Quando sentiamo gli elicotteri e le macchine in arrivo, io e Nove ci precipitiamo fuori dalla casa, balziamo giù dalla veranda distrutta e ci mettiamo a correre sul prato, appena in tempo per vedere un lampo che solca il cielo, evocato da Sei. È uno sparo di avvertimento: fa saltare in aria un pezzo d’asfalto davanti a un SUV facendolo sbandare sul vialetto d’accesso.
«Di nuovo i federali?» ringhia Nove. «Pensavo che ce li fossimo tolti dalle scatole.»
«Adam dice che non vengono mai da queste parti, per via di qualche accordo coi Mog.»
«Evidentemente l’accordo non è più valido da quando li hai ammazzati tutti, John.»
Tre elicotteri volteggiano come avvoltoi sopra le nostre teste. Devono essersi scambiati un segnale, perché tutti e tre accendono un faro nello stesso istante. Uno dei fari punta su me e Nove, un altro sull’ingresso della casa dietro di noi e il terzo su Sei e Sam. Sotto la luce intensa vedo Sam rifugiarsi dentro l’abitacolo dello skimmer. Sei ha alzato le mani e sta evocando qualche fenomeno atmosferico per i nostri ospiti indesiderati: si rende invisibile prima che il faro possa inquadrarla bene.
Nel frattempo, incurante dei fulmini, una carovana di SUV neri imbocca il vialetto d’accesso, coi lampeggianti accesi sul cruscotto. Inchiodano l’uno accanto all’altro in formazione stretta, creando una barricata di vetro antiproiettile e lastre di acciaio rinforzato. Le portiere si spalancano e i veicoli vomitano un mucchio di agenti in giacche a vento blu scuro. Quelli che non strillano nei walkie-talkie ci puntano addosso le pistole, e tutti si riparano dietro le portiere aperte dei SUV. In meno di un minuto ci hanno circondati, intrappolandoci nel piazzale.
«Pensano davvero di fermarci in questo modo?» chiede Nove facendo un passo avanti, quasi a sfidare gli agenti a sparargli.
«Non so cosa pensino, ma non sanno delle chimere», dico.
Le percepisco appostate nell’ombra appena fuori dal vialetto. I federali pensano di averci accerchiati, ma gli occhi che vedo brillare nel buio li smentiscono. Le chimere restano in posizione aspettando un segnale.
Sento scricchiolare qualcosa dietro di me e girandomi vedo Marina sulla veranda: dalle sue mani spuntano ghiaccioli affilati come pugnali. Questa mi è nuova. Accanto a lei c’è Adam, che si ripara dietro l’uscio e imbraccia un fucile mog.
«Cosa facciamo?» chiede Marina.
Vedo addensarsi in cielo nubi di tempesta: Sei è pronta a scatenare un temporale. Ma finora gli agenti non hanno fatto nulla, a parte un mucchio di rumore. Non sono arrivati sparando, e questo è l’unico motivo per cui non ho ancora attivato il mio Lumen.
«Non voglio fare loro del male, se non è necessario», dico. «Ma non abbiamo tempo da perdere con queste stronzate. Di sicuro non mi farò portare in commissariato per un interrogatorio.»
A quanto pare, Nove interpreta le mie parole come un incentivo a passare all’azione. Afferra la base della sedia del dottor Anu, che è stata segata a metà dal fuoco dei fucili mog durante la battaglia di poche ore fa. Deve pesare quasi cento chili, ma Nove la solleva agevolmente con una mano sola e la fa roteare in aria, come dimostrazione di forza. «Siete in una proprietà privata! E non vedo mandati di perquisizione!» grida. Prima che io possa intervenire, scaglia in aria il pesantissimo oggetto, che finisce a pochi centimetri dal muso dell’elicottero più vicino.
È evidente, da dove mi trovo, che l’elicottero non corre pericoli concreti; ma suppongo che il pilota umano non sia abituato a vedersi lanciare pezzi di metallo da un Garde coi superpoteri. Tira indietro la cloche: l’elicottero prende quota ondeggiando in aria, e il cono di luce del faro spazza il prato a zig-zag. Il pezzo di sedia ricade con un gran tonfo in mezzo alla strada.
«Non era necessario», osserva Adam dalla soglia.
«Secondo me, lo era», ribatte Nove.
