Impieghiamo circa mezz’ora a scalare la piramide maya. Cerco di far passare il tempo contando i gradoni, ma verso i duecento perdo il conto. In alcuni punti si sono sgretolati, altrove la pioggia ha eroso la pietra creando veri e propri scivoli. Nei tratti più difficili ci reggiamo ai rampicanti, scalando la parete con mani e piedi. Non parliamo molto, se non per avvertirci di un passaggio pericoloso. Ci sembra quasi maleducato disturbare il silenzio del Santuario.
Arrivati in cima, ci fermiamo per riposare. Siamo sudati, per il caldo e per l’arrampicata, e Marina anche per lo sforzo di trasportare così a lungo con la telecinesi il corpo di Otto.
Adam si guarda intorno, con le mani sui fianchi. «Bel panorama.»
«È davvero bello.» Poso lo scrigno che ho portato con me e mi sgranchisco le dita.
Da quassù, più in alto delle chiome degli alberi, si possono vedere, oltre il bosco che circonda la piramide, oltre l’anello di terra diboscato dai Mog, le altre rovine maya e la giungla che ricomincia più in là. Immagino un antico sovrano che ispeziona il regno dalla cima di questa piramide. E poi immagino lo stesso sovrano che volge gli occhi al cielo e vede un’astronave loric discendere dalle nubi. L’immagine mi appare reale e vivida: ho la strana sensazione che non se la sia inventata il mio cervello. Secoli fa, qualcosa del genere è accaduto davvero: i Loric sono venuti qui, e il Santuario se lo ricorda.
«Ehi, ragazzi», ci chiama Marina. «Guardate qui.»
Io e Adam c’incamminiamo sulla sommità del tempio. Al centro esatto c’è una porta. Sulle prime mi sembra che sia intagliata nella stessa pietra chiara del resto della piramide, ma avvicinandomi vedo che la superficie è levigata e uniforme: il materiale color avorio sembra più recente del resto del tempio. La porta è lì da un bel po’ di tempo, ma è chiaro che è stata inserita in cima a una piramide già esistente.
Non conduce da nessuna parte, come Marina appura girandole intorno. Il suo ciondolo fluttua a mezz’aria davanti alla porta, aspettando che lo raggiungiamo.
Mi fermo davanti alla porta e ne esamino la superficie. È perfettamente liscia, non ci sono maniglie o pomelli: ma al centro ci sono nove tacche rotonde disposte in un circolo.
«I ciondoli...» Passo le dita sulla pietra fredda.
Marina raccoglie il ciondolo sospeso in aria e lo inserisce in una delle tacche. S’incastra alla perfezione, emettendo uno schiocco secco. La porta però non si muove.
«Ne abbiamo solo tre», dico, contrariata. «Non bastano.»
«Dobbiamo almeno provarci.» Marina si sfila l’altro ciondolo.
Ha ragione: siamo arrivati fin qui, non avrebbe senso rinunciare proprio ora. Mi sfilo il ciondolo di John e lo infilo in un’altra delle tacche sulla porta.
Immediatamente le pietre di loralite iniziano a brillare con la stessa energia del campo di forza. La luminescenza si propaga da una pietra all’altra e riempie gli spazi vuoti in cui dovrebbero trovare posto gli altri ciondoli. Il simbolo circolare che prende forma sulla porta mi fa pensare alle cicatrici che ci appaiono sulla caviglia quando uno dei Garde muore.
E poi, con un possente cigolio, la porta di pietra scorre verso il basso rientrando nel tempio e lasciandosi indietro solo un sottile telaio, attraverso cui non si vede la giungla, bensì una stanza piena di polvere e rischiarata dal bagliore bluastro della loralite.
«Pensavo che ne servissero di più. Ne abbiamo inseriti meno della metà», dico.
«O forse il Santuario sa quanto bisogno abbiamo di entrare», ipotizza Marina.
