Gradualmente, i sobborghi intorno a Washington iniziano a cambiare aspetto. Le case diventano più grandi e più lontane l’una dall’altra. Fuori dai finestrini del pick-up vediamo prati perfettamente rasati o parchi in miniatura con alberi piantati a intervalli ossessivamente regolari, progettati per nascondere agli sguardi indiscreti le case che ci sono dietro. Le strade laterali che si dipartono dalla principale hanno nomi prestigiosi come Oaken Crest Way o Goldtree Boulevard, e sono tutte protette da cartelli con scritto PROPRIETÀ PRIVATA.
Sul sedile posteriore, Sam fa un lungo fischio. «Non riesco a credere che vivano qui. Come miliardari.»
«Incredibile davvero», dico, stringendo il volante. Stavo pensando la stessa cosa, ma non mi andava di parlarne perché temevo che l’invidia mi trasparisse dalla voce. Ho passato tutta la vita in fuga, sognando di abitare in una casa come quelle: un posto tranquillo, stabile. Ed ecco i ricchi Mog purosangue fare la bella vita su un pianeta che vogliono solo sfruttare e poi distruggere.
«L’erba del vicino è sempre più verde», commenta Malcolm.
«Se può consolarti, loro non lo apprezzano», dice Adam a bassa voce. Sono le prime parole che pronuncia da quando siamo partiti per questi ultimi chilometri fino alle Residenze Ashwood, la sua vecchia casa. «Insegnano loro a non apprezzare ciò di cui non possono appropriarsi.»
«In che senso?» chiede Sam. «Cioè, se un Mogadorian andasse al parco...?»
«’Non si trae soddisfazione da ciò che non si può possedere’», recita Adam, e trattiene a stento un ghigno sprezzante. «È una citazione dal Grande Libro di Setrákus Ra. A un Mogadorian non importerebbe niente di un parco, Sam, a meno di non poter abbattere gli alberi.»
«Gran bel libro...» Lancio un’occhiata a Adam, accanto a me sul sedile del passeggero: sta guardando fuori dal finestrino, con gli occhi persi nel vuoto. Mi chiedo se la situazione gli appaia strana: praticamente sta tornando a casa.
Lui gira la testa, si accorge che lo guardo e sembra quasi imbarazzato. Assume subito un’espressione che mi è familiare: la fredda compostezza mogadorian. «Accosta qui», mi dice. «Manca solo un chilometro e mezzo.»
Parcheggio il pick-up sul ciglio della strada e spengo il motore. Il cinguettio incessante alle mie spalle sembra alzarsi di volume.
«Accidenti, ragazzi, calmatevi», dice Sam alle chimere eccitate nella gabbia posata tra lui e Malcolm.
Mi giro a guardarle: sono tutte in forma di uccelli. Regal, che a riposo ha la forma di un imponente falco, sta appollaiato accanto a un trio di volatili meno appariscenti: un piccione, una colomba e un pettirosso. Poi c’è un falco dal liscio piumaggio grigio che dev’essere Dust e un gufo sovrappeso che immagino sia Stanley. Tutti portano sottili collari di cuoio.
Questa è la fase uno del nostro piano.
«Funziona tutto?» chiedo a Sam.
Lui alza lo sguardo dal computer che ha sulle ginocchia e mi sorride. «Guarda un po’ qua», dice orgoglioso, girando il portatile verso di me.
Usare le chimere in questo modo è stata una sua idea. Sullo schermo scorrono diversi video sgranati, ciascuno dei quali mostra il mio viso da un’angolazione leggermente diversa. Le telecamere funzionano.
Durante il tragitto da Baltimora a Washington ci siamo fermati in un negozietto buio di nome SpyGuys, specializzato in telecamere e apparecchiature per la sicurezza domestica. Il commesso non ha chiesto a Malcolm perché volesse comprare una quindicina di telecamere wireless del modello più miniaturizzato: sembrava contento di fare buoni affari e ci ha anche spiegato come installare il software necessario su uno dei nostri computer. Poi abbiamo preso i collari in un negozio di articoli per animali. Gli altri hanno collegato le telecamere ai collari mentre io guidavo.
I Mogadorian si sono sforzati così tanto di sorvegliarci, di pedinarci. Ora tocca a loro.
«Sparpagliatevi intorno alle Residenze Ashwood», dico telepaticamente alle chimere, e invio loro un’immagine delle foto satellitari di Ashwood che studio da ieri. «Cercate di coprire tutte le angolazioni. Concentratevi soprattutto sui punti in cui si trovano i Mogadorian.»
Le chimere rispondono con cinguettii entusiasti e un gran battere d’ali.
Rivolgo un cenno del capo a Sam, che apre la portiera del pick-up. I sei uccelli-spia mutaforma spiccano il volo tutti insieme, in una nube di piume e penne. Per quanto difficile sia la nostra situazione, c’è qualcosa di bellissimo in questa scena: Sam è estasiato, e perfino Adam si concede un accenno di sorriso.
