C’è vicolo e vicolo.
A vederli, magari, sembrano tutti uguali: un reticolo di viuzze che si inerpicano sulle colline, o che scendono a capofitto verso il mare invisibile. O che scorrono placide come un ruscello in piano, senza mai far capire in che direzione si stia andando.
C’è vicolo e vicolo.
Il profano non li distingue, sembrandogli sempre uguale l’alternarsi di luce e di buio che lascia gli occhi disorientati, ciechi per un istante nel passaggio della linea d’ombra che i palazzi addossati impongono. E ad alzare gli occhi si vedono lenzuola che fremono nel vento insieme a canottiere, collant, calzini, vestiti fiorati e maglie da calcio di ogni misura.
Vicoli.
Immersi nel loro fragile ed eterno destino, nella consapevolezza che, per quanto diventi di moda la zona, non saranno mai strade vere e proprie. Ma possono redimersi, vivendo della luce riflessa delle vie del passeggio quando non sono così lontane, brulicando come un formicaio o nel silenzio di scalinate ormai quasi deserte.
Eppure c’è differenza, tra vicolo e vicolo. Una differenza enorme.
Basta passeggiare il lunedì. Perché proprio il lunedì? Perché il lunedì è un giorno speciale, almeno durante un lungo periodo dell’anno, diciamo da fine agosto a metà giugno, subito prima che la vita vada riducendosi a una sorda, lenta pulsazione nella morsa del calore estivo e la popolazione dei vicoli sciami sulle spiagge calabresi o del basso Lazio, munita di crema abbronzante e lasagne, ansiosa di piantare ombrelloni e gonfiare materassini. Al di fuori di questa parentesi, in cui in pochi rimarranno a guardia dei bassi e degli stretti marciapiedi per una volta non invasi dagli scooter dal parcheggio impressionistico, il vicolo di lunedì subisce una metamorfosi sociale e amplifica le differenze.
Ci saranno vicoli stanziali, quelli in cui il transito di auto e moto è limitato dal fatto che non spuntano da nessuna parte; qui verranno posti sedie e sgabelli, e la conversazione fiorirà tra persone che si conoscono da generazioni e che quindi ben conoscono le posizioni ideologiche degli oratori che si avvicenderanno sull’ideale podio per tenere la propria conferenza. Il passante assisterà al dibattito con attenzione, ma difficilmente gli verrà dato agio di intervenire: si tratta di una tavola rotonda che ha radici nel passato e non registrerà battute d’arresto nel futuro, né vinti né vincitori.
Poi ci sono i vicoli del passaggio. Quelli collocati nei paraggi delle vie principali, e che fanno da scorciatoia per spostarsi da un lato all’altro delle zone degli uffici e dei negozi. Queste stradine sono multifunzione. Di volta in volta sono percorsi di rally, in cui due e quattro ruote sfrecciano spericolate e rombanti, gli specchietti laterali a sfiorare le mura e i gomiti di incauti e terrorizzati pedoni, le larghe e malferme pietre rettangolari della pavimentazione che oscillano come trampolini sollevando piccoli ma significativi zampilli d’acqua lurida su scarpe e pantaloni. L’ascolto della varietà e della compiutezza del turpiloquio a sfondo religioso che provocano gli schizzi potrebbe, da solo, soddisfare il desiderio di ricerca di qualsiasi linguista.
Altre volte questi vicoli assolvono la funzione di parcheggio, in cui ognuno considera con assoluta benevolenza le dimensioni del proprio veicolo e assume al contrario un atteggiamento eccessivamente critico nei confronti delle dimensioni altrui. Si ritengono sufficienti, in questo caso, due virgola cinque centimetri per il passaggio di pedoni che pertanto sono costretti ad assumere posizioni da fachiro per non dover fare un giro di quattrocento metri, e a scivolare tra il muro e un manubrio di scooter ancorato a un’inferriata con una catena enorme; o zero centimetri virgola due per accedere al veicolo al fianco del quale si sosta, dando modo al proprietario della predetta auto di considerare di farsi calare da un elicottero sul tettuccio e aprire lo stesso con un flex per poter andar via.
A gestire la situazione, troverete spesso un energumeno dall’aria truce che tuttavia assumerà un tono lamentoso e supplichevole al momento dell’esazione della pretesa mancia. Peraltro, bisognerà ammettere la valenza e la capacità dell’uomo, il famigerato Parcheggiatore Abusivo. Si tratta di una via di mezzo tra un grande coreografo e un enigmista abilissimo. Riesce a indicare con perizia spazi minimi nei quali sostare, valutando al millimetro sia le dimensioni del veicolo sia le modalità di manovra per accedere, salvo poi costringere il guidatore a uscire appunto dal finestrino.
