Sgombriamo il campo da equivoci: io lo so bene.
Lo so bene che le cose importanti sono altre. La famiglia, l’amore. Il lavoro. La coerenza e l’onestà. La Fede, Dio. Se credete, la patria; i vecchi, cari valori di una volta. Il benessere, proprio e delle persone care; la realizzazione professionale. Più prosaicamente, una bella macchina o un paio di scarpe alla moda.
E poi la stima, la considerazione e l’affetto di chi vive con te, di chi lavora con te; o di chi ti legge, o ti incontra per strada e ti riconosce. Cose importanti, insomma. Le cose vere.
Ma mettiamo, e si fa solo per parlare, che per qualcuno ci sia anche qualcos’altro.
La passione, per esempio.
Se dico passione, voi a che pensate? L’amore, certo; coniugale, va da sé, o un po’ meno coniugale, e che male c’è, se uno se lo può permettere? È anche la passione, no, che ci rende umani? Che mette un poco di sale e pepe nella vecchia, solita minestra delle cose veramente importanti.
Ma la passione può anche travolgere, qualche volta. E può portare assuefazione, finisce che non se ne può più fare a meno. Quindi, non tanta passione: troppo sale e pepe fanno male. Ma un po’ sì. La passione porta colore nella vita, mischia le carte e fa ridere all’improvviso o piangere piano, nel silenzio e nella solitudine. O in mezzo agli altri. Ecco, vi vedo sorridere: state pensando alla passione che c’è nella vostra vita, vero? E al colore che può dare, magari. State pensando ai colori? Forse qualcuno tra voi sta pensando a un colore in particolare.
Sta pensando all’azzurro.
Questa storia inizia con un fermo immagine, come in un film degli anni Settanta, una di quelle commedie all’italiana che fanno vedere un fotogramma e poi, per metà film, spiegano come si è arrivati a quel punto e, per l’altra metà, cosa succede dopo.
Questa particolare storia inizia con un ragazzo romano che guarda il cielo, aspettando qualcosa. Ha un pezzettino di lingua che gli spunta dalle labbra, lo sguardo assorto, le sopracciglia appena corrugate. Non sta perfettamente diritto, ha la spalla sinistra avanti all’altra, le dita della mano in una posizione strana, mignolo teso, indice piegato, pollice all’interno. Trattiene il fiato, mentre guarda uno spicchio di cielo grigiastro. Non fa freddo, e invece dovrebbe, per la latitudine e la stagione. Ma non fa freddo. A trenta metri di distanza, quattro uomini venuti da lontano lo guardano mentre lui guarda lo spicchio di cielo, aspettando qualcosa. Quattro, in uno spazio sufficiente a stento per uno solo. Anche loro hanno la punta della lingua tra le labbra; mani sudate su spalle sudate, ettolitri di adrenalina, ammesso e non concesso che l’adrenalina sia un liquido. Almeno tre di loro pensano che il ragazzo romano sia pazzo. Probabilmente hanno ragione.
Per arrivare a questo punto ci sono voluti sessant’anni, quattro mesi, otto giorni e undici ore. E tanta di quella passione, che non potete nemmeno immaginare.
Ora sembra facile raccontare che si sapeva che quello sarebbe stato l’anno buono: lo si diceva ogni anno da sempre, nella speranza di ritrovarci per strada con le bandiere e le sciarpe ad abbracciarci piangendo, ragazzi, ragazze, vecchi e bambini. E puntualmente invece ci si accontentava di qualche pazza, grande vittoria, singola e memorabile, di cui vivere per un anno ancora. Uno sgambetto a qualche grande squadra, Inter, Milan, quelle abituate a vincere e a guardare il vecchio ciuccio dall’alto in basso, con commiserante simpatia. E poi c’erano loro, naturalmente: loro, che avevano la Grande Fabbrica alle spalle, loro che anche la sorte aveva paura a fargli uno sgarbo. Loro, con la erre moscia e gli armadi pieni di coppe e medaglie, loro che non avevano nemmeno bisogno di colori, che tanto alla fine vincevano lo stesso e lo vedevano tutti. Anche se in bianco e nero.
