«Il nome Grahish Sharma ti dice qualcosa?» chiede Sarah.
Rifletto per un momento, passo al setaccio i ricordi. «Mi sembra di averlo già sentito. Perché?»
Sono sul prato davanti alla vecchia casa di Adam, e la voce di Sarah esce dal cellulare usa e getta. Dietro il campo da basket il sole inizia a calare sull’orizzonte. Un grosso uccello solca il cielo arancione, mi domando se sia uno dei nostri: abbiamo piazzato le chimere come sentinelle in tutto il terreno delle Residenze Ashwood, con l’ordine di avvertirci se dovessero avvistare intrusi. Finora non si è visto nessuno. Se non sapessi come stanno le cose, penserei di trovarmi in un sonnacchioso angolo di periferia, in un’ora in cui tutti sono ancora al lavoro.
«Viene dall’India», spiega Sarah. «È il comandante di un gruppo chiamato Vishnu Nationalist Eight.»
Ora ricordo. Schiocco le dita. «Ah, sì. È il tizio dell’esercito che proteggeva Otto sull’Himalaya.»
«Quindi la sua versione dei fatti è credibile», dice Sarah.
Cammino avanti e indietro sul prato, immaginando Sarah coi capelli biondi raccolti in una crocchia fermata con penne e matite, intenta a leggere documenti nel nuovo ufficio di Sono tra noi. È irrilevante che quell’ufficio si trovi in un ranch abbandonato a ottanta chilometri da Huntsville, in Alabama. È irrilevante che Sarah sia stata scortata fin lì dal suo ex ragazzo, Mark, che si è rivelato sorprendentemente abile nello spionaggio. È sull’immagine di Sarah che mi concentro.
«Quale versione?»
«Be’, un sacco di dicerie e complottismi internettiani tra cui stiamo cercando di mettere ordine. Ma questo tizio, Sharma, sostiene di avere abbattuto un’astronave aliena e di avere catturato l’equipaggio.»
«Mog che inseguivano Otto, probabilmente.»
«Sì, li ha presi vivi. È successo in India, ma avrebbero dovuto parlarne anche i giornali di qui: e invece no. Qualcuno ha insabbiato tutta la faccenda. Mark sta cercando di mettersi in contatto con Sharma. Vuole scrivere un articolo su Sono tra noi, per rivelare all’opinione pubblica l’esistenza dei Mog.»
«Potrebbe fruttarci un po’ di sostegno, se le cose dovessero mettersi male.»
«Quanto si metteranno male, le cose, John?»
Deglutisco a fatica. Pur avendo usato la mia Eredità di guarigione poco dopo la battaglia, sento ancora le dita del generale strette alla gola. «Non lo so», rispondo, senza riferire a Sarah che Adam ritiene imminente l’invasione della Terra. Forse perché cerco ancora di proteggerla. «Come sta Mark?» chiedo, cambiando rapidamente argomento.
«Sta bene. È molto cambiato.»
«In che senso?»
Sarah esita. «È difficile da spiegare.»
Non insisto: non è delle attuali condizioni di Mark James che voglio parlare. A dirla tutta, dopo essere quasi morto oggi pomeriggio, voglio solo sentire la voce di Sarah. «Mi manchi», le dico.
«Mi manchi anche tu. Dopo una lunga giornata trascorsa a fronteggiare invasori alieni e svelare intrighi internazionali, vorrei che potessimo sdraiarci su quel vecchio divano nel mio seminterrato e guardare un film.»
Il pensiero della vita normale che io e Sarah potremmo fare, se non stessimo cercando di salvare il mondo, mi strappa una risata amara. «Presto lo faremo», dico, cercando di suonare convinto.
«Lo spero.»
Sento muoversi qualcosa dietro di me. Girandomi, vedo Sam sulla veranda distrutta della casa di Adam: mi fa cenno di entrare. «Sarah, devo andare.» Non ho la minima voglia di riagganciare. Ci sentiamo ogni otto ore, come da accordi, e ogni volta che sento la sua voce provo un grande sollievo. E ogni volta che chiudo il telefono inizio a pensare alla volta successiva... quando lei non chiamerà. «Sta’ attenta. Le cose potrebbero farsi difficili.»
«Non lo sono già? Sta’ attento anche tu. Ti amo.»
Saluto Sarah e rivolgo un cenno del capo a Sam: sembra quasi entusiasta, come se negli ultimi cinque minuti avesse ricevuto buone notizie. «Che succede?»
«Vieni, abbiamo scoperto una cosa.»