«È una specie di portale», commenta Adam, osservando la stanza che si apre oltre il telaio nudo della porta. «Quello è l’interno del tempio?»
«Scopriamolo.» Raccolgo lo scrigno di Marina e varco la soglia.
Immediatamente mi assale quel senso di disorientamento che mi veniva ogni volta che Otto usava l’Eredità di teletrasporto, ma dura solo un istante. Batto le palpebre aspettando che gli occhi si abituino alla penombra. Il cambio repentino di pressione nell’aria mi fa stappare le orecchie. Ho l’impressione di avere appena attraversato un portale e di trovarmi ora al centro del tempio maya. O forse, dato che non sento più i rumori della giungla, siamo ancora più in profondità. Forse questo Santuario si trova sotto la piramide.
Quando anche Marina – seguita dal corpo di Otto – e Adam entrano dietro di me, la porta sparisce. Al suo posto non appare una via d’uscita, solo un muro di pietra calcarea, su cui però è intarsiato un circolo di tacche uguali a quelle che erano sulla porta. I nostri ciondoli cadono a terra, e io li raccolgo subito.
«Il Santuario...» mormora Marina.
«Quanto tempo fa l’hanno costruito?» chiede Adam.
«Non ne ho idea. Da secoli i Loric visitavano la Terra», rispondo distrattamente, guardandomi intorno. «Ecco cosa venivano a fare.»
«Si preparavano a questo giorno», soggiunge Marina, di nuovo con quella strana certezza nella voce.
«Cosa ci hanno lasciato, però?» chiedo, un po’ delusa. «Una stanza vuota?»
Il Santuario è una lunga stanza rettangolare dai soffitti alti e senza porte né finestre. È come se gli Antenati si siano teletrasportati all’interno di un blocco di roccia massiccia, siano riusciti chissà come a scavarne l’interno creando una stanza, e poi si siano dimenticati di arredarla. Dentro non c’è niente: venature lucenti di loralite percorrono il soffitto e le pareti formando disegni intricati che gettano in tutta la sala un riverbero azzurro. Mi sembra di riconoscere un disegno familiare in quelle linee e quelle spirali, ma non riesco a capire cosa sia.
«È l’universo», dice Adam. «Ed è... più ancora di quanto ne sappiamo noi. Le mappe stellari dei Mogadorian non comunicano tutte queste informazioni.»
Impiego un momento a capire cosa sta dicendo. Ma poi noto che le venature di loralite si addensano in alcuni punti formando circoli, e riconosco le varie costellazioni. Somiglia molto a un Macrocosmo, ma è più grande e copre un’area più estesa dell’universo. Trovo Lorien su una parete: il suo cuore pulsante di loralite brilla molto meno forte rispetto ad altri pianeti. «Casa nostra...» Tocco delicatamente Lorien con un dito. Vengo scossa da un brivido: la loralite sembra pulsare in risposta, quasi come se mi riconoscesse.
«Casa mia», dice Adam, in tono cupo, indicando un’area completamente priva di loralite, come uno spazio vuoto nell’universo lucente. «Un’oscurità minacciosa.»
«Quelle non sono le nostre case. Non più», dichiara Marina, e fa scorrere le dita sulla parete ripercorrendo la rotta seguita dalla nostra astronave, da Lorien alla Terra. «Adesso è questa la nostra casa.»
La Terra disegnata nella loralite brilla molto più intensamente di ogni altra sezione della parete. Marina la preme, e la loralite scricchiola e vibra. Qualcosa si sta muovendo sotto di noi. Polvere e terra si staccano dal soffitto, i granelli rilucono nella luce improvvisamente più intensa.
So che non dovrei avere paura – questo posto appartiene ai Loric, non ci farà del male – ma d’istinto mi addosso alla parete più vicina, perché all’improvviso il Santuario mi appare claustrofobico. Adam barcolla verso di me, con gli occhi sbarrati.
