13.
L’editore-personaggio

Prima di quel pezzo di romanzo scritto a mano, avevo già tentato di scriverne un altro quando avevo sofferto il primo episodio di depressione. Era successo all’incirca nove anni prima della grave crisi del 1999.

Alla fiera di Francoforte del 1989, la Companhia das Letras ottenne un enorme successo, il che fece conoscere la casa editrice a livello internazionale. Il responsabile di tutto ciò fu Boca do Inferno, di Ana Miranda. A partire dal successo di pubblico e di critica in Brasile, mi approntai a vendere i suoi diritti all’estero in un periodo in cui quasi nessuna opera della letteratura nazionale conosceva un percorso al di fuori del Paese. La strategia diede risultati oltre la più rosea previsione. Si creò un passaparola che durante la fiera spinse i più prestigiosi editori del mondo a fare offerte alla cieca, ovvero senza neanche aver letto il libro. Ebbe inizio un’asta spontanea e buona parte del mercato editoriale del pianeta mise gli occhi sul nostro libro. Un intero battaglione di editori, che aveva sentito parlare del libro nei corridoi della fiera, mi cercava nello stand collettivo del Brasile, dove c’erano più piante di samambaia che libri. (Per professionisti come me, sarebbe dovuto bastare uno spazio dove appoggiare la giacca, bere un caffè, e chi si è visto si è visto.) E io non mi trovavo mai nel fortino delle samambaia. Siccome non mi aspettavo di dover ricevere nessuno, avevo messo in agenda incontri in altri stand per comprare i diritti di romanzi e saggi di diversi Paesi. Non trovandomi, gli editori lasciavano le loro offerte, basate al massimo sulla lettura delle schede redatte dalle case editrici tedesche che avevano ricevuto il libro prima della fiera e che avevano avuto il tempo di leggerlo.

Francoforte funziona così, con libri la cui reputazione cresce come una valanga nei corridoi dei molti padiglioni della fiera. Un editore fa commenti con un altro, che passa l’informazione a un terzo, e avanti così. L’ingranaggio opera come una vera e propria spirale di illusioni, nella quale le migliori case editrici si imbarcano senza leggere.

Decisi di rifiutare le proposte, dicendo che avrei dato a tutti la possibilità di mandare il libro ai loro lettori di portoghese, in modo da sapere davvero che cosa stessero acquisendo.

Chiusa la fiera, andai insieme a Lili a trascorrere quattro giorni fra Venezia e Milano. A Venezia scegliemmo un hotel semplice, che aveva comprato il suo primo fax proprio la settimana in cui arrivammo. Dall’apparecchio scorrevano messaggi che inondavano la piccola hall. Pochi editori avevano avuto il tempo di ricevere un parere di lettura, ciononostante inviavano offerte via fax all’ufficio della Companhia das Letras. Da là erano ritrasmesse all’hotel. Era divertente tornare dalle passeggiate sui canali e fra i palazzi e ritrovarsi quella montagna di carta che, a volte, consumava interi rotoli del fax. Continuai a non accettare le blind offers, sottolineando che tutti avevano due settimane di tempo per leggere il libro.

Un imprevisto ci fece ritornare in Brasile prima del tempo. Mio nonno era alquanto peggiorato per una malattia ai polmoni e aveva i giorni contati. Mentre eravamo in viaggio, lui seguiva il nostro soggiorno italiano con una carta geografica in grembo. Qualche giorno dopo il nostro arrivo, Giuseppe morì. Fino ad allora, avevo perso soltanto la mia nonna paterna, che aveva vissuto poco tempo in Brasile, quando ero ancora troppo piccolo perché potessi ricordarmi di lei; il mio bisnonno materno, di cui mi ricordo soltanto attraverso le fotografie; e la mia bisnonna materna, che andavo a trovare spesso ma che per anni aveva vissuto in uno stato di demenza. Andavo a farle visita la domenica in un ricovero di Vila Mariana, lo stesso in cui oggi si trovano gli ultimi due amici viventi di mio padre. Negli ultimi tempi la bisnonna non riconosceva nessuno e passava il tempo cantando canzoni sefardite in ladino. La sua voce possedeva le stonature acute tipiche degli anziani. Era bello ascoltare quei canti sbagliati, con un ritornello incessante e in una lingua incomprensibile ma in qualche modo simile alla nostra. Ci vedeva molto male e non capiva bene cosa sentiva, così quelle canzoni che nessuno comprendeva erano la sua unica forma di comunicazione con il mondo, e con se stessa.