È un personaggio rilevante nell’ondivaga e instabile comunità dei vicoli di passaggio. Il traffico costante costringe i negozianti all’interno delle strette botteghe buie e ingombre di merci, entrare nelle quali costituisce una sfida alla fisica e alla claustrofobia ma consente di trovare oggetti spariti da tempo dagli scaffali degli ipermercati, come orsi di peluche e palloni rossastri di gomma, gomitoli di lana fucsia e cappellini da baseball con visiera, spagnolette di cotone di ogni colore o spille da balia. Minuscoli empori dove si può giocare al superenalotto, comprare un paio di ciabatte da mare in pieno inverno o un passamontagna in luglio. E tutto in non più di quattro metri quadri.
I commercianti usciranno a fumare all’aperto, si fa per dire, solo quando non ci saranno clienti; e intrecceranno veloci scambi di battute coi portieri degli stabili, sopravvissuti per varie ragioni all’installazione degli infernali citofoni a codice che implicano necessariamente una vista da falco e una buona conoscenza dei codici binari per accedere a uno studio dentistico qualsiasi. Essi sono mantenuti in vita e talvolta in livrea da grandi aziende che hanno bisogno di un certo aplomb, o da ricchi professionisti interessati a conservare un certo anonimato o a essere avvisati per tempo in caso di irruzione della Guardia di Finanza. Hanno una natura discreta e molto diffidente, vanno assai di rado al di là delle tre sillabe e sorridono solo in presenza di una banconota da cinquanta euro: eppure si aprono a lunghe e animate conversazioni ogni lunedì.
Perché il lunedì, vedete, la natura del vicolo cambia. È come quando si espongono certi materiali alle altissime temperature, ed essi variano la loro stessa composizione chimica diventando qualcos’altro. Osserverete alti funzionari dello Stato o di grandi banche, in genere poco disponibili anche solo a rallentare la veloce andatura verso le loro poltrone impegnative, sostare a discutere con edicolanti enormi compressi nel bugigattolo che sembra essergli stato costruito attorno; e delicate impiegate con vezzosi occhiali e borsette colorate intrattenersi con rudi tassisti, all’angolo del loro parcheggio, sostenendo il proprio punto di vista con un deciso picchiettare delle lunghe e curate unghie sui giubbotti di pelle o sui bianchi sportelli, incuranti dei legittimi tentativi degli autisti di intromettersi nella conversazione.
Il lunedì le cose cambiano.
Eppure dovrebbe esserci nell’aria la mestizia del ritorno al lavoro, il grigiore di un’altra settimana che si apre con la routine degli stessi gesti e delle stesse cose da fare. La tristezza dell’uscire dal fine settimana, rientrando nel tunnel delle incombenze necessarie a portare il pane a casa. Così dovrebbe essere.
E invece il vicolo è animato dal riverbero di una speciale elettricità, un’energia nuova che emerge da gestualità ed espressioni. Quale che sia il tempo atmosferico, pioggia, vento o nevischio, sole bruciante o umido che entra nelle ossa, i passi rallentano e si è riluttanti a lasciare l’aria aperta. Brani di concitate discussioni eruttano dalle finestre aperte e attraversano il vicolo da un lato all’altro, come se fossero una sola. Perché è lunedì.
Naturalmente c’è un luogo deputato a ospitare il meglio del meglio di questa necessità di dialogo tra carbonari: un posto preciso, al quale il pensiero è stato spesso rivolto fin dalla fine dell’Evento che si è consumato in un imprecisato momento del weekend.
È una delle conseguenze della nuova mobilità temporale dettata dalle esigenze di sponsorizzazioni televisive. Anticamente, quando lo spazio nell’etere era scandito da orari fissi all’interno del monopolio di Stato, l’Evento si consumava sempre alla stessa ora, concludendosi drammaticamente alle cinco de la tarde, tempo da poeta che introduceva lo speciale spleen della domenica sera, quella malinconia che prendeva per la distanza dal futuro ripetersi del Rito. Si immaginavano, in quell’epoca lontana vivida solo nella memoria degli anziani, le evoluzioni eroiche raccontate da cantori senza volto con voci abbrunate dal fumo e dalla nebbia di nordici campi di battaglia. Si attendeva col cuore in gola l’interruzione giusta, l’irruzione da un campo all’altro portatrice di una notizia che avrebbe messo l’umore sulla strada giusta per tutta la settimana.
Un’era geologica pregressa che aveva il suo fascino, per carità. Ma che oggi è quasi impossibile rievocare, nell’età delle mille telecamere e delle informatiche ricostruzioni, in grado di contare centimetri e quantificare distanze con precisione avvilente. E tuttavia questo non dirime questioni sanguinose, che alimentano come paglia il fuoco delle conversazioni del lunedì mattina. Nel luogo eletto.
