Ogni tanto grida un ordine nella loro aspra lingua.

Marina cerca di farci avvicinare alla serra, ma io le stringo più forte la mano e pianto i piedi a terra. Nove mi sbatte addosso e grugnisce di stizza perché ci siamo fermati. Il vialetto davanti a noi è una specie di corsa a ostacoli: i Mogadorian sono ovunque. Se ci avviciniamo ancora, rischiamo che uno di loro ci venga addosso. Se Otto si trova in quella serra insieme coi loro esperimenti e materiali, la nostra unica possibilità di trovarlo sarebbe un assalto frontale. E non sono ancora pronta per quell’opzione. Marina percepisce la mia riluttanza, e la sua mano si raffredda un po’ nella mia.

«Non ancora», sibilo. «Prima controlliamo l’hangar.»

Facciamo un’altra decina di passi, poi un guaito animale ci spinge a fermarci. Dalla serra, una squadra di Mog spinge fuori una grande gabbia su ruote. Dentro c’è una creatura che a un certo punto poteva essere stata una mucca, ma che nel frattempo è stata trasformata in qualcosa di orribile. Ha gli occhi umidi e giallastri, corna appuntite e mammelle estremamente gonfie e percorse dalle stesse venature grigiastre che ho visto sulle piante. La creatura sembra intontita e priva di forze, viva per un soffio. Gli esperimenti dei Mog dovevano essere davvero terribili, e anch’io, come Nove, inizio a dubitare della possibilità di fare a pezzi questi bastardi.

«Aspetta, ho un’idea», mi bisbiglia Nove all’orecchio.

Esposti come siamo, non mi sembra un buon momento per una delle sue pazze idee. Ma un istante dopo che lui ci ha fatti fermare, la mostruosa mucca nella gabbia emette un altro lamento e si rialza faticosamente. Barcolla e si appoggia a un lato della gabbia; i Mog che la spingono chiedono aiuto a gran voce perché la gabbia minaccia di rovesciarsi. Poi la creatura colpisce le sbarre con uno degli enormi zoccoli, rischiando di spaccare la faccia a un Mog.

«Le ho chiesto di distrarli», bisbiglia Nove, mentre altri Mog accorrono intorno alla gabbia per tentare di sedare l’animale. «Quella poveretta è stata felice di aiutarci.»

La telepatia di Nove con gli animali funziona a meraviglia. La mucca sembra avere finalmente trovato uno scopo cui dedicare la vita: continua ad agitarsi, sbatte contro i lati della gabbia, infilza con un corno un Mog alla spalla. Il caos ci permette di passare inosservati davanti alla serra e proseguire verso l’hangar.

Ci fermiamo sentendo sparare un fucile mog. Voltandomi vedo l’ufficiale rimettersi l’arma in spalla e un buco fumante sulla tempia della mucca. L’animale è riverso nella gabbia, immobile. L’ufficiale bercia un ordine: i Mog iniziano a caricare la carcassa sull’astronave da guerra.

Tendo i muscoli, ma Nove mi sussurra: «È meglio così. Soffriva molto».

Ora che siamo un po’ più lontani dai Mog trovo il coraggio di chiedere: «Cosa le stavano facendo?»

Nove esita prima di rispondere. «Non sono riuscito a scambiarci più di qualche parola. Ma penso che cercassero di renderla più efficiente. Ehm... esperimenti sull’ecosistema.»

«Pazzi furiosi», mormora Marina.

Acceleriamo il passo e proseguiamo verso l’hangar. Alla nostra destra, sul bordo della pista, ci sono tre astronavi più piccole, di quelle a forma di disco volante. Una squadra di manutenzione composta da cinque Mog è riunita intorno a una delle navicelle e osserva con aria perplessa alcune schede elettroniche estratte dal veicolo. A quanto pare, anche i Mogadorian possono avere problemi tecnici. A parte quei cinque, non c’è in giro nessun altro.

Le enormi porte metalliche dell’hangar, grandi abbastanza per un piccolo aereo, sono aperte quanto basta per far passare una persona. Dentro l’hangar le luci sono accese, ma dalla porta socchiusa vedo solo uno spazio vuoto.

Marina rallenta quando arriviamo alla porta e poi si ferma per guardare dentro. Nel frattempo io mi guardo alle spalle. Non è cambiato niente: i Mog stanno ancora caricando materiali sull’astronave da guerra, ignari della nostra presenza.