«Funzionerà», dice Malcolm, dando al figlio una pacca sulla schiena.
Il sorriso di Sam si allarga ancora di più.
Le immagini sullo schermo del computer lasciano disorientati: le chimere volteggiano in direzioni diverse. Le prime a raggiungere gli alberi si posizionano proprio sopra i cancelli in ferro battuto delle Residenze Ashwood, dai quali un muro di mattoni prosegue per qualche metro e poi, presumibilmente quando non è più visibile dalla strada, si trasforma in un inquietante recinto sormontato da filo spinato.
«Sentinelle», dico, indicando i tre Mogadorian: due seduti nella guardiola, uno che cammina avanti e indietro davanti al cancello stesso.
«Ce ne sono solo tre?» Sam fa spallucce. «Sarà una passeggiata.»
«Non si aspettano un attacco frontale. Né un attacco di nessun genere, a dire il vero», spiega Adam. «Sono lì principalmente per scacciare eventuali automobilisti che sbagliano strada.»
Mentre le altre chimere si posano sui tetti e sui rami degli alberi, le immagini dei video si mettono a fuoco fornendoci un’idea più chiara della struttura delle Residenze Ashwood. Dietro il cancello principale inizia un vialetto d’accesso, breve ma tortuoso, abbastanza scoperto. Da lì si arriva a un grande piazzale rotondo senza uscita, un’area ricreazione circondata da una ventina di case eleganti. A quanto pare, i Mogadorian hanno tavoli da picnic, campo da basket e una piscina. Sembrerebbe un idilliaco angolo di periferia, però non c’è nessuno in giro.
«Sembra tutto tranquillo», dico, guardando le immagini sullo schermo. «È sempre così?»
«No, c’è qualcosa di strano», ammette Adam.
Una delle chimere spicca il volo e si posa in un punto da dove possiamo vedere una delle case, che prima restava nascosta. Lì davanti è parcheggiato un camion dei rifiuti, col motore spento.
«C’è qualcuno.» Sam zooma su quella ripresa.
Un Mogadorian staziona accanto al camion, con aria annoiata, digitando qualcosa su un tablet.
Adam osserva attentamente i tatuaggi sulla sua testa rasata. «È un meccanico.»
«Come lo capisci?» chiedo.
«Dai tatuaggi. Quelli dei purosangue sono simboli d’onore e testimonianza dei successi riscossi. I Mog creati in laboratorio invece portano scritte sulla pelle le mansioni che svolgono. Così è più facile dare loro ordini.»
«Ce ne sono altri», osserva Sam.
Vediamo quattro guerrieri mog uscire dalla casa con un computer grosso come un frigorifero. Lo portano verso il ciglio della strada e lo posano davanti al meccanico, che inizia a girarci intorno per ispezionarlo.
«Si direbbe un server.» Malcolm si volta verso Adam. «È possibile che vogliano sostituire le macchine che hai distrutto?»
«Sì, può darsi», risponde Adam, ma non sembra sicuro. Indica una casa a due piani con veranda, a poca distanza da quella davanti alla quale lavorano i Mogadorian. «Quella era casa mia. So per certo che da lì si accede alle gallerie, ma è probabile che vi si acceda anche dalle altre case.»
Il tecnico finisce l’ispezione e scrolla la testa. Gli altri Mog sollevano il server, lo gettano nel cassone del camion dei rifiuti e rientrano in casa.
«A quanto pare, non fanno la raccolta differenziata», commenta Sam.
Prima che il gruppetto di Mog sia rientrato in casa ne escono altri, con un oggetto che somiglia a una sedia da barbiere uscita da un brutto film di fantascienza: al contempo futuristica e spaventosa, con grovigli di cavi penzolanti. Il tecnico si fa avanti per andare loro incontro, li aiuta a posare delicatamente la sedia sul prato davanti alla casa.
«La riconosco», dice Malcolm con amarezza.
Adam annuisce. «È la macchina del dottor Anu, quella che hanno usato su Malcolm. E su di me.»
«E ora cosa intendono farsene?» chiedo, guardando il meccanico che inizia l’ispezione.
«Sembra una squadra di recupero», spiega Adam. «L’ultima volta che sono stato qui ho inferto qualche danno alle gallerie. Ora stanno salvando i macchinari salvabili e si sbarazzano del resto.»
«E che ne è di tutti i purosangue che dovevano essere qui?»
Adam fa una smorfia di disappunto. «Potrebbero averli evacuati finché non rimettono in sesto questo posto.»
«Quindi siamo venuti fin qui per niente?» Il mio disappunto è palese.
«No. Se riusciamo a neutralizzare questa squadra prima che dia l’allarme, avremo accesso completo a quello che rimane di Ashwood», dice Adam. «Da lì possiamo entrare nella loro rete...»