Perché i veloci scambi di battute da strada sono solo un antipasto, la tentazione momentanea alla quale si cede con riluttanza, il fast food dell’opinione: la discussione vera si fa al bar.
La versione fisica del salotto virtuale, il posto impregnato di aroma di caffè e di cornetto e di passione; dove sulla limitata superficie di una mensola attaccata al muro, sulla quale all’ora di pranzo verranno consumati panini ed estemporanei primi piatti, giacciono freschi di stampa i giornali sportivi del mattino aperti alla pagina delle pagelle, in attesa di essere divorati dagli avidi sguardi di chi cerca conferma autorevole alle proprie opinioni. Il bar.
Quello che in passato erano gli scantinati in cui i cospiratori pianificavano rivoluzioni; quello che erano le catacombe dove gli aspiranti non martiri provavano a scampare a persecuzioni imperiali; quello che erano i salotti letterari in cui poeti dissidenti contrabbandavano le proprie liriche antigovernative. Il bar.
Perché in un’epoca in cui le forti ideologie politiche si sono spente, i grandi movimenti sindacali hanno perso la propria forza propulsiva, le coscienze di classe si sono frantumate in mille rivoli di egocentrico individualismo, l’unica passione che porta la gente a superare barriere di censo e di ceto in un comune intento è proprio l’argomento di cui si discute animatamente, disperatamente e parossisticamente il lunedì. Al bar.
Il Professore percorreva con calma la strada che lo avrebbe portato alla meta. Per molto tempo aveva riflettuto su quello che aveva voglia di fare, ma non era ancora del tutto sicuro di aver fatto le scelte giuste.
La pensione, per uno per cui il lavoro ha costituito gran parte della vita, è una brutta bestia: ma ancora più brutto è l’avvicinarsi della pensione. Si ha un bel dire che si troverà tanto da fare, che ci saranno viaggi troppe volte rimandati, amicizie da coltivare, hobbies da rispolverare; che ci si impegnerà comunque in qualcosa, e che magari si sarà più presi di prima, e si avrà ancora meno tempo.
Il tempo. Un mare vigliacco e oscuro, nel quale si crede di poter tranquillamente navigare, ma che è sempre pronto a sommergerti. Un mare dove la bonaccia è il pericolo peggiore.
Il Professore ormai la vedeva da vicino, la pensione. In Istituto era già stato accantonato, gli avevano tolto la maggior parte delle attività. Guardava gli studenti fare capolino dall’ingresso, gli occhi che scivolavano sugli arredi e sui libri e su di lui in cerca di qualcun altro, di un collega giovane e pronto e attivo, di uno di quelli che lo avrebbero aiutato a fare le domande in sede di esame e che quindi potevano fornire loro le risposte giuste.
Fu in uno di quei pomeriggi di invisibilità che prese la sua decisione. Scriverò un saggio, si disse. Uno di quei libri ruffiani di divulgazione terra terra, che si vendono nei supermercati, che vengono contestati dai parrucconi e che ti immergono in un ciclo di presentazioni vorticoso. Uno di quelli che ti fanno guadagnare dei soldi, che non si scrivono per vedere il proprio nome nell’esclusivo catalogo di un editore scientifico che ha un pubblico ristretto e schifiltoso, ma per partecipare alle trasmissioni televisive piene di opinionisti spettinati e con la bava alla bocca.
Sarebbe stato il libro del trapasso, pensò il Professore con un sinistro brivido. Quello che sancisce e accompagna il passaggio, il ponte tra la vita del prima e la vita del dopo. Mamma mia, disse mormorando tra sé: sembrano i pensieri di un condannato a morte.
Invece, rifletté subito, la scrittura di questo testo sarà una bella, fresca compagnia. Per uno che si ritrova solo alla fine della salita. Per uno che non è abituato a vedere il sole di mezzogiorno penetrare dalle tapparelle di casa.
Allora il Professore si mise a cercare un argomento, e l’argomento trovò lui. Quale altra tematica avrebbe raggiunto altrettanto facilmente il cuore e l’anima della gente? Quale materia sarebbe stata altrettanto coinvolgente, così in grado di accedere alle masse?
Si alzò dalla poltrona consunta accostata a una scrivania piena di progetti ormai inutili, e uscì. Sapeva dove andare e con chi parlare.