Salgo su quello che rimane della veranda dopo la battaglia di quel pomeriggio e seguo Sam oltre la porta mezza scardinata. L’interno della casa non è dissimile dall’esterno – il classico esempio di periferia di una qualsiasi città degli Stati Uniti – ma i mobili sembrano disposti esattamente come sulle pagine di un catalogo. È una casa che non sembra abitata. Cerco d’immaginare come debba essere stato per Adam crescere lì, provo a figurarmelo intento a giocare coi pupazzetti dei piken, ma non ci riesco.
In fondo al salotto c’è un’enorme porta di metallo con una serie di serrature azionate da un pannello elettronico coperto di simboli mogadorian. È l’unico elemento che stona con l’illusione di una tranquilla casetta suburbana. Mi stupisce che i Mog non abbiano tentato di nasconderla dietro un mobile o qualcosa del genere: evidentemente non immaginavano che i loro nemici sarebbero giunti fin lì. La porta è già aperta, scassinata in precedenza da Adam, ed è da lì che io e Sam scendiamo nelle gallerie sotto le Residenze Ashwood.
Al termine di una lunga scala di metallo, la falsa atmosfera accogliente della casa lascia il posto a gelido acciaio inox e ronzio dei neon. Il labirinto di tunnel sotto Ashwood è molto più in sintonia con la mia idea dei Mogadorian: funzionale e freddo. Il complesso non è esteso come la montagna scavata in West Virginia, ma è sicuramente molto più grande della base di Dulce. Mi chiedo quanto tempo ci sia voluto per scavare tutti quei cunicoli mentre io e Henri eravamo in fuga, ignari di tutto.
A metà della scala inizia una lunga crepa nella parete che prosegue verso il basso lungo le gallerie. Sam ci passa sopra una mano: la polvere di cemento gli resta sulle dita.
«Siamo sicuri che questo posto non ci crollerà addosso?» chiedo.
«Adam pensa di no.» Sam batte le mani per pulirle: il suono riecheggia nella galleria. «Ma questo posto mi mette ansia, davvero. Claustrofobia pura.»
«Non ti preoccupare, non ci resteremo a lungo.»
Nelle gallerie troviamo altre crepe, punti in cui le fondamenta si sono mosse, pezzi di cemento che strusciano l’uno sull’altro. Sono i danni inferti da Adam l’ultima volta che è stato qui, quando ha usato la sua Eredità per evocare un terremoto e far evadere Malcolm. In alcune gallerie il soffitto è crollato.
A un certo punto passiamo davanti a una grande stanza ben illuminata che forse in passato era un laboratorio: vediamo molti rubinetti, leve e tavoli da lavoro, ma nessuna apparecchiatura. Devono essere state distrutte durante l’attacco di Adam, e la squadra di recupero dei Mog non ha avuto occasione di rimpiazzarle. Accanto al laboratorio troviamo una serie di stanzette con spesse porte in vetro antiproiettile. Celle. Tutte vuote.
«Gli archivi sono quaggiù», dice Sam. «Papà non si è più mosso da lì. I Mog registravano ogni cosa.»
Ci fermiamo davanti a una piccola stanza – sembra quasi un ufficio – con una parete coperta di schermi. Malcolm è seduto davanti all’unico terminale, con gli occhi rossi per avere guardato chissà quante ore di video.
Su uno degli schermi, un ricognitore mogadorian parla direttamente rivolto alla telecamera: «Tre giorni fa abbiamo sparso voci sulla presenza dei Loric a Buenos Aires. Non c’è ancora traccia dei Garde, ma la sorveglianza continua...»
Vedendoci entrare, Malcolm mette in pausa il video e si stropiccia gli occhi.
«Hai trovato qualcosa di utile?» chiedo.
Lui scrolla la testa e apre sullo schermo una lista di file. Passa un dito sul touchscreen: i titoli dei file iniziano a scorrere. Ce ne sono migliaia, tutti in lingua mogadorian. «A quanto ho capito, sono quasi cinque anni di archivi dell’intelligence mogadorian», spiega Malcolm. «Avrei bisogno di un’intera squadra per vederli tutti. Anche se Adam mi ha tradotto i titoli, che in pratica sono solo date e orari, è difficile capire da dove iniziare.»
«Forse possiamo assoldare qualche stagista», suggerisce Sam, sorridendo. Poi mi tira per un braccio: «Coraggio, dobbiamo andare da Adam».
«Fa’ quello che puoi», dico a Malcolm prima che Sam mi trascini via. «Anche l’informazione più insignificante potrebbe aiutarci.»