Qualcuno durante il lungo viaggio disse che i maledetti avrebbero potuto magari scegliere il golf, il polo o qualche altra fesseria da ricchi, e lasciare il pallone a noi poveri, che solo quello tenevamo visto che ci potevamo giocare per strada. Mica ci puoi giocare, a golf, per strada; e nemmeno a polo, anche se nelle ultime file della curva B si argomentava che certe zoccole al rione Don Guanella erano grosse come pony, ma si può giocare coi pony a polo? Insomma, loro erano la Juventus. Juventus, gioventù: ma che gioventù, se stavano in mezzo da sempre e non c’era mai modo di liberarsene? Decrepitus, dovevano chiamarla.
E comunque, vincevano sempre. E allora, che ci andavamo a fare? Ci andavamo con lo spirito con cui si presenta all’esame uno che ha studiato cinque pagine su duecento: può sempre capitare che ti chiedano proprio quelle cinque pagine. Quell’anno poi, strano ma vero, eravamo pure da soli, noi e loro, in testa alla classifica. È vero, era la nona giornata: il campionato cominciava adesso. Proprio per questo, però: e quando ci capitava più, di presentarci a casa loro a pari punti? Avremmo perso, e va be’, una di più, una di meno. Ma vuoi mettere, giocarsela da pari a pari? E allora, risparmiando e dividendo le spese, si poteva anche fare.
Motivo per cui, eccomi là, all’angolo di via Orsi con Giacinto Gigante, alle quattro di mattina. Mattina un corno, che tira un vento gelido ed è notte fonda; ma se la Storia chiama si risponde, e io me ne sto là ad aspettarla, la Storia, ché prima o poi passa.
Il San Paolo, non la banca o l’ospedale né l’apostolo delle genti, il vero San Paolo intendo, è uno stato d’animo trasversale. Nella fattispecie, la comune sofferenza aveva cementato un rapporto tra il sottoscritto e altri tre disperati, abitudinari del secondo anello, terza uscita scalone lungo, subito a sinistra e poi cinque gradini in basso. Un’eterogenea compagnia, prima: posso dare un’occhiata al giornale? Poi: ma ti ricordi per caso quando è la prossima in casa? E infine: ci vediamo domenica prossima, venite un poco prima ma comunque vi tengo il posto. Si forma una consuetudine, poi una simpatia e alla fine un’amicizia, cementata da emozioni e ricordi comuni.
Il gruppo che aspettavo in quella notte vomerese tagliata dal vento si era formato così: eravamo quattro innamorati disperati e sofferenti con in comune la luce diversa della settimana in caso di sconfitta, e povero chi ci capitava, mamme, fidanzate o capi. Rivestivo lo scomodo ruolo dell’intellettuale, quello cui ci si rivolge tentando un improbabile italiano con congiuntivi tattici e condizionali impressionistici, per non fare cattiva figura. Una Cassazione unipersonale, da spendere nei rapporti con le diplomazie estere, quali cassiere di autogrill fiorentini o casellanti romani, la faccia pulita della spedizione, insomma. Il fatto che nell’intimo albergasse un Mister Hyde sanguinario, noto per una bestemmia di sette minuti perfezionata quando Claudio Pellegrini III, il ventisei aprile dell’ottantuno contro il Perugia, andò incontro al palo con la palla e la pancia, era una sorta di segreto di famiglia, custodito gelosamente nell’ambito ristretto del gruppo.
L’aggregazione era stata necessaria. Lo scopo era risparmiare, si doveva cercare di andare ed esserci, spendendo il meno possibile. Quindi l’atteggiamento era federativo: ci si metteva insieme e si abbattevano i costi. In questo caso l’abbattimento era rappresentato principalmente da una Regata diesel, che Raffaele, meccanico a nero detto Cassandra per l’innato ottimismo, aveva preso in prestito nel garage del padre. Caso volle che ci fosse anche il pieno, che secondo calcoli certosini sarebbe stato sufficiente per arrivare a Torino. «Tanto il ritorno è in discesa» aveva chiosato con sapienza Salvatore, geografo di chiara fama ma di oscuro mestiere, sempre vago sul proprio presente ma ferratissimo sulla storia azzurra fin dagli albori. Il quartetto era completato da Luigi, ragioniere commercialista monosillabico e sofferente. La tipologia non è casuale, bensì rappresentativa di un particolarissimo spaccato di umanità sul quale giova forse spendere una parola.
