Guardo dalla finestra rotta, al primo piano di uno stabilimento tessile abbandonato: un vecchio, in jeans sporchi e con un impermeabile logoro, si siede davanti al portone dell’edificio di fronte, sbarrato da assi di legno, estrae dall’impermeabile una bottiglia in un sacchetto di carta marrone e inizia a bere. È metà pomeriggio, durante il mio turno di guardia; da ieri, quando siamo arrivati in questa zona abbandonata di Baltimora, quell’uomo è il primo essere vivente che vedo. È un posto silenzioso e deserto, ma è preferibile alla versione di Washington che ho visto nell’incubo di Ella. Per ora, non sembra che i Mogadorian ci abbiano inseguiti fin qui da Chicago.
Tecnicamente, però, non ne avevano bisogno. C’è già un Mogadorian tra noi.
Dietro di me, Sarah batte un piede a terra. Ci troviamo in quello che doveva essere l’ufficio del caposquadra: c’è polvere ovunque, le assi del pavimento sono rigonfie e ammuffite. Mi giro e la vedo osservare perplessa i resti di uno scarafaggio sulla suola della scarpa da ginnastica.
«Sta’ attenta, rischi di spaccare il pavimento e cadere di sotto», le dico, scherzando solo a metà.
«Era troppo chiedere che tutte le vostre basi segrete fossero superattici di lusso, vero?» replica lei, sorridendo.
Stanotte abbiamo dormito nella vecchia fabbrica, stendendo i sacchi a pelo sulle assi malmesse del pavimento. Siamo entrambi sudici, non facciamo una doccia da due giorni, e i capelli biondi di Sarah sono imbrattati di fango: ma ai miei occhi è ancora bellissima. Senza di lei al mio fianco avrei rischiato il crollo psichico dopo l’attacco a Chicago, quando i Mog hanno rapito Ella e distrutto l’attico.
A quel ricordo rabbrividisco. Mi allontano dalla finestra e vado verso di lei. «L’incertezza mi uccide», dico, scrollando la testa. «Non so cosa fare.»
Sarah mi accarezza il viso, cerca di consolarmi: «Almeno sappiamo che non faranno del male a Ella, se è vero ciò che mostra la visione».
Sbuffo. «Si limiteranno a lavarle il cervello e trasformarla in una traditrice, come...» Lascio la frase in sospeso, pensando agli altri amici scomparsi e al traditore con cui viaggiavano. Non abbiamo ancora notizie di Sei e degli altri, ma d’altronde non è facile mettersi in contatto: tutti i loro scrigni sono qui e, se anche provassero a raggiungerci con mezzi più tradizionali, non saprebbero dove trovarci, dato che siamo dovuti fuggire da Chicago.
L’unica certezza è che ho una nuova cicatrice sulla gamba, la quarta. Non fa più male, ma mi sembra di sentirne il peso. Se i Garde fossero rimasti separati, se avessimo mantenuto intatto l’incantesimo loric, la quarta cicatrice avrebbe simboleggiato la mia morte. Invece uno dei miei amici è morto in Florida e io non so chi, non so come, e non so cosa ne sia stato degli altri.
Dentro di me sento che Cinque è ancora vivo. L’ho visto nel sogno di Ella accanto a Setrákus Ra: è un traditore. Deve avere attirato gli altri in una trappola, e ora uno di loro non tornerà da noi. Sei, Marina, Otto, Nove... uno di loro non c’è più.
Sarah mi prende la mano, la massaggia per alleviare la tensione nei muscoli.
«Non riesco a smettere di pensare alla visione...» dico. «Avevamo perso. E adesso sembra che si stia avverando, che questo sia l’inizio della fine.»
«Non significa niente, e tu lo sai», replica Sarah. «Pensa a Otto: non c’era forse una profezia di morte sul suo conto? Ed è sopravvissuto.»
Mi astengo dal farle notare che potrebbe essere Otto quello che è stato ucciso in Florida.