Qualche altro metro di corridoio più in là c’è la stanza che Adam ha definito «centro di controllo». È praticamente intatta, quindi ci sistemiamo lì. Le pareti sono tappezzate di monitor, alcuni dei quali trasmettono i filmati delle telecamere di sicurezza di Ashwood, ma anche immagini provenienti da altri luoghi, compresa una telecamera che mostra l’esterno del John Hancock Center. Sotto i monitor c’è una fila di computer, non semplicissimi da usare perché i caratteri sulle tastiere sono dell’alfabeto mogadorian.
Mi poso le mani sui fianchi e mi guardo intorno, osservando le immagini delle telecamere che, non molto tempo fa, sarebbero state puntate su di me. È strano trovarmi dall’altra parte. Come Sam, anch’io mi sento a disagio in questo posto. «Siamo al sicuro qui?» chiedo. «Tutte queste telecamere... Non ce n’è nessuna puntata su di noi?»
«Le ho disattivate», risponde Adam. È seduto su una sedia da ufficio, davanti a uno dei computer, e sta digitando una serie di comandi. Si gira verso di me. «Usando i codici di autorizzazione del generale, ho inviato un messaggio al centro di comando dei Mogadorian in West Virginia, dicendo che la squadra di recupero ha individuato una fuoriuscita di sostanze tossiche. Ci vorrà un po’ di tempo per bonificare l’area. Penseranno che le telecamere spente abbiano qualcosa a che fare col lavoro della squadra di recupero.»
«E questo quanto tempo ci lascia?»
«Un paio di giorni, forse una settimana. S’insospettiranno quando il generale non si farà vivo, ma per un po’ dovremmo riuscire a passare inosservati.»
«Nel frattempo cosa cerchiamo?»
«I tuoi amici», risponde Adam. «Anzi credo di averli già trovati.»
«Sì, sono in Florida. Lo sapevamo già.»
«No, li ha proprio trovati. La posizione esatta», ribatte Sam, sorridendo. «Per questo sono venuto a chiamarti. Guarda qui.» Indica uno degli schermi, su cui è visualizzata una mappa degli Stati Uniti punteggiata da triangoli di varie dimensioni.
C’è un piccolo triangolo in corrispondenza del punto in cui ci troviamo, e altri sparsi per il Paese. Ci sono triangoli più grandi sui centri urbani più popolati: New York, Chicago, Los Angeles, Houston... tutte quelle città sono segnate sulla mappa. Il triangolo più grande di tutti è a ovest rispetto a noi, proprio sopra la base segreta dei Mog nelle montagne del West Virginia.
«Questo è un...» Sam guarda Adam. «Come lo chiameresti?»
«Prospetto riassuntivo delle risorse tattiche», risponde Adam. «Mostra i luoghi in cui si svolgono le attività del mio popolo.»
«Si stanno radunando nelle città principali», dico, osservando la mappa.
«Si preparano per l’invasione.» Il tono di Adam è cupo.
«Non pensiamo all’invasione per il momento, d’accordo?» interviene Sam. «Guarda qui.» Mi porge il tablet che mostra la posizione degli altri Garde, collegato a uno dei computer.
Lo sguardo mi cade subito sulla Florida. Il mio cuore manca un battito: c’è un solo puntino lampeggiante sulla mappa. Impiego qualche secondo a capire che i quattro puntini relativi ai Garde superstiti sono così vicini tra loro da apparire perfettamente sovrapposti. «Sono quasi l’uno sull’altro. Tutti e quattro.»
«Sì», dice Sam, riprendendosi il tablet. «E ora guarda qua.» Avvicina il tablet alla mappa delle attività dei Mogadorian. I quattro puntini coincidono perfettamente con uno dei triangoli arancioni più piccoli in Florida.
«Sono nelle mani dei Mog?» La notizia mi sconcerta. «Adam, che tipo di base è quella?»
«Una stazione di ricerca. La documentazione mostra che lì si svolgevano esperimenti genetici. Non è il genere di posto in cui normalmente terrebbero prigionieri, e certamente non i Garde.»
«E poi, a questo punto, perché prendere prigionieri?» chiede Sam. «Insomma, capisco che Setrákus Ra sia fissato con Ella, ma gli altri...»
«Non sono prigionieri!» esclamo, dando una pacca sul braccio a Sam per l’entusiasmo. «Stanno facendo qualcosa. Stanno attaccando.»
«Sto cercando di ottenere immagini della base», dice Adam, digitando sulla tastiera.
«E come?» Mi siedo accanto a Adam. Guardo le sue dita volare sulla tastiera mogadorian. Non so cosa stia facendo, ma gli viene naturale.