I tifosi azzurri si definiscono così: i Malati. «Io non so’ tifoso, so’ Malato.» «Quello il mio fidanzato è un Malato, la domenica non si esce.» «Non mi parlare di lavoro, oggi: ieri il Napoli ha perso, e io sto Malato.»
E hanno ragione: la loro è una strisciante, violenta patologia, con sintomatologia multiforme, assolutamente inguaribile. Si contrae in tenera età, spesso per contagio, un padre, un fratello, un amico; più spesso è genetica. Ha incubazione, decorso e crisi con una curva temporale settimanale e culmina la domenica, quando raggiunge la sua fase acuta.
Sintomatologia multiforme, dunque: unghie smangiate, occhi iniettati di sangue, ditate di sudore acido su radio e telecomandi. Urla belluine improvvise, dalle finestre aperte sui placidi pomeriggi estivi. Pugni sul muro, soprammobili in legno scagliati sui divani con rimbalzi controllati: le case dei Malati hanno sviluppato un loro personalissimo istinto di conservazione.
I contagiati si riconoscono fra loro, forse dall’espressione, forse dal colorito, ingiallito dalle transaminasi. Non si salutano, nell’incrociarsi scambiano sibilline frasi in codice: chi gioca a terzino, domenica? Come ci vai, in moto? Ma gli altri quanti squalificati hanno? Così, senza scambiarsi un saluto o un convenevole, senza chiedere, che so, della famiglia o del lavoro. Rapporti di anni e anni, conoscenze antiche senza sapere nulla uno della vita dell’altro: un solo argomento, col soggetto sottinteso. Come una società segreta.
E sintomatologia multiforme, secondo il carattere dell’ammalato: reazioni diverse a uguali eventi. Infinite tipologie, riassumibili in quattro macroclassi casualmente rappresentate dal gruppo di invasati che in quel momento, a bordo di una Fiat Regata (un cavallo di Troia, in un certo senso), andava incontro alla Storia.
Salvatore, l’Entusiasta. Sempre sorridente e intimamente felice, l’espressione gioiosa incrinata per un attimo dalla sconfitta ma l’attimo dopo pronto a riprendere le redini dell’ottimismo. Convinto di un prossimo, radioso futuro, per lui ogni acquisto di cadavere dalla serie C corrisponde all’arrivo dell’Uomo della Provvidenza, colui che porterà la squadra verso il suo nobile destino. E se non è lui, sarà il prossimo. Andiamo a vincere, e che problema c’è? Il primo ad abbonarsi, l’ultimo a rassegnarsi.
La sua antitesi è rappresentata da Raffaele, il Disfattista. Uno storico del dolore, ricorda la lunga teoria di drammi e sconfitte che costellano passato e presente di questa squadra e di questa città. Quindi, siccome la storia insegna, siamo tutti avviati verso una nuova, tragica disfatta. E perché ci vieni, allora? Perché può essere, forse, magari, ma beninteso non questa volta, eh, che acchiappiamo un mazziatone che camminiamo storti per tre mesi, può essere dicevo che una di queste volte… Ma non ci mettete il pensiero. Raffaele era all’epoca la principale causa della consunzione del cavallo dei nostri jeans.
Luigi è il Sofferente. Lui è quello che vedete piangere sullo sfondo, in tutte le foto dell’epoca o successive. Il viso sbiancato per la gioia, per il dolore, per la preoccupazione, per la tensione. In pratica, sempre pallidissimo, con un delizioso effetto Casper anche al mare, quando legge il «Corriere dello Sport» o c’è qualche torneo estivo. Vi abbranca la mano, in occasione di un rigore a favore o contro, e stringe con una disperazione assoluta. Tutti avevamo dei lividi sul braccio, avendo raggiunto il silente accordo di alternarci nella posizione al suo fianco; qualcuno oggi sarebbe invalido, altrimenti.
Per quanto riguarda me, non saprei dire. Il Malato sa di esserlo, ma non è in grado di osservarsi con sufficiente obiettività, di connotare la propria patologia. Forse sono un Arrabbiato, uno di quelli più comuni, che aprono loro stessi alla gioia e al dolore come se fossero condizioni definitive. Nelle foto, sono quello con la bocca spalancata e gli occhi spalancati e le braccia spalancate. Sto urlando. A guardare la foto non si sente.
Però si capisce.