Con uno scricchiolio e uno stridore di pietra contro pietra, una sezione circolare del pavimento al centro della stanza si solleva: sembra quasi un altare. Quando quella piattaforma ci arriva all’altezza della vita, la stanza smette di tremare. È un cilindro di loralite pura, sormontato da una lastra di liscia pietra calcarea che sembra quasi un coperchio messo lì per proteggere quello che c’è sotto, qualsiasi cosa sia. Ci avviciniamo cautamente tutti e tre.
«Sembra che questo coperchio si possa togliere.» Tocco la lastra, senza provare a rimuoverla.
«Sembra quasi un pozzo», dice Adam, pensieroso. «Cosa pensate che ci sia, lì sotto?»
«Non riesco proprio a immaginarlo.»
Marina indica con un dito. «Guardate i disegni.»
Somigliano alle pitture rupestri che Otto ci aveva mostrato in India, ma sono intagliati direttamente sui fianchi del pozzo. Devo girare intorno al cilindro di loralite per vederli tutti.
Le sagome di nove persone sovrastano un pianeta che sembra la Terra; sotto di loro, in piedi sul pianeta, ci sono nove sagome più piccole. Una persona – non capisco se maschio o femmina – riversa il contenuto di una scatola in una buca nel terreno. Altre nove sagome, stavolta schierate in fila davanti a un castello, si oppongono all’avanzata di un’onda, o forse di un drago a tre teste.
«Altre profezie?» chiedo.
«Forse.» Marina si è fermata di fronte al disegno della persona con la scatola. «O forse sono istruzioni.»
«Secondo te, è qui che dobbiamo... consegnare alla Terra i nostri patrimoni ereditari?»
Marina annuisce. Posa delicatamente a terra il corpo di Otto, poi con la telecinesi fa scorrere di lato la lastra che chiude il pozzo.
La lastra cade a terra con un gran fracasso e si spezza. Dal pozzo s’innalza una colonna di luce azzurra, così luminosa che devo ripararmi gli occhi. Sembra un faro. Il calore che irradia mi penetra nelle ossa.
«Ma è...» Adam lascia la frase in sospeso. Nei suoi occhi scuri di Mogadorian riluce una profonda meraviglia.
Marina s’inginocchia davanti al proprio scrigno e lo apre. Con entrambe le mani estrae una manciata di gemme loric e le getta nel pozzo del Santuario. Le pietre luccicano e sprigionano lampi mentre le passano tra le dita e cadono nella colonna di luce. Tutta la stanza sembra farsi un po’ più luminosa. Le venature di loralite sulle pareti pulsano con maggiore intensità.
«Aiutami, Sei!» esclama Marina, in tono concitato.
Tiro fuori dallo scrigno il sacchetto di terra, lo apro e ne verso il contenuto nel pozzo. Nella sala polverosa si diffonde un aroma fragrante, il profumo di una serra, e la luce s’intensifica ancora di più. Marina getta nel pozzo anche le foglie e i rametti secchi. Nell’istante prima che si stacchino dalla sua mano, mentre sono inondati di luce, potrei giurare di vederli di nuovo verdi e vivi. Quando svaniscono nel pozzo, una brezza fresca si spande nella sala.
«Funziona», dico, anche se non so bene cos’è che stiamo facendo. So solo che mi fa sentire bene.
Una volta gettati nel pozzo tutti gli altri contenuti dello scrigno, tiro fuori il barattolo con le ceneri di Henri. Tolgo delicatamente il coperchio e lo svuoto nella luce. Le particelle di cenere brillano per un istante e poi ricadono nel pozzo in una spirale. Vorrei che John fosse qui per assistere alla scena.
Mi volto verso Marina e indico con un cenno il corpo di Otto. «Dobbiamo...?»
Marina scuote la testa. «Non sono ancora pronta.»
Mi guardo intorno per vedere se nella stanza è cambiato qualcosa. La luce del pozzo è intensa, quasi quanto il sole, ma non mi fa più male agli occhi. Le venature di loralite nelle pareti pulsano animate di energia. Il nostro scrigno è vuoto, le ceneri di Henri sono state disperse.