«So che sembra terribile», continua lei. «E la situazione è brutta, John. Non posso negarlo.»
«Ottimo tentativo di consolarmi.»
Sarah mi stringe forte la mano e mi guarda sgranando gli occhi, per zittirmi. «Sono Garde. Continueranno a combattere e vinceranno. Devi crederci, John», mi dice. «Quand’eri in coma, a Chicago, non ti abbiamo dato per spacciato. Abbiamo continuato a lottare, e ne è valsa la pena. Proprio quando sembrava che tutto fosse perduto, tu ci hai salvati.»
Penso allo stato in cui versavano i miei amici quando mi sono risvegliato, a Chicago. Malcolm era in punto di morte e Sarah era gravemente ferita, Sam aveva quasi finito le munizioni e Bernie Kosar era sparito. Avevano tutti rischiato la vita per me.
«Mi avete salvato prima voi.»
«Sì, è vero. Perciò ora ricambia il favore e salva il nostro pianeta.» Lo dice come se fosse una cosa facile, e mi strappa un sorriso.
La tiro a me e la bacio. «Ti amo, Sarah Hart.»
«Ti amo anch’io, John Smith.»
«Be’, vi amo anch’io...»
Ci giriamo e vediamo Sam sulla soglia, con un sorriso imbarazzato stampato in faccia. Tiene in braccio un grosso gatto arancione, una delle sei chimere che il nostro nuovo amico mogadorian ha portato con sé, attirate dagli ululati di Bernie Kosar sul tetto. A quanto pare, il corno di cervo che BK ha trovato nello scrigno di Otto era una specie di totem per chimere, che le ha condotte da noi: la versione loric di un fischietto per cani, in pratica. Abbiamo raggiunto Baltimora passando per le strade meno trafficate, controllando di non essere seguiti. Durante il lungo viaggio, stipati nel furgone, abbiamo avuto il tempo di dare un nome ai nostri nuovi alleati. Questa chimera preferisce assumere la forma di un gatto grassottello, e Sam ha insistito perché la chiamassimo Stanley, come il vecchio alter ego di Nove. Se è ancora vivo, Nove sarà felicissimo di scoprire che un gatto ciccione e affezionatissimo a Sam è stato battezzato in suo onore.
«Scusate se vi ho disturbato», dice Sam.
«No, figurati», replica Sarah, e allunga un braccio verso di lui. «Abbraccio di gruppo?»
«Magari più tardi. Gli altri sono tornati e stanno sistemando tutto al piano di sotto.»
Annuisco, mi separo controvoglia da Sarah e vado a prendere il borsone con le nostre attrezzature. «Stanno avendo qualche problema?»
Sam scuote la testa. «Hanno dovuto accontentarsi di due piccoli generatori da campeggio. Coi soldi a disposizione non sono riusciti a trovare di meglio. Comunque l’elettricità dovrebbe bastare.»
«E la sorveglianza?» chiedo, tirando fuori dal borsone il tablet localizzatore e il suo caricabatterie.
«Adam dice di non avere visto ricognitori mog», riferisce Sam.
«Be’, se c’è qualcuno capace di riconoscerli è lui», interviene Sarah.
«Vero», dico con poca convinzione, perché non mi fido ancora di quel cosiddetto «Mogadorian buono», anche se da quand’è comparso a Chicago non ha fatto altro che aiutarci. Ancora adesso, mentre lui e Malcolm installano i nostri nuovi apparecchi elettronici nella fabbrica al piano di sotto, provo un certo disagio all’idea che uno di loro sia così vicino. Ma scaccio quel pensiero. «Andiamo.»
Seguiamo Sam giù per un’arrugginita scala a chiocciola e arriviamo al piano terra, nella fabbrica vera e propria. Devono averla chiusa in tutta fretta, perché lungo le pareti ci sono ancora stand pieni di completi maschili in stile anni ’80, e sui nastri trasportatori ci sono scatoloni abbandonati che contengono impermeabili.