Chiedereste a uno spartano come fu il cammino fino alle Termopili? O a un caporale di Wellington se il trasferimento a Waterloo fu agevole? Gli eventi successivi hanno spazzato dalla memoria tutto quel poco che non fu rimarchevole di quel giorno e mezzo (incredibile: un giorno e mezzo, solo un giorno e mezzo). Ricordo che tentammo di sostituire Raffaele alla guida, ma che fu irremovibile, sia fisicamente per i suoi centoventi chili per due metri circa, sia per il suo terrore che potessimo causare qualche danno all’auto, del quale avrebbe dovuto rendere conto al padre che l’avrebbe riconsegnata l’indomani.
Ricordo che il proprietario dell’auto, uomo che non conoscemmo mai ma che in qualunque paese civile sarebbe stato rinchiuso in galera, aveva un’unica cassetta musicale: le greatest hits dei Cugini di Campagna. Io non sapevo nemmeno che i Cugini di Campagna avessero delle greatest hits. Per cui il Viaggio verso la Gloria, il momento estremo della nostra carriera di Malati, il ricordo indelebile della mia vita ebbe la surreale colonna sonora de Il ballo di Peppe e Anima Mia. Non che questo ne alteri i contenuti, per carità. Ma i Queen o l’Aida sarebbero stati più appropriati.
Poco male, avevamo di che parlare. Dovevamo determinare la formazione e precostituire gli eventi. L’equivalente di una missione diplomatica mediorientale, visto che Raffaele come al solito la vedeva nera come una signora che cammina sugli specchi e Salvatore preconfigurava un pareggio, al minimo, e la prossima noi giochiamo in casa e loro fuori, noi vinciamo e loro pareggiano e li superiamo. Nessuno poteva immaginare che la realtà sarebbe stata ancora più rosea.
Luigi taceva, soffrendo. La sua tensione aveva talvolta riflessi intestinali, e questo determinò le nostre tre soste. Poiché avevamo sobriamente addobbato la vettura in modo che esprimesse chi eravamo e da dove venivamo, man mano che risalivamo la penisola gli sguardi di simpatia venivano sostituiti da indifferenza e riprovazione, di fronte alle quattro sciarpe, alla bandiera fissata sul lunotto e ai cappellini. Ma non eravamo soli, tutt’altro, e scambiammo festosi contrappunti di trombe con pullman e auto di pellegrini azzurri in viaggio verso la Mecca.
Arrivammo a mezzogiorno, ora fatidica, dopo novecento chilometri fatidici. La conversazione era andata scemando, sostituita dall’aspettativa e dall’orgoglio della sfrontatezza. Eravamo là perché ci dovevamo essere. E tanto bastava. Un passo indietro e un altro avanti, cantavano metallici i Cugini di Campagna.
Ora di pranzo. Schiere di pellegrini azzurri sciamavano sulla città dalla cupola a punta, improvvidamente vestiti come Totò e Peppino: Torino a novembre uguale freddo e pioggia, quindi cappottoni, cappelli, guanti e ombrelli. Le sciarpe a parte, naturalmente. Ma quelle fanno parte dell’uniforme, generale Wellington.
E invece, il giorno della Storia c’era un pallido sole e faceva tutt’altro che freddo: forse il Föhn, un vento caldo col nome di un asciugacapelli che scansa le Alpi e regala un’illusoria primavera in pieno inverno. Risultato, una sobria e grigia città invasa da gruppetti di meccanici di Afragola e fruttivendoli di Torre del Greco che, esumando da tascapane di incerto colore vettovaglie che avevano visto la luce almeno sedici ore prima, si accingevano a rifocillarsi sulle panchine dei giardini.
Mentre percorrevamo a bassa velocità vie senza curve e un Cugino di Campagna ci informava che una imprecisata signorina andava a piedi nudi per la strada, assistevamo a uno spettacolo per noi consueto, che si consumava ogni settimana sui noti e cari spalti. Da fagotti di carta impregnati di ogni sorta di oli animali e vegetali, ma probabilmente anche minerali, emergevano icosaedri di frittata di maccheroni, parallelepipedi di pane, salsiccia e melanzane, cubi di lasagna e piramidi irregolari di polpettone; il tutto, maneggiato da smilzi soggetti dalle costole sporgenti e dalle guance incavate. Il Malato è così: chi ama, brucia.