Da quasi cinquant’anni ogni mattina, con rarissime eccezioni, si fermava a prendere il caffè al bar di Peppe. Avevano fatto carriera insieme, lui all’università, prima da studente e poi da ricercatore, assistente e professore, e Peppe al bar. Quando l’aveva conosciuto, era un vivace garzone che saliva e scendeva infaticabile le scale degli uffici, un enorme vassoio pieno di tazzine, sfogliatelle e bicchieri in precario equilibrio in una mano e lo scontrino nell’altra. Peppe, non molto loquace ma sempre sorridente, aveva guadagnato il posto di assistente al banco, addetto alla monumentale macchina per il caffè e infine cassiere, quando il vecchio proprietario, don Mario, ebbe un ictus e dovette andarsene a casa.
Don Mario non aveva figli, e Peppe lo assistette amorevolmente fino alla morte. Il bar non rimase chiuso un solo giorno, nonostante le notti in bianco che il povero Peppe era costretto a fare per assistere l’ammalato; quando Mario se ne andò, fu Peppe l’unico a sorprendersi tra le lacrime del fatto che gli aveva lasciato sia il piccolo appartamento che il bar.
Nel tempo, il Professore e Peppe erano diventati amici. Più o meno la stessa età, l’appuntamento quotidiano, una parola un giorno e due il giorno dopo avevano cominciato a conoscersi e ad apprezzarsi. Il Professore con la sua vasta cultura in perenne allargamento, costruita sulle pagine dei libri e mutuata dai pensieri dei Grandi; Peppe con la filosofia della strada e della vita difficile, in cui nessuno regala niente a nessuno e bisogna tirare fuori il meglio dal peggio che succede: due punti di vista molto più vicini tra loro di quanto si potesse immaginare. Poiché la vita di Peppe non aveva spazio per il tempo libero, il Professore andava qualche volta a fargli compagnia all’ora di chiusura, per poi accompagnarlo per un pezzo della salita che doveva fare per andarsene a casa. Si erano sposati entrambi, il barista aveva avuto un figlio e il Professore gli aveva fatto da padrino seguendolo negli studi e aiutandolo successivamente a trovare un lavoro al Nord.
Lui, il Professore, di figli non ne aveva avuti; era stata una mancanza difficile da accettare soprattutto per la moglie, una ragazza dolce e intelligente di un paese della Lucania dal quale era partita per venire a studiare in città. Col tempo questo sottile dolore l’aveva allontanata dal marito e, quando un giorno gli disse di voler andar via per tornarsene a casa, lui l’aveva lasciata andare in silenzio. Era stato quel «voglio tornare a casa», pronunciato dopo quasi vent’anni di convivenza, a convincerlo. Tornare a casa. E lui che pensava che casa loro fosse quella, in cui abitavano ormai da tanto tempo.
La solitudine non gli era pesata, in verità. Aveva il lavoro, gli studenti e i colleghi; e pure la lettura e la scrittura dei testi e degli articoli. A un certo punto gli avevano offerto addirittura una cattedra, ma avrebbe dovuto lasciare la città e non se l’era sentita. Pur con tutte le contraddizioni, il malaffare e le sofferenze, sentiva che quello era il posto migliore dell’universo, almeno per lui. Che non sarebbe stato compiutamente se stesso da nessun’altra parte.
Rifiutò e rimase, scivolando pian piano senza accorgersene tra quelli che il futuro ormai l’avevano già passato. Non che importasse molto: ciò che aveva gli bastava, e nel vicolo in cui abitava, uno di quelli senza sbocco che era come una casa a cielo aperto, ’O Prufessore aveva una rilevanza sociale invidiabile.
E poi c’era sempre il bar di Peppe, per un caffè speciale e per quattro chiacchiere in libertà. E da oggi, pensò il Professore, anche per studiare un po’ di umanità.
Al di là di qualche piccolo ammodernamento, necessario soprattutto per uniformarsi alle normative, il bar di Peppe era rimasto uguale a se stesso. Un solo ingresso da una stradina che fiancheggiava la sede di una grande banca, ai piedi di un antico palazzo diviso in appartamenti e di fronte a un moderno stabile di uffici e studi professionali. Clientela fissa, impiegati, funzionari e professionisti, e di passaggio, fattorini, commessi e studenti diretti alla non lontana università. Un piccolo porto di mare.
All’interno l’unica concessione alla memoria era costituita dall’antica macchina per il caffè, ancora funzionante e lucidata nelle cromature come se fosse appena uscita dalla fabbrica. Peppe la usava per non più di due o tre caffè al giorno, per mantenerla in esercizio e per fare un po’ di scena con quegli alti sbuffi di vapore, le lancette dei manometri che vorticavano e i getti d’acqua bollente che soffiavano qua e là.