Una chimera in forma di golden retriever, che abbiamo chiamato Biscuit su insistenza di Sarah, ci passa davanti stringendo tra i denti la manica strappata di una giacca: è impegnato in un tiro alla fune con Dust, l’husky grigio. Un’altra chimera, Gamera, che Malcolm ha chiamato così in onore del mostro protagonista di vecchi film giapponesi, tenta di rincorrere gli altri ma fatica a tenere il passo, avendo assunto la forma di una tartaruga. Le altre due nuove chimere – un falco che abbiamo chiamato Regal e un procione tutto pelle e ossa di nome Bandit – assistono al gioco da sopra un nastro trasportatore fermo.
È un sollievo vederli giocare. Le chimere non erano in ottima forma quando Adam le ha liberate dai laboratori mogadorian, e non stavano ancora bene quando le abbiamo portate a Chicago. C’è voluto del tempo, ma sono riuscito a curarle con la mia Eredità di guarigione. C’era qualcosa dentro di loro, qualcosa di mogadorian, che sembrava opporsi ai miei poteri. A un certo punto mi si è addirittura attivato da solo il Lumen: non era mai successo durante una guarigione. Alla fine però, qualsiasi cosa i Mog avessero fatto a quelle creature, i miei poteri hanno avuto la meglio.
«Hai visto BK?» chiedo a Sam, cercandolo con lo sguardo. Lo avevo trovato sul tetto del John Hancock Center, dilaniato dal fuoco dei fucili mogadorian e vivo per miracolo. Lo avevo curato coi miei poteri, pregando che funzionassero. Ora sta meglio, ma lo tengo d’occhio ancora più del solito, probabilmente perché non so cosa ne sia stato di tanti altri amici.
«Laggiù», risponde Sam, facendo un cenno con la testa.
In fondo alla stanza, addossati a una parete coperta di graffiti, ci sono tre enormi bidoni che traboccano di pantaloni color cachi. In cima a uno dei mucchi c’è Bernie Kosar, che sembra trovare noiosi i giochi di Biscuit e Dust. Nonostante le mie cure è ancora debole, e gli manca un pezzo di orecchio, ma con la mia telepatia animale percepisco che è contento di vedere le altre chimere. Quando ci vede entrare scodinzola, alzando nuvolette di polvere dal mucchio di vecchi vestiti.
Quando Sam lo posa a terra, Stanley il gatto raggiunge BK sui mucchi di vestiti, che immagino siano stati adibiti a zona relax per i pisolini delle chimere.
«Non avrei mai pensato di avere una chimera tutta per me», dice Sam. «E di sicuro non mezza dozzina.»
«E io non avrei mai pensato di lavorare con uno di loro», replico, guardando Adam.
Al centro della fabbrica ci sono panche d’acciaio imbullonate al pavimento. Adam e il padre di Sam, Malcolm, stanno installando i computer che hanno appena comprato scambiandoli con alcune delle mie ultime gemme loric. Dato che nella vecchia fabbrica non c’è l’elettricità, hanno dovuto comprare piccoli generatori a batterie per i tre computer.
Guardo Adam, che sta collegando una delle batterie dei laptop – il pallore mortale, i capelli di un nero opaco e i lineamenti spigolosi gli conferiscono un’aria leggermente più umana rispetto agli altri Mogadorian –, e ricordo a me stesso che è dalla nostra parte. Sam e Malcolm sembrano fidarsi di lui; e poi ha un’Eredità, il potere di generare onde d’urto, che gli deriva da Uno. Se non l’avessi visto coi miei occhi, non l’avrei ritenuto possibile. Una parte di me vuole credere – forse ha bisogno di credere – che un Mog non potrebbe rubare un’Eredità, che debba prima dimostrarsene degno. Devo credere che sia accaduto per un motivo.
«Umani, Loric, Mog... in pratica siamo al primo summit delle Nazioni Unite Intergalattiche», mi dice Sam mentre raggiungiamo gli altri. «È un evento di portata storica.»