Mentre si china a raccogliere un altro pezzo della sedia, sento scattare le sicure delle pistole da dietro le portiere dei SUV. Deve averle sentite anche Sei, ovunque si sia nascosta, perché all’improvviso un banco di nebbia si estende sul prato delle Residenze Ashwood, rendendoci bersagli molto più difficili.
Accendo il Lumen e mi faccio avanti, piazzandomi tra Nove e i SUV. Alzo le mani per far vedere bene agli agenti che sono avvolte nelle fiamme. «Non so perché siate venuti, ma state commettendo un errore», grido, rivolto alle auto. «Questa è una battaglia che davvero non potete vincere. La cosa più intelligente da fare è tornare dai vostri superiori e dire loro che qui non avete trovato niente.»
Per sottolineare le mie parole, invio un comando telepatico alle chimere. Una serie di ululati riecheggia nel buio e riverbera sulle carrozzerie dei SUV. Presi dal panico, alcuni agenti puntano le pistole nell’ombra. Uno degli elicotteri dirige il faro sui campi che costeggiano il viale d’accesso. Li abbiamo spaventati.
«Ultimo avvertimento!» grido, producendo una sfera di fuoco grossa come un pallone da basket e facendola levitare sul palmo della mano.
«Abbassate le armi!» ordina una voce di donna da una delle macchine.
L’uno dopo l’altro, gli agenti eseguono l’ordine. Uno di loro passa tra due SUV e viene verso di noi con le mani alzate in segno di resa.
Attraverso la nebbia vedo che è una donna, riconosco la postura diritta e la severa coda di cavallo. «Agente Walker, è lei?»
Accanto a me Nove scoppia a ridere. «Non ci credo. Vuole provare ad arrestarci un’altra volta?»
Walker si avvicina con una smorfia di disappunto: sul suo viso ci sono più rughe di quante ne ricordassi. È pallida, e i capelli rossi sono venati di un grigio allarmante. Cerco di ricordare quanto gravemente fosse rimasta ferita alla base di Dulce. Potrebbe non essersi ancora ripresa del tutto?
Prima che Walker possa avvicinarsi troppo, Sei si materializza alle sue spalle e l’afferra per la coda di cavallo. «Non un altro passo», ringhia.
Walker sbarra gli occhi e si ferma.
Sei le sfila la pistola dalla fondina e la lascia cadere sull’erba.
«Mi spiace per il trambusto», dice Walker, con voce un po’ strozzata per la posizione in cui Sei la costringe a tenere la testa. «I miei agenti hanno visto atterrare quell’astronave mogadorian e pensavamo che foste sotto attacco.»
Lascio spegnere il Lumen sulle mani e la guardo perplesso. «Lei è corsa fin qui perché pensava che noi fossimo sotto attacco?»
«So che non hai ragione di credermi, ma siamo qui per aiutarvi», dice lei, con voce roca.
Accanto a me Nove fa uno sbuffo di derisione. Guardo fisso Walker, aspettando che riveli di avere fatto una battuta, o che ordini ai suoi uomini di aprire il fuoco.
«Per favore, ascoltatemi.»
Sospiro e indico la casa. «Portala dentro», dico a Sei, poi mi volto verso Nove. «Se gli altri fanno qualcosa di minimamente sospetto...»
Nove fa schioccare le nocche. «Oh, lo so cosa devo fare.»
Sei spintona Walker su per i gradini rotti della casa di Adam e dentro la porta d’ingresso. Le seguo a qualche passo di distanza, lasciando gli altri nostri amici di guardia al piccolo esercito di agenti del governo.
«È un Mogadorian quello che ho visto qui fuori?» chiede Walker mentre Sei la conduce in salotto. «Avete preso un prigioniero?»
«È un alleato», replico. «Al momento, la prigioniera è lei.»
«Capisco.» Senza che Sei debba spingerla, l’agente Walker si lascia cadere su uno dei divani. Alla luce del salotto vedo che c’è effettivamente qualcosa di strano in lei. Forse è per le ciocche grigie, ma sembra esausta. Nota la porta che conduce alle gallerie dei Mogadorian, ma non sembra particolarmente interessata o sorpresa.
«Ah, abbiamo un’ospite», dice Malcolm, fermandosi sulla soglia tra il salotto e la cucina, col fucile in spalla. «E si è portata diversi amici. Va tutto bene?»
«Non lo so ancora», rispondo con voce tesa, tenendo alta la guardia.
Sei gira intorno al divano per posizionarsi dove Walker non può vederla.
«Stavo per mettere su il caffè. Qualcuno lo prende?» chiede Malcolm. «Mi è sembrato di vedere anche del tè, in cucina.»