Il resto dell’attrezzatura era perfettamente funzionale e incastrato come un puzzle per risparmiare spazio: la piastra per i panini, i contenitori per tazze e bicchieri, il banco per la pasticceria e la postazione per la cassa. I clienti giostravano in un locale che in un annuncio immobiliare sarebbe stato definito “cucina abitabile” più che “salone con angolo cottura”: due minuscoli tavolini ai quali si accedeva dopo una breve colluttazione all’arma bianca, e una volta conquistati non si abbandonavano facilmente, come un parcheggio con le strisce bianche all’ora di punta; una mensola alla parete con quattro sgabelli, dove all’ora di pranzo gli impiegati si avvicendavano rapidamente masticando faccia al muro come se si sentissero in colpa; due metri e mezzo di banco per il caffè, dove i numerosi avventori consumavano di profilo e con il braccio teso in avanti come i moschettieri in duello multiplo in un vecchio film di cappa e spada.
L’affluenza era peraltro ondivaga. A momenti di pienone, nei quali si levava un assordante caleidoscopio di voci, ordini, richiami e formazioni declamate come una poesia, si alternavano pause imprevedibili in cui uno o due clienti solitari potevano darsi a discussioni sul senso della vita e sull’esistenza di una provvidenza, in un clima da sala da tè inglese d’inizio secolo. L’alternanza dell’affollamento e della pace seguiva un ritmo misterioso che nessuno era mai riuscito a comprendere e quindi a prevedere; Peppe, che era un fatalista, stringendosi nelle spalle ipotizzava fosse dovuto al magnetismo terrestre. Sta di fatto che due o tre volte al giorno quell’inferno diventava un pacato paradiso in cui si poteva chiacchierare liberamente, prima che arrivasse la successiva orda di bufali affamati e con un calo del tasso di caffeina nel sangue bisognoso di un immediato rabbocco.
Era stato proprio per quei momenti di pace relativa che, chiacchierando col suo amico una settimana prima, il Professore aveva avuto la sua idea. In un primo tempo aveva pensato a un luogo deputato, come lo stadio o un club di tifosi, posti dove veniva pubblicamente fuori la belva che i supporter nascondono in fondo all’anima; poi, riflettendo, si era invece detto che quello da intercettare era proprio il tifoso non professionista. Quello che coltivava la propria passione nonostante. Nonostante la propria cultura. Nonostante la propria professione. Nonostante il proprio contesto sociale. Nonostante il rispetto delle apparenze.
Gli interessava, insomma, il dottor Jekyll che nascondeva, acquattato nell’ombra della sua inconsapevolezza, un Hyde affamato di manifestazioni istintive. La domanda era: che cosa faceva quell’individuo inquadrato dalle telecamere dopo un gol, la bocca contorta in un urlo spaventosamente liberatorio, le mani adunche a mo’ di artiglio, il filo di bava sul mento, i capelli diritti in testa e gli occhi iniettati di sangue, nel resto della settimana? Chi era? Di cosa discuteva? Quanto di quella passione tratteneva in petto, e quali ricordi, ossessioni, rimpianti, gioie e rimorsi generava? Come funzionavano gli incontri tra siffatti soggetti? Che contenuto avevano le frasi smozzicate, i veloci scambi di opinioni e gli assensi e i dissensi che da lontano vedeva passare dall’uno all’altro?
Il Professore aveva deciso quasi subito di intitolare il suo passo d’addio alla materia alla quale aveva dedicato tutta la vita proprio così: Il Resto della Settimana. Una specie di diario dell’emozione, un modo di individuare sugli assi cartesiani della vita quotidiana e della trepidazione la curva del sentimento legato a quell’effimero detonatore che si sarebbe attivato la domenica, come la più puntuale delle bombe a orologeria. Ipotizzando che il vecchio Hyde attendesse tamburellando con le dita sul pavimento e tenendo l’altra zampa a sostenere il mento annoiato che il tempo passasse, fino al momento in cui l’avrebbero liberato, per novanta minuti più recupero.
Peppe lo aveva ascoltato in silenzio e annuendo, come faceva sempre. Poi, quando erano arrivati all’incrocio al quale in genere si separavano, gli aveva detto:
«Professo’, secondo me il posto giusto per la tua ricerca è proprio il bar mio. Se tu sapessi quante chiacchiere sento, dalla mattina alla sera; e quanta gente viene là proprio per far sfogare questa belva che dici tu. Facciamo così, io ti cedo il tavolino in fondo e tu ti metti là con un giornale civetta in mano, e prendi appunti o registri con quel coso che si fanno le interviste: e magari spargo la voce che stai preparando, che so, un’inchiesta sulla scaramanzia o sulle situazioni curiose che vengono dal tifo».
Il Professore aveva scosso la testa preoccupato, e aveva detto all’amico:
«Ma la gente potrebbe essere diffidente, avere paura di farsi registrare o di raccontare i fatti propri. Sai, la letteratura scientifica è piena di questi casi. Le persone si vergognano della parte istintiva di se stessi, e la nascondono».