Sbotto in una risata e mi avvicino al computer portatile che Adam ha appena finito di collegare. Lui mi guarda e deve intuire qualcosa – forse non sono molto bravo a nascondere le mie perplessità – perché abbassa lo sguardo e si fa da parte, lasciandomi spazio e spostandosi sul computer successivo. Tiene gli occhi fissi sullo schermo e digita velocemente.
«Com’è andata?» chiedo.
«Abbiamo trovato quasi tutte le apparecchiature che ci servivano», risponde Malcolm mentre armeggia con un router wireless. Nonostante la barba lunga ha un’aria molto più sana rispetto a quando l’ho conosciuto. «Ci sono novità?»
«Nessuna», dico, scuotendo la testa. «Ci vorrebbe un miracolo perché i Garde in Florida ci rintracciassero. Ed Ella... continuo a sperare di sentire in testa la sua voce che mi dice dove l’hanno portata, ma non si è messa in contatto.»
«Una volta collegato il tablet, sapremo almeno dove si trovano gli altri», osserva Sarah.
«Con la roba che abbiamo comprato, penso che riusciremo a introdurci nella rete telefonica del John Hancock», spiega Malcolm. «In questo modo, se provano a chiamarci lì, possiamo intercettare la chiamata.»
«Buona idea.» Collego il tablet bianco al computer e aspetto che si accenda.
Malcolm si sistema gli occhiali sul naso e si schiarisce la voce. «In realtà è stata un’idea di Adam.»
«Ah...» ribatto, in tono inespressivo.
«È davvero una buona idea», interviene Sarah. Si siede accanto a Malcolm e si mette al lavoro sul terzo computer, scoccandomi un’occhiata come a dire che dovrei provare a essere più gentile con Adam.
Non reagisco, e nella stanza cala un silenzio imbarazzato. Ci sono stati molti silenzi così, da quando abbiamo lasciato Chicago.
Prima che l’imbarazzo aumenti troppo, il tablet si accende.
Sam si avvicina a guardarlo da sopra la mia spalla. «Sono ancora in Florida.»
Sullo schermo del tablet c’è un singolo puntino che lampeggia sulla costa est – quello sono io – e, molto più a sud, i quattro puntini dei Garde superstiti. Tre dei puntini sono raggruppati, praticamente sovrapposti, mentre il quarto è poco distante. Mi viene subito in mente una serie di possibili spiegazioni per quel puntino isolato. Uno dei nostri amici è stato catturato? Hanno dovuto separarsi dopo essere stati aggrediti? O forse è Cinque quello separato dagli altri. Questo dimostrerebbe che è un traditore, come diceva la mia visione?
Mi distraggo da quei pensieri quando vedo il quinto puntino sul tablet: è letteralmente a un oceano di distanza dagli altri. È sospeso sopra il Pacifico ed è un po’ meno luminoso degli altri.
«Dev’essere Ella», dico, perplesso. «Ma come...?»
Prima che io possa finire la domanda, il puntino di Ella tremola e scompare. Un istante dopo, senza lasciarmi neanche il tempo di andare nel panico, il puntino si riaccende: ora lampeggia sopra l’Australia.
«Ma che cavolo...?» Sam è stupito quanto me. «Si muove talmente in fretta... Forse la stanno trasportando da qualche parte.»
Il puntino svanisce di nuovo e riappare sopra l’Antartide, vicino al bordo esterno dello schermo del tablet. Per qualche secondo continua a spegnersi e riaccendersi, rimbalzando qua e là sulla mappa.
Picchietto sul bordo del tablet, demoralizzato. «Stanno alterando il segnale, chissà come. Non riusciremo a trovarla, finché continuano così.»
Sam indica gli altri puntini riuniti in Florida. «Se volevano fare del male a Ella, non gliene avrebbero già fatto?»
«Setrákus Ra la vuole», interviene Sarah, guardandomi.
