In un certo senso, abbiamo rapito Dale. Però a lui non sembra dispiacere. Si diverte un mondo, stravaccato sulla poppa della sua vecchia barca: beve dalla fiaschetta di liquore distillato clandestinamente e continua a squadrare senza vergogna me e Marina. L’imbarcazione è letteralmente tenuta insieme con nastro isolante e lacci da scarpe, e non possiamo accelerare troppo nei tortuosi canali delle paludi per paura di surriscaldare il motore. Ogni tanto Nove deve usare un secchio per svuotare lo scafo dall’acqua scura prima che si accumuli e ci faccia affondare. Non è un viaggio molto confortevole, però Marina resta convinta che Dale si sia imbattuto in un accampamento dei Mogadorian. Quindi, per ora, è lui la nostra guida.
Abbiamo scoperto che il barista del Trapper’s affitta le baracche intorno al locale a chiunque passi da quelle parti. Ce ne ha data una per pochi spiccioli, e ci ha offerto anche la cena: probabilmente pensava che il rifiuto di aiutarci gli avrebbe causato più problemi.
Convinti che Dale sarebbe scappato alla prima occasione, ieri notte abbiamo stabilito dei turni di guardia. Il primo turno è toccato a Nove, che si è seduto con Dale fuori dalla nostra casupola e l’ha ascoltato parlare di tutte le cose interessanti che aveva trovato nella palude.
Io e Marina ci siamo sdraiate fianco a fianco su un materasso lercio gettato sul pavimento della catapecchia, nella quale c’erano solo un fornello da campeggio, una lanterna a olio e un lavandino arrugginito. Considerando però che eravamo reduci da due giorni nelle paludi in cui non avevamo quasi chiuso occhio, devo dire che non stavo così comoda da un bel pezzo. Mi sono accorta che Marina non irradiava più il gelo che l’ha circondata sempre da quando Otto è stato ucciso. Ho pensato che si fosse addormentata, ma poi ha iniziato a bisbigliare al buio.
«Lo percepisco, Sei.»
«In che senso?» ho sussurrato, confusa. «Otto è...» Ho esitato, incapace di esprimere l’ovvio.
«Lo so che è morto. Ma sento ancora la sua... non so, la sua essenza, o qualcosa del genere. Mi sta chiamando. Non so perché, né come: so solo che sta succedendo e che è importante.»
Sono rimasta in silenzio. Mi sono ricordata che Otto ci aveva raccontato di avere incontrato un uomo anziano e misterioso, in India. Mi pare che si chiamasse Devdan. Aveva insegnato a Otto le arti marziali e poi era sparito nel nulla. Otto aveva trovato grande conforto nello studio dell’induismo: credo che l’avesse aiutato a superare la morte del Cêpan. Accidenti, forse c’è qualcosa di vero in tutte quelle storie sulla reincarnazione. Otto era certamente quello di noi con l’indole più spirituale: se c’è una persona che cercherebbe di mettersi in contatto con noi dall’aldilà, è certamente lui.
«Lo troveremo», ho sussurrato, ma non ne ero molto convinta. Ho ripensato alle parole di Nove durante la sua crisi di nervi: avevamo già perso la guerra e nessuno ce l’aveva detto. «Ma non so cosa faremo dopo.»
«Ci verrà rivelato quando sarà il momento», ha detto Marina in tono sereno, stringendomi forte la mano: per un attimo ho rivisto la ragazza affettuosa che conoscevo, e non la furiosa vendicatrice che dovevo sopportare da un paio di giorni a quella parte. «So che sarà così.»
E quindi stamattina siamo tornati nella palude. Gli alberi sono fitti su entrambe le sponde e spesso dobbiamo rallentare per aggirare radici contorte che si sono fatte strada nell’acqua. I rami s’intrecciano folti sopra le nostre teste, lasciando passare solo sprazzi di luce. Tronchi marci galleggiano sull’acqua, non sempre facilmente distinguibili dagli alligatori che infestano la palude. Se non altro, gli insetti hanno smesso di pungermi. Oppure sono io che non ci faccio più caso.
Marina sta a prua e guarda dritta davanti a noi; ha i capelli e il viso impregnati di umidità. Le fisso la schiena, mi chiedo se sia impazzita o se questa percezione sul corpo di Otto non possa essere la manifestazione di un’altra nuova Eredità. È in momenti come questi che ci farebbe davvero comodo un Cêpan: Marina fatica moltissimo a tenere sotto controllo l’Eredità di congelamento. Io e Nove non gliene abbiamo parlato; probabilmente Nove ha paura che lei gli stacchi la testa a morsi, mentre io spero che se Marina impara a tenere sotto controllo la rabbia riuscirà anche a governare i propri poteri.