«Ho sabotato una navicella da ricognizione, così non potranno usarla. Quella è stata la parte facile. Meno facile si sta dimostrando il compito d’isolare la strumentazione di sorveglianza a bordo, per mantenere inutilizzabile il veicolo.»
«Stai hackerando un’astronave?» Sam non riesce a nascondere l’ammirazione.
Il monitor davanti a Adam mostra un segnale disturbato dalle interferenze.
«A che ci serve?» chiedo.
«Questa sala di controllo è un centro nevralgico, John», spiega Adam, smettendo per un attimo di digitare. «Le informazioni provenienti da tutte le altre basi arrivano qui. Dobbiamo solo consultarle.»
«In che modo?»
«Il mio popolo dà la caccia ai Loric da tanti anni, ed è diventato paranoico: hanno il terrore di lasciarsi sfuggire una possibile pista. Ogni operazione viene registrata. Ci sono telecamere ovunque.» Adam preme un tasto, con un gesto trionfante. «Anche a bordo delle astronavi.» I monitor lampeggiano per un momento e poi mostrano le immagini sgranate di una pista d’atterraggio nel mezzo di una palude. «Se i Garde sono da quelle parti, potremmo riuscire a vederli.»
«Sempre che non siano invisibili», dico, fissando il monitor.
Sotto la telecamera, un gruppetto di Mog dall’aria irritata sta smontando il motore della navicella da ricognizione. Puliscono i vari pezzi, li riassemblano e, vedendo che non succede niente, iniziano a smontare qualcos’altro.
«Cosa stanno facendo?» chiede Sam.
«Cercano di rimediare ai miei danni», risponde Adam, con aria soddisfatta: sembra compiaciuto di avere battuto in astuzia il proprio popolo. «Ipotizzano un problema al motore, non che i sistemi automatizzati siano stati disabilitati. Ci metteranno un po’ a capirlo.»
Un altro Mog, con un’uniforme di gala simile a quella del generale Sutekh, si avvicina al gruppo di meccanici e inizia a strillare, poi esce dall’inquadratura.
«La telecamera si può muovere?» chiedo.
«Certo.» Adam preme un pulsante.
La telecamera inizia a spostarsi lateralmente, seguendo il Mogadorian in ghingheri. All’inizio non c’è molto da vedere a parte l’asfalto e le paludi in lontananza. Ma, dopo avere percorso un breve tragitto a piedi, il Mog entra in un hangar.
«Pensi che i Garde siano lì dentro?» chiedo.
«Questa telecamera dovrebbe essere attrezzata per la visione termica, se scopro come si usa.»
Prima che Adam capisca come fare, vediamo Cinque uscire dall’hangar. Dalla visione di Ella avevo intuito che era un traditore, ma continuavo stupidamente a sperare che non fosse vero. O addirittura, per quanto brutto fosse quel pensiero, speravo che fosse Cinque quello che era rimasto ucciso nella battaglia. E invece eccolo lì, in una divisa mogadorian stropicciata e con l’occhio destro bendato.
Sento Sam trasalire, sbigottito. L’unica parte delle mie visioni di cui non avevo parlato a nessuno era Cinque, perché non volevo infangare il suo nome nell’eventualità che mi sbagliassi.
«Lui...» Sam scuote la testa. «Quel bastardo traditore. Dev’essere stato lui a parlare di Chicago ai Mog.»
«Uno dei vostri», mormora Adam. «Questo non me l’aspettavo.»
Devo distogliere lo sguardo dall’immagine di Cinque prima che mi ribolla il sangue. «Non lo sapevi?»
«No.» Adam scuote la testa. «Te l’avrei detto. Lo stesso Setrákus Ra deve averlo tenuto segreto.»
Mi costringo a guardare lo schermo e a osservare il mio nuovo nemico mantenendo la calma. Le spalle incurvate, la testa rasata di fresco, lo sguardo cupo nell’occhio superstite. Cosa può avere portato uno dei nostri a fare qualcosa di così orribile?
«Lo sapevo che di quello lì non c’era da fidarsi», dice Sam, camminando avanti e indietro per la stanza. «John, che facciamo?»
Non rispondo, soprattutto perché l’unica soluzione che mi venga in mente al momento, mentre guardo Cinque nell’uniforme del nemico, è ucciderlo. «Dove sta andando? Seguilo», dico a Adam.
La telecamera segue Cinque lungo la pista d’atterraggio fino a una rampa che conduce all’astronave più grande che io abbia mai visto, così smisurata che la telecamera non riesce a inquadrarla tutta.
«Porca miseria, che cavolo è quella roba?»