La morte di mio nonno fu la prima a lasciare dentro di me un grande vuoto. Nonostante l’indifferenza che riservava a mio padre sul lavoro, Giuseppe era un uomo molto cordiale. Fuggiva diplomaticamente ogni confronto, cercando sempre la maniera di fare le cose a modo suo, senza litigare. E noi lo adoravamo. Io traevo vantaggio dal fatto che i vari conflitti familiari non fossero mai sufficientemente espliciti e andavo d’accordo con tutti. Cercavo di soddisfare le aspettative di ciascuno di loro. Per mio nonno ero sempre stato grande. Lui mi rispettava in quel modo e io provavo a essere all’altezza, con serietà, di quel trattamento precoce. Quando morì, compresi il senso della morte. Rinunciando ad andare a Milano in modo da rientrare in tempo, entrai in panico, temendo di non riuscire a rivederlo vivo. Avevo fatto un patto con mia madre, mi avrebbe avvisato in caso di peggioramenti. Mirta, su richiesta di Giuseppe, mi telefonò solo quando era ormai chiaro che lui non avrebbe avuto la meglio sull’infiammazione al polmone. Fece in modo di chiamarmi senza dirlo a mio nonno, che nel frattempo se ne stava con la cartina dell’Italia sempre a portata di mano. Riuscii a vederlo ancora cosciente, in ospedale, ma solo per poche ore o pochi giorni. Quando la Companhia das Letras aveva preso avvio, Giuseppe e André erano stati i miei soci e mi avevano ceduto due sale sul retro della tipografia in modo che la casa editrice potesse iniziare a funzionare. Deda veniva a trovarmi ogni giorno e se insieme a me si trovava qualche autore, gli diceva: “Prima lui era mio nipote. Adesso io sono il nonno di Luiz”.

Durante la preghiera che gli ebrei recitano per una settimana dopo la morte di un congiunto, sempre al calare della sera, arrivai a ricevere telefonate di editori che avevano scoperto dove mi trovavo e volevano discutere le loro offerte per Boca do Inferno.

A ogni mio rifiuto, le blind offers salivano, duplicando o triplicando di valore. Carol Brown Janeway, una mia amica della casa editrice Knopf, che non era entrata nella folle disputa dei colleghi, se la rideva – secondo lei, quei rifiuti erano una strategia di marketing nell’ottica di anticipi ancora più sostanziosi, ma io non lo avrei mai fatto apposta. In effetti, la vicenda internazionale di Boca do Inferno fece sì che una serie di editori venissero a conoscenza del catalogo della Companhia das Letras. Molti riscontrarono la qualità letteraria dei libri pubblicati nei primi anni e cominciarono a invitarmi a cene private o a cocktail alquanto speciali.

Boca do Inferno, pur essendo un ottimo libro, non generò profitto agli editori internazionali, talmente alti erano stati gli anticipi pagati alla fine di quell’asta inattesa. Cominciai così a pormi questioni sul funzionamento del mercato, sulle strategie e sui criteri, non sempre improntati alla qualità, delle più prestigiose case editrici del mondo, che giunsi a conoscere più da vicino. Qualche mese dopo la fiera, patii una brutta frattura ai legamenti della caviglia. Dovetti sottopormi a un intervento chirurgico, che richiese due mesi di riposo e fisioterapia. Durante quel periodo di immobilità, rimasi a casa scoraggiato e sempre più disilluso sul mestiere dell’editore. Alcune delle mie più profonde certezze ne uscirono minate. Smisi di andare alle fiere non essenziali, come quella negli Stati Uniti, all’epoca ancora molto frequentata. Era il primo abbozzo della depressione adulta della mia vita.

Come risposta alla mia incipiente delusione immaginai un romanzo, ma ne scrissi appena poche pagine. La trama era focalizzata su un editore che idealizzava la letteratura, proprio come il pianista mitizzava la musica nel testo che avrei scritto qualche anno più tardi. L’editore rimaneva deluso dal lato mercantilista della professione, era preso da una specie di foga e approntava un falso romanzo da negoziare a Francoforte. Produceva copertina, risvolti, recensioni e liste dei libri più venduti, tutto completamente falso.