Ho raccontato loro l’incubo che ho avuto a Washington, in cui ho visto Ella regnare con Setrákus Ra. Non riusciamo ancora a crederci, ma almeno ci dà un vantaggio: ora sappiamo cosa vuole Setrákus Ra.
«Detesto l’idea di lasciarla lì», dico, avvilito. «Ma non penso che le farà del male. Non ancora, almeno.»
«Almeno sappiamo dove sono gli altri», insiste Sam. «Dobbiamo andare laggiù prima che qualcun altro...»
«Sam ha ragione.» Ho il terribile presentimento che un altro di quei puntini possa spegnersi all’improvviso. «Forse hanno bisogno del nostro aiuto.»
«Penso che sarebbe un errore.» Adam parla in tono incerto, ma la sua voce ha ancora la cadenza aspra dei Mogadorian.
Stringo i pugni d’istinto: non sono abituato ad avere uno di loro sempre accanto. Mi giro e lo fisso. «Cos’hai detto?»
«Un errore», ripete lui. «È una mossa prevedibile, John. È la reazione a uno stimolo. È per questo che i miei simili vi trovano sempre.»
Muovo la bocca cercando di formulare una risposta, di resistere alla tentazione di prenderlo a pugni. Sto per fare un passo verso di lui quando Sam mi posa una mano sulla spalla.
«Calmati», sussurra.
«Vuoi che restiamo qui a girarci i pollici?» chiedo a Adam, cercando di mantenere la calma. So che dovrei ascoltarlo, ma con tutto quello che sta succedendo mi sento braccato. E ora dovrei accettare consigli da un tizio la cui specie mi dà la caccia da quando sono nato?
«Certo che no», risponde Adam, guardandomi con quegli occhi da Mogadorian, neri come la pece.
«E allora?!» sbotto. «Dammi un valido motivo per non andare in Florida.»
«Te ne do due. Primo, se gli altri Garde sono in pericolo, o sono stati catturati come tu sospetti, allora la loro sopravvivenza dipende dalla loro capacità di attirarti lì. Sono utili solo come esche.»
«Stai dicendo che potrebbe essere una trappola?»
«Se sono prigionieri, sì, certo che è una trappola. D’altro canto, se invece sono liberi, a cosa servirebbe il tuo eroico intervento? Non sono ben addestrati e perfettamente in grado di tirarsi fuori dai guai?»
È vero, no? Sei e Nove, forse i due tipi più tosti che conosco, non sono forse capaci di fuggire dalla Florida e trovarci?
E se invece sono laggiù ad aspettare che andiamo a prenderli? Scrollo la testa, e ho ancora voglia di strozzare Adam. «Allora nel frattempo cosa dovremmo fare? Starcene qui ad aspettarli?»
«Non possiamo lasciarli lì», interviene Sam. «Non hanno modo di trovarci.»
Adam gira il portatile per mostrarmi lo schermo. «Tra il rapimento di Ella e l’uccisione di un Garde in Florida, il mio popolo penserà di avervi messi in fuga. Non si aspetteranno un contrattacco.»
Visualizzate sul laptop ci sono le foto scattate da un satellite sopra un quartiere di periferia. Sembra un normalissimo sobborgo benestante, ma guardando più attentamente vedo che sull’alto muro di pietra che circonda la proprietà sono montate moltissime telecamere di sicurezza: una quantità che denota un’autentica paranoia.
«Sono le Residenze Ashwood, un complesso che sorge a pochi chilometri da Washington», continua Adam. «Ospitano gli alti funzionari mogadorian di stanza negli Stati Uniti. Ora che la struttura di Plum Island è distrutta, e le chimere sono state recuperate, penso che dovremmo sferrare un attacco lì.»
«E la base nelle montagne del West Virginia?» chiedo.
Adam scrolla la testa. «Quella è solo una base militare, tenuta segreta per poterci radunare le truppe. Ora come ora, sarebbe molto difficile invaderla. E comunque i veri Mogadorian purosangue, i leader, risiedono ad Ashwood.»