«E arrivare dove?»
«È come se uno del mio popolo potesse aprire uno dei vostri scrigni, John. Conosceremo i loro segreti. I loro piani.»
«Saremo un passo avanti a loro.»
«Sì.» Adam annuisce, guardando il tecnico che esamina la macchina del dottor Anu. «Ma dobbiamo entrare lì dentro. Ciò che la squadra di recupero decide di distruggere potrebbe ancora tornare utile a noi.»
«C’è un ingresso segreto o qualcosa del genere?»
«A questo punto, penso che un attacco diretto sia la chance migliore che abbiamo», dice Adam, sostenendo il mio sguardo. «Per te va bene?»
«Sì.»
In origine avevamo progettato di usare la rete di sorveglianza composta dalle chimere per monitorare i movimenti dei Mog per un po’ di tempo, in modo da decidere l’approccio strategico migliore per l’attacco. Ma adesso che siamo qui non vedo l’ora di scendere in battaglia. Devo vendicarmi di tutto ciò che mi hanno fatto: hanno rapito Ella, hanno distrutto la casa di Nove, hanno ucciso uno dei miei amici. Se Adam dice che dobbiamo fare irruzione, io sono pronto.
Malcolm tira fuori una scatola da sotto il sedile. Ne estrae due auricolari, uno per me e uno per Adam, collegati ai due walkie-talkie che Sam e Malcolm useranno. M’infilo l’auricolare nell’orecchio, Adam fa lo stesso col suo.
«Dobbiamo temere la polizia locale?» chiede Malcolm. «Uno scontro a fuoco in pieno giorno potrebbe attrarre l’attenzione.»
Adam scuote la testa. «Le forze dell’ordine sono state corrotte», dice, poi guarda me. «Però dobbiamo fare in fretta e uccidere i Mog prima che possano chiamare i rinforzi. Se riesco a oltrepassarli e raggiungere la mia vecchia casa, dovrei essere in grado di sabotare i loro sistemi di comunicazione.»
Lego il pugnale loric al polpaccio, nascosto sotto la gamba del pantalone. Poi metto al polso il braccialetto rosso: la pietra ambrata al centro, capace di espandersi per formare uno scudo, brilla al sole di mezzogiorno. Immediatamente avverto una sensazione di gelo e una serie di punture di spillo: il braccialetto mi avverte che i Mog sono vicini. È naturale: ce n’è uno seduto accanto a me. La presenza di Adam darà un mucchio di problemi al mio senso del pericolo.
«Sei pronto?» gli chiedo.
Lui si sistema una fondina a tracolla, s’infila sotto le ascelle due pistole col silenziatore e annuisce.
«Ehi, aspettate!» esclama Sam. «Date un’occhiata a questo tizio.»
Io e Adam torniamo a guardare il computer: un altro Mogadorian sta uscendo dalla casa che il gruppo di recupero sta sgomberando. È alto, con le spalle larghe, più grosso degli altri e con un atteggiamento più autoritario. A differenza degli altri, porta un’enorme spada sulla schiena. Abbaia un ordine al meccanico e poi rientra in casa.
Quando mi giro a guardare Adam, lo vedo più pallido del solito. «Che c’è?»
«Niente», risponde lui, troppo in fretta. «Ma state attenti a quello lì. È un generale purosangue, uno degli uomini più fidati di Setrákus Ra. Ha...» Adam esita, guardando il punto dello schermo da cui il generale è appena sparito. «Ha ucciso dei Garde.»
Sento scaldarsi le mani. Se non fossi stato già pronto a combattere, lo sarei sicuramente ora. «È un uomo morto.»
Adam si limita ad annuire, apre la portiera e scende dal pick-up.
Mi volto verso Sam e Malcolm. «Io e Adam neutralizziamo le guardie. Voi ci coprite le spalle.»
«Va bene», dice Sam. «Guarderò il monitor e ti strillerò nell’orecchio quando vedo guai.»
Malcolm ha già tirato fuori dalla custodia il fucile di precisione. Gliel’ho visto usare in Arkansas, per salvarmi la vita. Non potrei chiedere di meglio che i Goode a guardarmi le spalle.
«State attenti, tutti e due», dice Malcolm, alzando la voce per farsi sentire da Adam.
Io e Sam battiamo il cinque. «Fategliela vedere», dice lui.
E poi scendo dal pick-up e mi metto a correre verso la roccaforte dei Mogadorian.
Adam mi affianca. «John... c’è un’altra cosa che devo dirti.»
Lo sapevo! Proprio mentre iniziavo ad abbassare la guardia con lui, proprio mentre stiamo andando in battaglia insieme, vuole cogliermi alla sprovvista.
«Che cosa?»
«Il generale Andrakkus Sutekh è mio padre.»