Peppe si era messo a ridacchiare.
«Professo’, io la letteratura scientifica, come la chiami tu, non la conosco. Però conosco i clienti miei e ti posso assicurare che la parte che loro ritengono di nascondere è quella di tutti i giorni, seduti alle scrivanie negli uffici con la luce al neon, e non quella che viene fuori allo stadio o nei salotti la domenica. Credimi, rimarrai sorpreso.»
E il Professore ci aveva pensato. La puzza sotto al naso tipica dello scienziato, nonostante lui la combattesse con tutte le sue forze, gli faceva risuonare nella testa la locuzione “chiacchiere da bar”. Era il caso di mettere in discussione una carriera serissima per un ultimo prurito?
Serissima, sì. Anche troppo, si era detto. Mai un volo, mai un’incursione in altri settori. Forse era venuto il momento. «Grigio» gli aveva detto la moglie quando se n’era andata. «Sei una brava persona; forse solo un po’ grigio.»
Era venuto il momento di cambiare colore.
Il personale del bar di Peppe era ridotto allo stretto necessario. Oltre al proprietario, che ormai si era autorelegato alla manovra della macchina del caffè, al rapporto coi fornitori e alle pubbliche relazioni (’o managemènt, come diceva con ardita pronuncia), c’erano Deborah (con l’acca, come precisava ogni singola volta che si riferiva a se stessa, come se fosse un titolo nobiliare) alla cassa e il cosiddetto Ciccillo, uno smilzo ragazzo originario di un qualche luogo dell’oceano indiano dal nome impronunciabile che assolveva a tutte le altre funzioni, tra cui pulire la toilette, alla quale si accedeva attraverso una scala a chiocciola che nemmeno Messner avrebbe risalito senza complimentarsi con se stesso, e il portare caffè in tutto il circondario.
Ovviamente il Professore conosceva i due, frequentando il bar con assiduità fin da molto prima che fossero assunti; ma come tutti i clienti era sempre stato portato a considerarli come suppellettili del locale, un’estensione della personalità di Peppe.
Erano agli antipodi della mobilità: Deborah con l’acca veniva tumulata la mattina sulla sedia dietro la cassa, nessuno l’aveva mai vista arrivare né andarsene, e da quel momento non si schiodava dal suo posto. Qualcuno ipotizzava una toilette chimica fatta predisporre da Peppe per assecondare la voglia della ragazza di non muoversi, altri pensavano che semplicemente non fosse dotata di alcun metabolismo. Passava la giornata digitando scontrini freneticamente, snocciolando resto in monete con precisione assoluta e incassando banconote con un fluido gesto della mano dotata di lunghe unghie sulle quali recava complicati disegni astratti realizzati con colori acrilici e brillantini. Non aveva mai, a memoria di cliente, sbagliato di un centesimo i calcoli che faceva a mente, senza alcuna apparente esitazione; il che era abbastanza clamoroso, perché nel frattempo conduceva una perenne conversazione telefonica con alcuni fantomatici personaggi come la madre, le sorelle Samantha con l’acca, Christina con l’acca e Stephanie con l’acca, nonché un certo Giovanni che si pensava fosse il fidanzato, ma la notizia non era mai stata confermata. Il telefono di Deborah era l’unico che avesse campo in tutta la zona pur avendo un valore stimato di non oltre trenta euro, il che causava la livida invidia di tutti gli avventori.
Ciccillo invece sorrideva. Cosa avesse da sorridere era un mistero, perché correva dalla mattina alla sera come un disperato, faceva una fatica del diavolo ed era costretto a indossare un ridicolo gilet rosso con camicia bianca e pantaloni neri, con un patetico berretto a bustina militare: una tenuta gelida d’inverno e caldissima d’estate, inadeguata a qualsiasi tempo atmosferico. Aveva un’interessante caratteristica, probabilmente derivante dalla sua etnia: senza variare l’espressione negava muovendo la testa su e giù e affermava scuotendola in orizzontale, al contrario di quanto si fa in Occidente. La cosa all’inizio della sua collaborazione col bar di Peppe aveva causato comici equivoci e qualche litigio, ma ormai tutti conoscevano il ragazzo e si erano abituati a vedersi negare richieste che venivano invece nella pratica immediatamente soddisfatte.