Walker accenna un sorriso. «È il metodo del poliziotto buono e di quello cattivo, per caso?» Sposta gli occhi da Malcolm a me. «È uno dei vostri... come li chiamate? Cêpan?»
Sei alza la mano rivolta a Malcolm. «Vorrei un caffè, sì.» La guardo storto e lei fa spallucce. «Che c’è? Posso bere un caffè e mettere fuori combattimento la signora allo stesso tempo, se necessario.»
L’agente Walker si gira a guardarla. «Le credo.»
Avanzo, mi piazzo di fronte a Walker e le schiocco le dita davanti alla faccia. «Va bene, non perdiamo altro tempo. Dica quello che è venuta a dire.»
«L’agente Purdy è morto», annuncia Walker. «Ha avuto un infarto alla base di Dulce.»
«Ah, me lo ricordo», mormora Sei. «Che peccato...»
«Condoglianze.» Anch’io ricordo il collega dell’agente Walker, un uomo di mezz’età dai capelli bianchi e col naso adunco. Mi stringo nelle spalle: non vedo cosa c’entri con noi. «E allora?»
«Era uno stronzo», afferma Walker. «Il problema non è tanto il fatto che sia morto, ma quello che è successo dopo.» Mi mostra le mani e poi, molto lentamente, ne infila una nella tasca della giacca a vento. Ne estrae una busta formato A4 rigonfia, arrotolata e fermata con un elastico. L’apre e tira fuori una polaroid, che mi porge.
Mi ritrovo sotto gli occhi un primo piano del defunto agente Purdy... o quello che ne resta. Metà del volto si è sgretolata, ridotta in cenere sull’asfalto. «Mi sembrava che avesse parlato di un infarto.»
«Infatti.» L’agente Walker annuisce. «Ma poi ha iniziato a dissolversi. Come un Mogadorian.»
Scrollo la testa. «Perché?»
«Si sottoponeva a certi trattamenti», continua Walker. «Accrescimento, lo chiamano i Mog. Quasi tutti i ProMog di livello più alto lo fanno da anni.»
Il termine «ProMog» non mi è nuovo, mi ricorda Sono tra noi, ma non so cosa c’entri con gli accrescimenti di cui ci ha parlato Adam. «Mi racconti tutto dall’inizio», le dico.
Con aria imbarazzata, l’agente Walker si sistema i capelli, e per un attimo mi chiedo se si stia già pentendo della sua confessione. Ma poi mi porge la busta che ha in mano e mi guarda negli occhi. «Il primo contatto è avvenuto dieci anni fa. I Mogadorian affermavano di essere alla ricerca di alcuni fuggitivi. Volevano usare la rete delle forze dell’ordine, avere libertà di movimento nel Paese, e in cambio ci avrebbero fornito armi e tecnologie. Ero appena uscita dall’accademia, a quell’epoca, quindi non partecipavo alle riunioni con gli alieni. Il governo ha ceduto subito: immagino che non volesse farli arrabbiare, o che fosse interessato alle armi, le più potenti che avessimo mai visto. Lo stesso direttore dell’FBI ha partecipato ai negoziati. Questo prima che ricevesse una promozione. Forse è per questo che è stato promosso, a dire il vero.»
«Mi lasci indovinare», dico, ricordando il nome dal sito web di Mark. «Il vecchio direttore era Bud Sanderson. Oggi segretario della Difesa.»
«Esatto.» L’agente Walker sembra favorevolmente colpita. «Se fate due più due, troverete un mucchio di gente che ha negoziato coi Mog dieci anni fa e che nel frattempo ha fatto molta carriera.»
«E il presidente?» chiede Sei.
«Quello lì?» Walker fa uno sbuffo di derisione. «Un pesce piccolo. I funzionari eletti, quelli che tengono i discorsi in televisione, ci mettono solo la faccia. Il vero potere è nelle mani delle persone che vengono selezionate per lavorare dietro le quinte. Quelle che non avete mai sentito nominare. Quelle che i Mog volevano e che hanno lasciato vivere.»
«Ma è comunque il presidente», ribatte Sei. «Perché non fa qualcosa?»
«Perché viene tenuto all’oscuro di tutto. E comunque il vicepresidente è un ProMog. Quando sarà il momento, il presidente dovrà dare retta ai Mog, altrimenti verrà rimosso.»
«Ma che diavolo è un ProMog?» chiedo.