Questo nostro ritorno alla palude può essere stato causato da una nuova Eredità potenzialmente incontrollabile, dal semplice intuito, dal bisogno di elaborare il lutto oppure da un autentico contatto col mondo degli spiriti. Forse da una combinazione di tutte queste cose.
Non importa, a dirla tutta. Tanto ormai siamo qui.
Sono passati solo pochi giorni da quando Cinque ci ha condotti in acque simili a queste. Eravamo tutti di umore più allegro, allora: ricordo Marina e Otto appiccicati l’una all’altro – c’era davvero qualcosa tra loro – e Nove che esultava e faceva lo stupido ogni volta che vedevamo un alligatore. Mi passo una mano tra i capelli, arruffati e impregnati di umidità dopo i giorni trascorsi in questo clima, e mi dico che non è il momento di abbandonarsi ai ricordi. Stiamo andando verso un pericolo, ma almeno stavolta ne siamo consapevoli.
«Quanto manca?» chiedo a Dale.
Si stringe nelle spalle. «Un’oretta.» È molto più a suo agio con noi di quanto lo fosse ieri sera. Probabilmente grazie al contenuto di quella fiaschetta.
«Ti consiglio di non fare scherzi», lo avverto. «Se ci prendi in giro, ti abbandoniamo quaggiù.»
Lui si tira a sedere un po’ più dritto. «Giuro che è vero, signora. Ho visto degli alieni pazzeschi, lì. Ci può scommettere.»
Nove, che ha finito di togliere l’acqua dalla barca, strappa la fiaschetta dalla mano di Dale. «Cosa c’è qui dentro?» chiede, annusandola. «Odora di solvente per vernici.»
«Be’, non è solo solvente», ribatte Dale. «Assaggia.»
Nove lo guarda con sufficienza e gli restituisce la fiaschetta, poi si gira verso di me. «Davvero ci fidiamo di questo tizio?» mi chiede a voce bassa, più per non farsi sentire da Marina che da Dale, seduto accanto a noi.
«Non solo di lui», rispondo, scoccando un’occhiata a Marina. «Lei percepisce qualcosa.»
«E da quando in qua...?» Nove lascia la domanda in sospeso, e per una volta riflette un momento prima di parlare. «Mi sembra ancora una pazzia.»
Prima che io possa replicare, Marina richiama la nostra attenzione con un cenno della mano. «Spegni il motore!» sibila.
Dale si riscuote e spegne il motore, ancora attento a non far arrabbiare Marina.
La barca continua ad avanzare in silenzio.
«Che c’è?» chiedo.
«C’è qualcuno laggiù.»
Lo sento anch’io. Un motore che singhiozza molto meno di quello di Dale, e a volume sempre più alto: si sta avvicinando. Ma non riusciamo a vedere l’altra barca, perché il canale su cui ci troviamo procede a zig-zag tra gli alberi.
«Circola altra gentaglia, quaggiù?» chiede Nove a Dale.
«A volte», risponde lui. Poi ci guarda come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «Ehi, aspettate. Siamo in pericolo? Non era nei patti.»
«Non c’è nessun patto», gli ricorda Nove.
«Zitti, ecco che arrivano», sbotta Marina.
Potrei renderci tutti invisibili. Sono tentata di prendere per mano Marina e Nove e usare la mia Eredità per dare l’impressione che ci sia solo Dale sulla barca. Ma non lo faccio. D’altronde Marina e Nove non sembrano avere molta voglia di tenersi per mano.
Se ci sono dei Mogadorian laggiù, vogliamo combattere.
Guardo una sagoma scura muoversi tra gli alberi e scivolare in acqua davanti a noi. È una barca a fondo piatto come la nostra, ma molto più elegante e probabilmente senza falle. Non appena ci vedono, anche loro spengono il motore.
La barca avanza ancora per trenta metri, la sua scia ci fa ondeggiare leggermente. Dentro ci sono tre Mog. Per via del caldo si sono tolti gli stupidi impermeabili di pelle nera e sono rimasti in canottiera: hanno le braccia pallidissime, i fucili e i pugnali sono chiaramente visibili sulle cinture. Mi chiedo cosa ci facciano lì in piena vista, e poi capisco che probabilmente cercano noi. Dopotutto la palude è il luogo in cui siamo stati avvistati per l’ultima volta. Questi sfortunati ricognitori mog devono essere stati inviati a perlustrare l’area.
Restiamo tutti immobili: noi fissiamo i Mog, e mi domando se ci riconosceranno nello stato in cui siamo; e i Mog fissano noi, senza accennare a riaccendere il motore e togliersi di mezzo.
«Amici vostri?» borbotta Dale.
La sua voce spezza quell’immobilità. All’unisono, due dei Mog imbracciano i fucili, il terzo si gira per riaccendere il motore. Io attivo la telecinesi e colpisco la prua della loro barca con tutta la forza che ho, facendola sollevare dall’acqua. Il Mog che stava accendendo il motore cade fuori bordo e gli altri due barcollano all’indietro.