Ciccillo e Deborah con l’acca avevano più o meno la stessa età, ma erano prodotti di due mondi diversi; da soli, aveva spesso pensato il Professore, avrebbero potuto rappresentare il punto di partenza di una ricerca sociologica. La conoscenza informatica e digitale, la capacità relazionale e l’inclinazione alla riflessione dell’una, e l’entusiasmo, l’iperattività e la capacità di sopportazione delle avversità dell’altro davano luogo alla perfetta copertura di tutte le necessità dell’esercizio. Il punto debole era nell’assoluta infungibilità dei due: si fosse ammalato uno, necessariamente Peppe avrebbe dovuto rispolverare antiche nozioni ed energie che non aveva più. Per fortuna però godevano di una salute di ferro, e l’eventualità non si era mai posta.
Il Professore entrò nel bar che era in corso il pieno della colazione: un’ottima imitazione schiumata e con una spolverata di cacao dell’inferno dantesco. Era un lunedì freddo e piovoso, e la gente si accalcava con maligno piacere in un luogo caldo e asciutto, ancorché completamente privo di ossigeno.
Peppe rivolse al Professore un rapido cenno di saluto indicandogli il tavolino concordato, sul quale spiccava la targhetta con scritto RISERVATO!!!, con tre minacciosi esclamativi. Fendendo con qualche difficoltà la calca a forza di “scusate” e “permesso”, il Professore riuscì ad arrivare alla meta e si sedette.
La discussione era entrata nel vivo, e naturalmente verteva sull’Evento consumatosi la sera precedente in posticipo. Il Professore si era adeguatamente preparato, aveva visto il match, vinto con merito in trasferta, e si sentiva pronto a comprendere qualsiasi analisi tecnica. La settimana di ricerca era stata scelta con cura, calendario alla mano, insieme a Peppe: preludeva a uno scontro diretto di vertice, che si sarebbe giocato in casa.
Su consiglio dell’amico, per non indurre in soggezione gli avventori, aveva cercato di cambiare aspetto abbandonando l’inseparabile cravatta. Si era guardato di sfuggita nello specchio dell’ascensore: un maglione sformato e un vecchio jeans che usava per le serate casalinghe d’inverno e per qualche passeggiata domenicale sul lungomare, un velo di barba di un paio di giorni. Gli occhiali cerchiati di metallo non aveva potuto evitarli, altrimenti avrebbe avuto bisogno di un cane guida che sapesse anche leggere da vicino.
Scuotendo brevemente il capo, aveva pensato che quel look postatomico sarebbe magari diventato la divisa della pensione. Con un brivido aveva scacciato il pensiero, concentrandosi su quello che avrebbe dovuto fare: enucleare. Separare l’argomento dal resto, dalle divagazioni che non riguardavano la materia della ricerca. Indagine sul campo, dopo decenni passati a leggere tra le righe del lavoro altrui. Era elettrizzante, ma anche un po’ preoccupante: l’avrebbe saputo fare?
Ora che si trovava schiacciato tra il minuscolo tavolino e il muro, davanti a quella marea di gente chiacchierante, sorridente, urlante, bevente e mangiante cornetti, si sentì inadeguato. Peppe, con la coda dell’occhio, se ne accorse e fece un cenno a Ciccillo; il ragazzo scosse la testa sorridendo, e con un piccolo miracolo di contorsionismo gli recapitò una tazza fumante e una brioche calda. A stomaco pieno, sosteneva Peppe, si ragiona meglio.
Da un punto all’altro del bancone un uomo con un berretto di lana calato fin sugli occhi, che brandiva uno scontrino al di sopra di almeno quattro teste, apostrofò un altro che stava addentando una ciambella:
«Gigi’, mo’ che ci siamo levati il pensiero parliamo di domenica prossima: che fai, finalmente ci vieni, allo stadio?».
L’altro, un ragazzone dalle guance arrossate, scosse il capo e inondando gli astanti con un nevischio di zucchero disse:
«No, Salvato’, lo sai che io me la devo vedere a casa. Non ci posso venire, allo stadio. Se no mi sento male, e passo pure un guaio».
Il berretto del nominato Salvatore sussultava nel tentativo di richiamare l’attenzione di Ciccillo che distribuiva caffè come un croupier al baccarat:
«Guaglio’, uno un po’ lungo macchiato, per piacere. Io non capisco come fai, Gigi’: vuoi mettere la sofferenza fisica, la gioia, l’emozione dello stadio? Là sì che la partita la giochi veramente. Io certe volte, quando torno a casa e guardo la sintesi alla televisione, manco riconosco le azioni che ho visto, tanta è la tensione».
Il Professore osservava affascinato la conversazione svilupparsi nel pieno del casino. Fuori la pioggia intensificò, così da procurare l’ingresso forzato di altre persone che si scuotevano l’acqua di dosso. Il bar adesso sembrava la metropolitana di Tokyo nell’ora dell’ingresso negli uffici.