«Non c’è nient’altro da fare», dico a Marina. «È arrivato il momento.»
«I ciondoli, Sei. Dobbiamo consegnare i ciondoli.»
«Aspettate», interviene Adam, facendosi avanti per la prima volta. Ha assistito stupefatto a tutta la cerimonia, ma le parole di Marina lo hanno riscosso. «Se lasciate cadere i ciondoli lì dentro, non avremo modo di uscire da qui.»
Li tengo ancora tutti in mano. Li stringo forte e rifletto sul da farsi. «Dobbiamo avere fede, no?» Scrollo le spalle. «Dobbiamo credere che, qualsiasi cosa ci sia laggiù, qualsiasi cosa gli Antenati ci abbiano lasciato, ci mostrerà la strada per uscire.»
Marina annuisce. «Sì.»
Adam mi guarda per un momento, poi guarda la luce. Probabilmente tutte le cose che ha visto oggi sono in conflitto coi suoi istinti di Mogadorian. Ma dentro di lui abita anche un Garde. «E va bene, mi fido di voi.»
Stringo forte i ciondoli. Per quasi tutta la vita ho portato quell’amuleto al collo. Molte volte mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e per cosa combattevo. È stato orribile perdere due ciondoli, e non mi sono mai sentita completa se non ne avevo uno al collo. È una parte di me – di tutti noi – tanto quanto le cicatrici che portiamo alla caviglia. Ma è tempo di lasciarli andare.
Getto i tre ciondoli nel pozzo.
La reazione è immediata e accecante. La luce che esce dal pozzo diventa una supernova. Lancio un grido e mi riparo gli occhi, e penso che Marina e Adam facciano lo stesso. Dal fondo del pozzo risale uno strano rumore, come il battito di migliaia di ali o un minuscolo tornado sotterraneo. Poi un tonfo fortissimo, profondo, che mi rintrona nei denti. Qualche istante dopo, il tonfo si ripete.
Tum, tum. Tum, tum.
Il ritmo accelera, l’intensità aumenta. I tonfi si fanno regolari.
È un cuore che batte.
Non so quanto a lungo resto immersa in quella luce azzurra e pura, quanto a lungo continuo ad ascoltare il battito del cuore di Lorien. Potrebbero essere due minuti o due ore. È un’esperienza ipnotica e confortante.
Quando la luce inizia ad attenuarsi e il battito cala di volume e resta in sottofondo, ne sento quasi la mancanza. È come risvegliarsi da un sogno piacevole e non voler tornare alla realtà. Apro gli occhi e resto senza fiato: il corpo di Otto è sospeso in posizione eretta sopra il pozzo del Santuario, al centro della colonna di luce azzurra.
Afferro la mano di Marina. «Lo stai facendo tu?» chiedo, a voce più alta di quanto volessi.
Marina scuote la testa e mi stringe forte la mano. Ha le lacrime agli occhi.
Qualche passo dietro di noi, Adam è in ginocchio. Dev’essere caduto quando la luce brillava più forte. Tiene gli occhi fissi su Otto, completamente ipnotizzato.
«Guardate», dice Marina.
Vedo muoversi le dita di Otto. È stato solo un gioco di luce? No, deve averlo visto anche Marina, perché lancia uno strilletto e si copre la bocca con la mano libera, mentre con l’altra stringe più forte la mia.
Otto, sospeso in aria, muove le dita e scrolla le braccia e le gambe. Gira la testa di qua e di là come per sgranchirsi il collo. Poi apre gli occhi: sono di loralite pura, la stessa sfumatura di azzurro delle venature più profonde sulle pareti. Quando apre la bocca, gli esce dalle labbra un raggio di luce blu. «Ciao», dice, in una voce che non è quella del nostro amico. È melodiosa e suadente, e non l’avevo mai sentita prima.
È la voce di Lorien.