«Un fautore del progresso mogadorian», spiega Walker. «È così che chiamano la ’intersezione delle nostre due specie’.»
«Agente, se mai decidesse di cambiare lavoro, conosco un sito per il quale potrebbe scrivere», le dico, mentre inizio a sfogliare i documenti nella busta. Ci sono le specifiche tecniche dei fucili mog, trascrizioni di conversazioni tra politici, foto di tizi del governo dall’aria importante che stringono la mano ai Mog in divisa da ufficiali. È il genere di rivelazioni per cui un sito come Sono tra noi sarebbe disposto a uccidere.
In realtà molta di quella roba era già sul sito di Mark. È stata Walker a passargli le informazioni?
«Quindi il suo capo ha svenduto l’umanità in cambio di qualche nuova arma?» chiede Sei, sporgendosi dallo schienale del divano per scoccare un’occhiataccia all’agente Walker.
«In pratica, è così. Non siamo stati l’unico Paese a stringere l’accordo, comunque», continua Walker, in tono amareggiato. «E loro sapevano come tenerci stretti. Dopo le armi hanno iniziato a promettere nuovi ritrovati della medicina. Accrescimento genetico, lo chiamavano. Affermavano di poter curare qualsiasi malattia, dall’influenza al cancro. In pratica, promettevano l’immortalità.»
Alzo gli occhi dai documenti, soffermandomi sulla foto di un soldato con la manica rimboccata e le vene dell’avambraccio annerite come se il sangue si fosse trasformato in fuliggine. «Come funziona questa roba?» chiedo, indicando la foto.
Walker si sporge a osservare l’immagine, poi mi guarda negli occhi. «Quello che vedi è l’effetto di una settimana di astinenza dalle iniezioni dei Mogadorian. Ecco come funziona.»
Mostro la foto a Sei, che scrolla la testa disgustata.
«Vi uccidono lentamente», dice Sei. «Oppure vi trasformano in Mog.»
«Non sapevamo in cosa ci stessimo cacciando», replica Walker. «Ma vedere Purdy disintegrarsi così ha aperto gli occhi a più di una persona. I Mog non sono i nostri salvatori. Ci stanno trasformando in qualcosa di non umano.»
«Eppure continuate a fare affari con loro, no?» ribatto. «Ho sentito dire che qualcuno sta cercando di far sapere all’opinione pubblica che alcuni Mogadorian sono stati catturati, ma qualcun altro insabbia la notizia.»
Walker annuisce. «I Mog affermano che i loro accrescimenti genetici non faranno che diventare più efficaci col tempo. Molti dei pezzi grossi di Washington vogliono continuare i trattamenti. Evidentemente non hanno mai visto un essere umano sbriciolarsi. Sanderson e alcuni degli altri ProMog nelle alte sfere hanno già iniziato a ricevere trattamenti più avanzati. In cambio, i Mog vogliono solo che continuiamo a cooperare.»
«’Cooperare’ in che modo?»
L’agente Walker inarca un sopracciglio. «Se non l’hai ancora capito, allora ho scelto la squadra sbagliata e siamo spacciati davvero.»
«Forse, se lei avesse scelto la squadra giusta anni fa, invece di aiutarli nella loro caccia ai ragazzini...» Incrocio lo sguardo di Sei e cerco di calmarmi. «Lasciamo stare. Ma sappiamo che stanno arrivando. Non si nascondono più nelle ombre o in periferia. Arrivano in massa, giusto?»
«Sì. E si aspettano che consegniamo loro le chiavi del pianeta.»
Malcolm torna dalla cucina con due tazze di caffè. Ne porge una a Sei e una a Walker, che sembra sorpresa ma grata.
«Mi scusi, ma come funzionerà?» le chiede Malcolm. «In una situazione d’incontro ravvicinato con gli alieni, si diffonderà sicuramente il panico.»
«Hanno quelle facce pallide e mostruose», interviene Sei. «La gente si spaventerà a morte.»
«Non ne sarei tanto sicura», ribatte Walker, indicando con la tazza la cartelletta che ho ancora in mano.
Dopo avere sfogliato un altro paio di pagine, arrivo a una serie di fotografie. Due tizi in giacca e cravatta pranzano in un ristorante di lusso. Il primo è vicino alla settantina, ha i capelli grigi e stempiati e la faccia di un gufo: è Bud Sanderson, il segretario della Difesa, ho visto la sua foto sul sito di Mark. L’altro, un distinto signore di mezz’età che somiglia vagamente a un attore famoso, non l’ho mai visto. Porta qualcosa al collo, quasi nascosto dalla cravatta e dall’angolazione della fotocamera. Ma mi sembra di riconoscere quell’oggetto, quindi mostro la foto all’agente Walker. «Questo è Sanderson, ma l’altro chi è?»