La cosa però non scoraggiò Gigino, il quale stipò nell’enorme bocca il resto della ciambella continuando serenamente la conversazione. Un ometto schiacciato sotto di lui, e investito dalla gran parte dei residui alimentari che esplodevano a ogni parola dalla sua bocca, alzò uno sguardo irritato: poi, valutate le dimensioni dell’uomo, cercò di spostarsi dalla traiettoria. Con poco successo.
«E secondo te io a casa la partita me la guardo tranquillo e sereno? Io faccio il pazzo! Ci stanno i miei vicini di casa che dopo per almeno due giorni nemmeno mi salutano. Ha detto il mio padrone di casa che all’ultima riunione di condominio stavo addirittura nell’ordine del giorno!»
Il Professore cominciò a prendere rapidi appunti sul taccuino. “Ordine del giorno della riunione di condominio” scrisse.
L’energumeno di nome Gigino continuò:
«È che è meglio per me e per tutti, se sto a casa. Io ogni volta che vado allo stadio, e mo’ sono anni che non ci vado, o faccio a mazzate con qualcuno o mi intossico la giornata. E poi: la fila per il parcheggio, la fila per mangiarti una pizza prima di entrare, la fila per i biglietti, la fila per l’identificazione ai tornelli, la fila per le scale, la fila per sederti. E magari al posto tuo ci sta seduto un altro, e per farlo alzare ti ritrovi pure a litigare con un delinquente. No, no: meglio a casa».
L’ometto sotto di lui, con una tazzina in mano che cercava di preservare dai sussulti della montagna umana incombente, fece una smorfia verso il Professore: povero quel delinquente, voleva dire quello sguardo.
Salvatore fece, dal suo posto dieci persone dopo, una risatina comprensiva:
«Eh, ho capito. La verità è che ti sei fatto vecchio, e lo stadio è una questione di gioventù».
Gigino ruggì:
«Ma che età! Io e te eravamo compagni di scuola, non ti ricordi più?».
Salvatore si aggiustò il berretto, avviandosi verso la porta.
«E quando mai l’età si è vista sulla carta d’identità? L’età è quella che uno si sente. Stavamo a scuola insieme, sì, ma mo’ io sono giovane, e vado allo stadio, e tu sei vecchio, e ti guardi la partita dal divano di casa. L’umanità così si divide: ci sta chi le cose le fa, e chi le guarda fare. Ti saluto, Gigi’!»
E si lanciò sotto la pioggia corricchiando ingobbito sulle punte come un uccello palustre. L’enorme Gigino, con la fronte corrugata e palesemente incazzato, rispose come se il vecchio compagno di scuola fosse ancora nel bar:
«Cioè, se uno vuole stare comodo e vedersi la partita con la famiglia è diventato vecchio? Ancora stiamo a questo, che i giovani devono stare scomodi e i vecchi possono sedersi in poltrona? E no, caro: l’umanità, se proprio la dobbiamo dividere, si distingue tra quelli che si possono permettere la televisione satellitare e quelli che non se la possono permettere!».
L’ometto schiacciato sotto di lui, approfittando di un po’ di spazio, fece finalmente un passo laterale e respirò. Poi, inaspettatamente, intervenne:
«Permettete, caro Gigino, è il vostro nome, no? Non è così. Io per esempio la televisione satellitare ce l’ho, e pure un bel divano comodo e una moglie che fa un ragù che parla da solo. Ma la domenica, pioggia o sole, vento o grandine, io alla partita ci vado. E se lo volete sapere, non è nemmeno per la partita: è proprio per lo stadio».
L’omaccione sbatté le palpebre, colto di sorpresa dall’attacco dal basso:
«E che c’entra, adesso? Uno allo stadio ci va a vedere la partita, no? E io me la vedo eccome, coi replay e le azioni riprese da cento angolazioni diverse, col commento tecnico che mi fa capire tutto e pure con la giornalista bona che intervista l’allenatore. Mentre voi fate due ore di traffico per dieci chilometri, al ritorno, io mi godo i gol dagli altri campi e pure mezza partita di calcio inglese. E mi venite a dire che è meglio andare in quell’inferno, a rischio pure di essere coinvolto in una retata?».
L’ometto si sollevò orgoglioso in tutto il suo metro e sessanta e disse:
«Non è la stessa cosa. Lo so io, e lo sapete pure voi che non è la stessa cosa. Infatti quando si tocca l’argomento, tutti quelli che prima andavano allo stadio e adesso non ci vanno più si mettono un poco sulla difensiva, come se avessero qualcosa da nascondere. Io al posto mio nei Distinti non ci rinuncerei mai e poi mai».
Il Professore non resistette:
«Perché, scusate, che tengono di particolare questi Distinti?».
L’ometto si voltò verso di lui e gli sorrise soave.