Un istante dopo, Marina affonda la mano nell’acqua di palude. Uno strato di brina si espande sfrigolando verso l’imbarcazione dei Mog, che resta imprigionata nel ghiaccio.
Nove salta giù dalla nostra barca, corre con passo leggero sulla distesa di ghiaccio, afferra per il collo il Mog più vicino e insieme scivolano sul ponte inclinato verso poppa. Il secondo Mog alza il fucile e lo punta su Nove, che però non gli dà il tempo di sparare e gli scaraventa contro l’avversario che aveva tra le mani.
Il Mog che era caduto in acqua cerca d’issarsi sullo strato di ghiaccio creato da Marina. È un errore. Una stalagmite emerge dalla superficie impalandolo. Prima ancora che il Mog si sia tramutato in cenere, con la telecinesi strappo via quella spada di ghiaccio e la scaglio a infilzare uno degli altri due ricognitori. L’ultimo Mog sguaina il pugnale e si avventa su Nove, che però lo afferra per il polso, lo fa ruotare all’indietro e lo pugnala all’occhio con la sua stessa arma.
E così, in pochi istanti, è tutto finito. La battaglia è durata meno di un minuto. Per quanto disorganizzati possiamo sembrare, siamo ancora bravi a uccidere i Mog.
«Ah, questo sì che mi ha rimesso al mondo!» grida Nove, sorridendomi.
Sento qualcosa che cade in acqua alle mie spalle, e voltandomi vedo Dale nuotare freneticamente nell’acquitrino: si sta allontanando alla massima velocità consentita dalle braccia smilze e dall’ubriachezza. «Dove vai, idiota?»
Dale raggiunge un gruppo di radici coperte di fango che spuntano dall’acqua e ci si arrampica ansimando. Rimane a fissare me e gli altri, a occhi sbarrati. «Siete dei mostri!» grida.
«Non è una cosa molto carina da dire.» Nove ride mentre torna a passo cauto verso la barca di Dale: il ghiaccio evocato da Marina sta già iniziando a sciogliersi all’aria calda della Florida.
«Non rivuoi indietro la barca?» grido a Dale. «Pensi di tornare a nuoto fino al Trapper’s?»
«M’inventerò qualcosa che non richieda poteri da stregoni mutanti, grazie mille.»
Sospiro e alzo la mano per trascinarlo telecineticamente indietro fino alla barca.
Marina mi ferma posandomi un braccio sulla spalla. «Lascialo andare.»
«Ma abbiamo bisogno di lui per trovare la base.»
«Siamo già abbastanza vicini», replica Marina. «E poi...»
«Oh, merda!» c’interrompe Nove. Sta guardando il cielo, riparandosi gli occhi con la mano.
Marina annuisce. «Ci basterà seguire quella... cosa.»
All’improvviso sembra calare la notte. Alzo lo sguardo e vedo passare un’ombra sopra di noi, a coprire quella poca luce che filtrava tra i rami. Nell’intrico di foglie vedo solo la corazza lucente di un’astronave mogadorian che inizia la discesa. Non somiglia affatto alle navicelle a forma di disco volante che sono riuscita a far precipitare con qualche fulmine ben mirato: questa è un’astronave enorme, grande quanto una portaerei, dal cui ventre spuntano torrette rotanti armate con cannoni. Gli uccelli tutt’intorno fuggono spaventati.
Istintivamente prendo per mano Nove e Marina e ci rendo invisibili. Una barca piena di Mog è un conto, ma non credo che siamo pronti per un avversario del genere.
Gli occupanti dell’astronave non si accorgono della nostra presenza: rispetto a loro siamo piccoli e insignificanti come le zanzare della palude. Mentre la nave passa lentamente sopra di noi e piano piano la luce del sole torna a illuminarci, ho come la sensazione di essermi rimpicciolita. Di essere tornata bambina.
E poi ricordo quell’ultimo giorno su Lorien. Noi nove e i nostri Cêpan in corsa verso l’astronave che ci avrebbe portati sulla Terra. Le grida tutt’intorno a noi, il calore della città in fiamme, i colpi dei fucili che sibilavano nell’aria. Ricordo di avere guardato il cielo notturno e di avere visto astronavi identiche a quella che ora ci sta sorvolando: nascondevano le stelle, sparavano dai cannoni nelle torrette, aprivano le stive per lasciar cadere orde di piken assetati di sangue. Sopra le nostre teste, ora lo capisco, c’è una nave da guerra mogadorian. Quella che useranno per conquistare definitivamente la Terra.
«Sono arrivati», dico, col fiato mozzo. «Sta iniziando.»