Malcolm si schiarisce la voce. «Ho cercato di riferire tutto ciò che mi hai detto sui purosangue, Adam, ma forse sarebbe meglio se lo spiegassi tu.»
«Non so da dove cominciare.»
«Puoi saltare tutta la parte sulle api e sui fiori mogadorian», dice Sam, sorridendo.
«Ha a che fare con le stirpi, giusto?» chiedo, per spronare Adam a parlare.
«Sì. I purosangue sono quelli che discendono da una stirpe in linea diretta: Mogadorian figli di Mogadorian. Come me.» Adam ha incurvato un po’ le spalle: non va molto fiero del suo status di purosangue. «Gli altri, frutto d’ingegneria genetica, sono i soldati contro cui avete sempre combattuto. Non nascono da una madre ma in laboratorio, grazie alla scienza di Setrákus Ra.»
«È per questo che si disintegrano?» domanda Sarah. «Perché non sono... be’, non sono veri Mog?»
«Sono selezionati per combattere, non per essere seppelliti», afferma Adam.
«Non si direbbe una gran bella vita», commento. «E voi Mog venerate Setrákus Ra per questo?»
«Stando ai racconti contenuti nel Grande Libro, il nostro popolo era in via d’estinzione quand’è arrivato il cosiddetto Benevolo Condottiero. L’ingegneria genetica di Setrákus Ra ha salvato la nostra specie.» Adam tace per un momento, sembra rifletterci, fa un sorriso amaro. «Naturalmente è stato Setrákus Ra a scrivere il Grande Libro, quindi...»
«Affascinante», commenta Malcolm.
«Decisamente più di quanto ci tenessi a saperne sulla riproduzione dei Mogadorian», dico io, tornando a guardare il computer. «Se questo posto pullula di pezzi grossi, non sarà anche pieno di guardie?»
«Sì, ce ne saranno, ma non abbastanza da fare la differenza», risponde Adam. «I Mogadorian si sentono al sicuro lì. Sono abituati a essere i cacciatori, non le prede.»
«E allora?» ribatto. «Uccideremo qualche Mog purosangue... Tutto qui?»
«Una riduzione anche minima del numero di purosangue avrà serie conseguenze sulle attività dei Mogadorian: i soldati creati in laboratorio non sono molto bravi a organizzarsi da soli.» Adam passa un dito sull’immagine dei prati perfettamente rasati delle Residenze Ashwood. «E poi sotto queste case c’è una rete di gallerie.»
Malcolm gira intorno al tavolo e si sofferma a guardare le immagini, a braccia conserte. «Pensavo che tu avessi distrutto quelle gallerie, Adam.»
«Le ho danneggiate, sì. Ma si estendono molto al di là della zona in cui eravamo noi. Neppure io sono sicurissimo di cosa potremmo trovare laggiù.»
Sam sposta lo sguardo sul padre. «È lì che...?»
«È lì che mi tenevano prigioniero.» Malcolm annuisce. «È lì che mi hanno strappato i ricordi. Ed è lì che Adam è venuto a salvarmi.»
«Forse scopriremo come ripristinare i tuoi ricordi.» Adam sembra davvero impaziente di aiutare Malcolm. «Se le apparecchiature non sono troppo danneggiate.»
Dice cose sensate, ma non riesco ad ammetterlo. È tutta la vita che scappo, mi nascondo dai Mogadorian, combatto contro di loro, li uccido. Mi hanno portato via tutto. E ora eccomi qui, a progettare battaglie insieme con uno di loro. Non mi sembra giusto, ecco. E stiamo parlando di un attacco frontale a una base dei Mog, in cui io sarei l’unico Garde.
Dust va ad accucciarsi ai piedi di Adam, che si china ad accarezzarlo distrattamente dietro le orecchie.
Se gli animali si fidano di lui, non dovrei potermi fidare anch’io?