«Un’astronave da guerra», risponde Adam, con una nota di meraviglia nella voce. «Non riesco a capire quale.»
«Quale? Perché, quante ne hanno?» chiede Sam.
«A decine. Sono alimentate dal vecchio carburante di Mogadore e da quello che il mio popolo è riuscito a estrarre dalle miniere di Lorien. Non sono veicoli particolarmente efficienti. E sono lenti. Quando mi cacciavo nei guai da bambino, mia madre minacciava di mettermi in castigo finché non fosse arrivata la flotta...» Adam si accorge di stare parlando a vanvera, lascia la frase in sospeso e alza gli occhi su di noi. «A voi non importa di queste cose, giusto?»
«Diciamo che forse non è il momento migliore per rivangare i ricordi d’infanzia», rispondo, guardando Cinque che sale sull’astronave. «Ma cos’altro puoi dirci della flotta?»
«È in viaggio fin dai tempi della caduta di Lorien. Gli strateghi mog pensano che resti carburante a sufficienza per un ultimo assedio.»
«La Terra.»
«Sì. Poi il mio popolo si stabilirà qui. Forse ricostruirà la flotta, se Setrákus Ra trova un motivo valido.»
«Se trova altri pianeti abitati da conquistare, intendi dire.» Mi è sempre più difficile mantenere la calma.
Sam scrolla la testa, ancora meravigliato dall’enorme astronave. «Hanno un tallone d’Achille, vero? Come quel punto sulla Morte Nera che, se colpito, fa esplodere tutto.»
Adam aggrotta la fronte. «Cos’è la Morte Nera?»
Sam sospira. «Siamo nella merda.»
«Se li hanno presi prigionieri e li tengono a bordo di quell’astronave...» Non finisco di esprimere il pensiero, soprattutto perché non mi viene in mente nessuna soluzione. Conquistare una base mogadorian praticamente abbandonata è un conto; riuscire a salire a bordo di un’enorme astronave da guerra è tutt’altra storia. Soprattutto se quell’astronave sta lentamente prendendo quota. Forse ha ragione Sam, forse siamo spacciati.
Restiamo tutti e tre a guardare in silenzio l’astronave che decolla. Prima di sparire completamente dallo schermo, tremola per un istante. Poi scompare... be’, non del tutto: i contorni del veicolo sono ancora visibili, ma distorti, come se la luce s’incurvasse tutt’intorno, come quando si guarda un oggetto sott’acqua.
«Un dispositivo di occultamento», dice Adam. «Ce l’hanno tutte le astronavi da guerra.»
«Ehi, guardate il tablet: forse qualche buona notizia c’è.»
Mentre l’astronave ormai invisibile continua a innalzarsi, uno dei puntini sul tablet si allontana lentamente dagli altri. È Cinque. Dopo qualche secondo il puntino comincia a lampeggiare qua e là per lo schermo. Ora abbiamo due indicatori, due Garde, che saltellano in tutte le direzioni sulla mappa.
«Proprio come Ella», dice Sam, aggrottando la fronte.
Adam annuisce. «L’astronave da guerra sta tornando in orbita...»
«Quindi Ella è già a bordo di una di quelle cose», concludo. «L’hanno portata lassù.»
«E noi come ci arriviamo, lassù?» chiede Sam.
«Non dobbiamo arrivarci», risponde Adam. «Sarà la flotta a venire da noi.»
«Ah, giusto. L’invasione del pianeta.» Sam scrolla il capo. «Quindi dobbiamo aspettare che invadano?»
Sfioro il tablet con la punta del dito, indicando i tre puntini ancora in Florida. «Il piano è andare a prendere gli altri. Sono ancora lì. Dobbiamo soltanto...» M’interrompo quando torno a guardare lo schermo. «Pensavo che tu avessi sabotato la navicella. Perché si sta muovendo?»
Adam preme rapidamente una serie di tasti e fa abbassare la telecamera. Da quell’angolazione vediamo l’equipaggio mogadorian che, con grande fatica, spinge la navicella da ricognizione verso l’hangar.
«Evidentemente si sono arresi: non parte», osserva Sam.
Uno dei Mog corre avanti per aprire le porte di metallo: lì, fermi al centro dell’hangar vuoto, ci sono Nove, Marina e Sei.
Il grido entusiasta di Sam si smorza quando lui si rende conto che ci sono tre Garde anziché quattro, e che Nove porta in braccio una sacca per cadaveri. «Otto... Merda.»
Mi giro verso Adam: non sono ancora pronto a elaborare il lutto. «La navicella che hai hackerato ha dei cannoni?»