Il romanzo inesistente girava intorno alla scoperta di una partitura che Berlioz avrebbe composto a partire da un’opera sconosciuta di Shakespeare. Il libro veniva venduto alle fiere di tutto il mondo e l’editore ritornava in Brasile con l’incombenza di scriverlo. Si rifugiava ad Atibaia, da dove inviava una lettera alla sua fidanzata. Si trattava di una ridicola parodia della lettera-testamento di Getúlio Vargas. La missiva era inoltre il risultato di un mucchio di citazioni dei suoi scrittori preferiti – da Raymond Chandler a Jorge Luis Borges, passando per Machado de Assis e Albert Camus. Credo che terminasse con la frase “esco dalla storia per entrare nella letteratura”. La fidanzata, allora, deduce che l’editore potrebbe essere andato nelle città degli scrittori citati e si mette alla ricerca del suo compagno seguendo un percorso poliziesco a partire dalle opere più importanti di ciascun autore – mentre lui, in verità, si trova in un luogo privo di qualsiasi charme letterario. Alla fine, ad Atibaia il protagonista riesce a scrivere solo un racconto, molto bello ma non sufficiente per essere consegnato agli editori, che avevano invece comprato i diritti di un romanzo.

Raccontai la trama del libro a Rubem Fonseca. Si entusiasmò a tal punto che gli chiesi se volesse scrivere il racconto, di ottima qualità, da inserire all’interno del romanzo mediocre che avrei redatto. Rubem rispose con saggezza: “Il racconto di ottima qualità è la cosa più facile. Il difficile è scrivere tutto il resto”.

Non so quale fra gli abbozzi di romanzo che scrissi nel periodo di depressione fosse il peggiore. Entrambi rivelavano una totale mancanza di talento per la narrativa di ampio respiro e un’eccessiva fede in idee preconcette, senza alcuna profondità nel caratterizzare i personaggi. Lo stesso accadrà più avanti con il romanzo su mio padre, sebbene i primi, scritti con diversi gradi di agitazione maniacale, fossero di un livello ancora più basso. Quei due quasi romanzi non erano in effetti metafore molto migliori di quella utilizzata dallo psichiatra famoso. Erano solo più copiose. Perlomeno avevo, come scusa, lo stato in cui li avevo scritti.

Anni di lavoro nel mercato editoriale avrebbero dovuto mettermi al riparo dalla tentazione di imbarcarmi in simili avventure. Per fortuna, ho sempre avuto meno illusioni nello scrivere che senso critico nel leggere. Oppure ho ricevuto aiuto da altri. I due testi presero forma in momenti in cui l’autocritica era minata dalla velocità frenetica della mia vita interiore.

In ogni caso, il romanzo sull’editore è rivelatore di un periodo in cui alcune incertezze sulla professione si impadronirono di me. Ciononostante, c’è molta presunzione, anche se mascherata da parodia. È probabile che l’ebbrezza provocata dal secondo momento di successo professionale della mia vita, dalla Brasiliense alla Companhia das Letras, cominciasse a dissolversi. Il personaggio dell’editore idealista oggi suona come una copia scarabocchiata del pianista frustrato. E la mini-depressione del 1990 come un abbozzo di ciò che si manifesterà, in forma acuta, nove anni più tardi. Durante quell’intervallo, altre certezze vennero a poco a poco poste in questione, in un processo che forse mi sollevò da un delirio egotico più significativo, ma che allo stesso tempo mi spinse verso la depressione.

La cura di quel primo sintomo di depressione fu somministrata nel 1990 dal mio medico di famiglia dell’epoca. Presi del Prozac e mi venne un’allergia che mi fece gonfiare tutte le giunture, con macchie rosse sparse qua e là. Il medico si entusiasmò per la “bellezza” del mio caso, che per lui rappresentava un evento clinico-scientifico interessante. L’utilizzo di quei termini e l’allergia diffusa sul mio corpo mi portarono a sollevare quel medico dal suo incarico e ad abbandonare il Prozac.

In ogni caso, nel preludio o nel nucleo della depressione, l’editore e il musicista che mitizzavano l’arte e ne rimanevano delusi e il bambino che non avrebbe voluto crescere troppo in fretta erano un’unica persona.