«Non lo riconosci?» Walker scrolla il capo. «A quanto pare, ha almeno un paio di look diversi. Io non l’ho riconosciuto quando vi stava annientando alla base di Dulce: alto come una casa e con una frusta infuocata. Anzi proprio in quel momento ho deciso che essere una ProMog non faceva per me.»
Sgrano gli occhi e torno a guardare la foto. I ciondoli sono nascosti sotto la giacca, ma si vedono chiaramente tre catenelle al collo.
L’agente Walker annuisce. «Setrákus Ra, che stringe accordi di pace tra Mogadorian e umani.»
Sei gira intorno al divano e mi prende la foto dalla mano. «Maledetto mutaforma! Ha fatto tutto questo mentre noi eravamo in fuga. Ha messo in moto tutte queste macchinazioni mentre noi cercavamo di salvarci la pelle.»
«Per ora è in vantaggio lui, ma non è ancora finita», afferma Malcolm.
«Be’, il suo ottimismo è confortante», replica Walker, sorseggiando il caffè. «Ma sarà finita tra due giorni.»
«Perché, che succederà tra due giorni?» chiedo.
«Si riunisce l’Assemblea generale dell’ONU. Guarda caso il presidente non potrà partecipare, quindi al suo posto ci andrà Sanderson. E presenterà Setrákus Ra al mondo. Un capolavoro di astuzia politica: dirà che i piccoli cari alieni non vogliono farci del male. Verrà proposta una mozione per consentire alla flotta mogadorian di sbarcare sulla Terra, all’insegna del buon vicinato intergalattico. I leader mondiali che Sanderson ha già corrotto sosterranno la mozione. Credetemi, hanno la maggioranza. E una volta che sono arrivati, una volta che li lasciamo entrare...»
«Abbiamo visto una di quelle astronavi da guerra», dice Sei, guardandomi avvilita. «Sarebbe difficile abbatterle anche con un esercito già pronto alla battaglia.»
«Ma non ci sarà una battaglia», osservo, portando a termine il suo pensiero. «La Terra non opporrà resistenza. E, quando capiranno di avere lasciato entrare un mostro, sarà troppo tardi.»
«Proprio così», dice Walker. «Non tutti nel governo sono d’accordo con Sanderson. Circa il quindici per cento di agenti e soldati – di FBI, CIA, Agenzia di sicurezza nazionale, esercito... – è schierato coi ProMog. Si sono assicurati di avere molti amici potenti, ma la maggior parte della gente è ancora all’oscuro. Immagino che sia così anche negli altri Paesi. I Mog sanno quanti umani devono controllare per far riuscire la missione.»
«E voi cosa siete?» ribatto. «L’un per cento che oppone resistenza?»
«Meno, molto meno dell’un per cento. È una lotta impari se non si hanno i superpoteri, e... cos’era quella roba qui fuori, un esercito di lupi? Comunque, i miei uomini erano appostati intorno ad Ashwood in attesa di una possibilità di colpire, o... non lo so, di fare qualcosa. Quando vi abbiamo visti conquistare questo posto...»
«Va bene, ho capito», dico, interrompendola e mettendo da parte i documenti. «Le credo, anche se non mi fido completamente di lei. Ma cosa possiamo fare? Come li fermiamo?»
«Se ci mettessimo in contatto col presidente?» suggerisce Sei. «Dovrà pur essere in grado di fare qualcosa.»
«Il presidente è un uomo solo, e circondato di guardie», replica Walker. «Se anche riusciste a parlare con lui, a spiegargli la verità sugli alieni e a portarlo dalla vostra parte, ci sarebbero ancora tanti collaborazionisti pronti al colpo di Stato.»
La fisso: ho capito che ha già un piano e la sta solo tirando per le lunghe. «Sputi il rospo. Cosa vuole che facciamo?»
«Dobbiamo convincere le persone che non sanno ancora niente. E per riuscirci ci serve qualcosa di grosso», afferma l’agente Walker con assoluta calma, come se parlasse di portar fuori la spazzatura. «Vorrei che voi veniste con me a New York, assassinaste il segretario della Difesa e denunciaste Setrákus Ra.»