«Qualsiasi cosa troviamo in quelle gallerie, sono sicuro che ci permetterà di scoprire molto sui loro piani», prosegue Adam, che probabilmente ha capito di non avermi ancora convinto. «Se i tuoi amici sono stati catturati o sono inseguiti, lo sapremo con certezza quando mi sarò infiltrato nei sistemi mogadorian.»
«E se uno di loro muore mentre noi siamo impegnati in questa missione?» chiede Sam, e a quel pensiero gli s’incrina la voce. «Se muoiono perché non siamo andati a salvarli quando ne avevamo la possibilità?»
Adam annuisce. «So che è difficile per voi», dice, spostando lo sguardo tra me e Sam. «Ammetto che è un rischio calcolato.»
«Rischio calcolato?» ribatto. «È dei nostri amici che stai parlando.»
«Sì. E sto cercando di non lasciarli morire.»
Razionalmente so che è vero, che Adam vuole aiutarci. Ma sono sotto stress, e mi hanno sempre insegnato a non fidarmi di quelli come lui. D’istinto, senza riflettere, faccio un passo verso di lui e gli pianto un dito sul petto. «Spero per te che ne valga la pena. E se in Florida succede qualcosa...»
«Me ne assumerò la responsabilità», dichiara Adam. «Sarà colpa mia. Se mi sbaglio, John, puoi ridurmi in polvere.»
«Se ti sbagli, probabilmente non ne avrò bisogno», replico, fissandolo negli occhi.
Lui non abbassa lo sguardo.
Sarah fischia per richiamare l’attenzione di tutti. «Se riuscite a mettere da parte per un momento le pose da macho, credo che dovreste guardare qui.»
Giro intorno a Adam, cercando di calmarmi, e guardo il sito web che Sarah ci sta indicando.
«Cercavo notizie su Chicago e mi è apparso questo», spiega lei.
Il nome del sito è Sono tra noi. Ha i titoli tutti in stampatello e un mucchio di GIF animate a forma di disco volante. Nella sezione degli Articoli più letti, una serie di link di un colore verde neon che nelle intenzioni, immagino, dovrebbe far pensare agli alieni, ci sono: I MOGADORIAN INSIDIANO IL GOVERNO e I PROTETTORI LORIC DELLA TERRA COSTRETTI A NASCONDERSI. La pagina che Sarah ha aperto contiene una foto del John Hancock Center in fiamme, sotto il titolo: ATTACCO MOG A CHICAGO: L’ORA ZERO È ARRIVATA?
«Oddio, vi prego, non questi svitati», mugugna Sam.
«Cos’è questa roba?» chiedo a Sarah, strizzando gli occhi per leggere l’articolo.
«Questa gente scriveva su giornaletti fotocopiati in bianco e nero... Ora sono anche su Internet?» continua Sam. «Non so se è meglio o peggio.»
«I Mog li hanno uccisi», gli faccio notare. «Come fanno a esistere ancora, in qualsiasi forma?»
«Evidentemente c’è un nuovo direttore», risponde Sarah. «Guarda qui.» Entra negli archivi del sito e recupera il primissimo articolo pubblicato. Il titolo dice: ATTACCO ALLA SCUOLA DI PARADISE: L’INVASIONE ALIENA È INIZIATA. Sotto c’è una foto sgranata, fatta con un cellulare, delle macerie intorno al campo da football del liceo. Scorro rapidamente l’articolo: la quantità di dettagli è impressionante. È come se chi l’ha scritto si fosse trovato lì con noi.
«Chi è JOLLYROGER182?» chiedo, leggendo il nome dell’autore.
Sarah mi guarda con uno strano sorriso.
«Non è la bandiera dei pirati, Jolly Roger?» domanda Sam.
«Sì», risponde Sarah. «Come i Pirates, la squadra di football della scuola di Paradise. Il cui vecchio quarterback, guarda caso, è una delle poche persone esterne al nostro gruppo che sanno cos’è successo alla scuola.»
«Non è possibile...» mormoro, sbalordito.
«Invece sì. Penso proprio che JOLLYROGER182 sia Mark James.»