«Vedi niente?» bisbiglia Nove, e percepisco che allunga il collo per scrutare dentro l’hangar.

Sento che a Marina si mozza il fiato in gola. La mano che stringo nella mia sembra essersi tramutata in un blocco di ghiaccio.

«Merda, Marina!» sibilo, ma lei non mi ascolta: si sta tuffando oltre la soglia. Fatico molto a trattenerla, perché ho la mano intorpidita. Tiro via Nove, che sbatte la spalla sulla porta d’acciaio ed emette un lamento che viene coperto dall’eco del rumore metallico.

L’hangar è quasi completamente vuoto: i Mogadorian hanno già portato via tutta la loro roba. Dalle travi del soffitto, grandi fari illuminano il tavolo di metallo e la sedia al centro della stanza. Sono le uniche cose rimaste lì dentro, e proiettano lunghe ombre sul pavimento di cemento.

Sul tavolo c’è il corpo di Otto.

È avvolto in una sacca nera per cadaveri, con la lampo tirata giù fino alla vita. È a torso nudo, si vede chiaramente la ferita delle dimensioni di una monetina che Cinque gli ha inferto all’altezza del cuore. La pelle bruna è livida, ma per il resto è uguale a prima, come se da un momento all’altro potesse teletrasportarsi giù dal tavolo e giocarmi uno scherzetto dei suoi. Ha degli elettrodi neri attaccati alle tempie e allo sterno, con corte antenne dall’aria fragile. Gli elettrodi generano una specie di campo a malapena visibile, come se attraverso il corpo transitasse una corrente elettrica leggera e costante. Penso che i Mog volessero conservare intatto il corpo in vista dei loro esperimenti. Oltre agli elettrodi, qualcuno ha lavato via il sangue e, sorprendentemente, gli hanno lasciato al collo il medaglione loric: la pietra gli riluce sul petto. È orribile vederlo in quello stato, ma sembra quasi sereno.

E tuttavia non è Otto il motivo per cui Marina si è precipitata nell’hangar, né il motivo per cui mi sta congelando la mano. Seduto accanto a Otto, con la testa tra le mani, c’è Cinque; siede chino in avanti, come se volesse ripiegarsi su se stesso. L’occhio che Marina gli ha ferito nella palude è bendato, e le bende sono leggermente macchiate di rosa. L’occhio buono è cerchiato di rosso: sembra che abbia pianto o che non abbia dormito, o entrambe le cose. La testa è rasata di fresco, e mi domando tra quanto tempo gli faranno i tatuaggi. È vestito con abiti formali mogadorian, simili a quelli dell’ufficiale che presiedeva alle operazioni di carico dell’astronave da guerra. Ma la sua uniforme è tutta stropicciata, i bottoni intorno al collo sono slacciati, tutto sembra andargli un po’ stretto.

È impossibile che il traditore guercio non ci abbia sentiti entrare. Lo spazio vuoto dell’hangar amplifica ogni suono, tanto che ho paura di respirare. Quel che è peggio, sento provenire da Marina un ringhio basso, come se stesse per gridare e avventarsi su Cinque. Dietro di me sento Nove trattenere il fiato.

L’occhio buono di Cinque lancia uno sguardo nella nostra direzione. Ci ha sentiti di sicuro, ma non può vederci. Forse penserà che il rumore sia stato provocato dai Mog lì fuori.

Anch’io voglio vendicarmi del traditore, e possibilmente stavolta non vorrei essere messa al tappeto prima ancora che inizi la battaglia; ma dobbiamo agire con tempismo. Uno scontro con Cinque in uno spazio chiuso, a poca distanza da un’astronave mog, non è certo la battaglia che vogliamo. Dovremo trovare un altro sistema per recuperare il corpo di Otto.

Tiro Marina per un braccio, anche se ormai non mi sento più la mano per il freddo, e cerco di farle capire che aggredire Cinque sarebbe una pessima idea. Lei oppone resistenza per un momento, ma poi la sento calmarsi: lo capisco perché la mia mano inizia a riscaldarsi.

D’un tratto, mentre Marina espira lentamente e senza fare rumore, vedo il suo fiato formare una nuvoletta: l’aria intorno a lei è troppo fredda. Una nuvoletta di fiato, proveniente da una ragazza invisibile, galleggia a mezz’aria sotto le luci intense dell’hangar.

Cinque la vede, stringe gli occhi. Si alza dalla sedia e guarda nella nostra direzione. «Non l’ho fatto apposta», dice.