Noi no: noi avevamo un invito a pranzo.
La storia era questa: durante le vacanze di qualche anno prima avevo conosciuto un ragazzo, un giovane giornalista torinese grande tifoso del Toro. Avevamo simpatizzato, forse per lo stesso destino di perdenti storici con un grande futuro alle spalle, forse per il comune avversario zebrato; e, in una notte di birra, calcio e taralli in via Caracciolo, mi aveva fatto giurare che se fossi andato a vedere La Partita sarei stato suo ospite con gli amici in un posto speciale. Non potevo sapere che beffa coltivava nella sua mente granata e mefistofelica. Lo incontrammo nei pressi dello stadio, il vecchio e pieno di gloria altrui Comunale; appena ci vide, azzurri come quattro puffi giganti, sfoderò un largo sorriso e, con un luccichio negli occhi, disse: «Faccio strada».
E fece strada, conducendoci in una civettuola palazzina a due piani di fronte alle tribune: il Circolo della Stampa. Non potevamo sapere, e infatti non lo sapevamo, che quello era il vero e proprio tempio dell’intellighenzia juventina: il luogo dove convenzionalmente prima di assistere all’ennesimo trionfo, sorridendo bonari ed esclamando Ohibò, Poffarbacco e altri sintagmi del genere, giornalisti, dirigenti ed ex calciatori con signora si degnavano di abbuffarsi insieme. Tanto, di certo la digestione non sarebbe stata disturbata nelle successive due ore di maramaldeggiamento sulla pelle altrui.
Dal portiere in livrea agli uscieri, tutti spalancarono gli occhi vedendo il nostro sacrilego abbigliamento. Il mio amico se la godeva un mondo: nessuno poteva impedire a un iscritto all’albo di entrare, portando con sé gli amici che voleva. Ci ritrovammo in fila a un fintamente democratico self service, in compagnia di tanti Altafini, Ormezzani, Furini, Morini, Cuccureddi e solo il signor Panini sa chi altro. Sembrava una di quelle feste in cui, troppo tardi, ti accorgi di aver sbagliato vestito. Diedi un’occhiata ai miei amici. Devo dargli atto oggi, vent’anni dopo, che erano bellissimi: il disagio iniziale aveva lasciato il posto all’orgoglio dei poveri ma onesti, e guardavano fissi davanti per non incrociare gli irridenti sguardi altrui. Moschettieri del Re in mezzo alle Guardie del Cardinale. Questo è epos, signori.
Come Dio volle, ci ritrovammo seduti a un lungo tavolo con pietanze colorate e insapori nel vassoio, ansiosi di risolvere l’imbarazzante situazione e fiondarci al nostro posto, quelle grigie gradinate dove doveva compiersi il Destino. Di fronte a me e al fianco del celebre marito, un ex nazionale che aveva militato per vent’anni nelle file nemiche, una bellissima signora, dagli occhi azzurri e dai lineamenti fini e ironici, spiluccando un volatile osservava sorridente la mia sciarpa e il cappellino con l’effigie delle due povere piccole coppe Italia che allora, ma non per molto ancora, costituivano il magro bottino dei nostri trofei.
Sostenni lo sguardo, fiero: poveri ma belli. Belli non tanto, in verità: alla mia destra sentivo Raffaele grufolare torvo, consapevole del doloroso destino che era sicuro si sarebbe di lì a poco consumato. Più in là, Luigi stava diventando fosforescente man mano che l’Ora si avvicinava, e Salvatore sorrideva come un ebete, sentendosi tra amici e non avendo capito nulla come al solito. La signora mi rivolse la parola, col tono incuriosito di un’entomologa che incontra uno scarafaggio parlante. «Ma lei» mi disse, «pensa veramente che oggi avete una possibilità?»
Il sangue di generazioni di frustrati mi pulsò nelle tempie. «A parte il fatto che si dice “abbiate” e non “avete”, lei pensa, signora, che se non fossimo certi, e dico certi, che il Napoli oggi vincerà, avremmo fatto tutta questa strada?»
Il sorriso della signora si appannò senza scomparire. Piegando graziosamente il capo, mi rispose che, ove il Napoli avesse anche solo pareggiato, sarebbe stata lieta di offrirci il caffè dopo la partita. Attorno si era fatto silenzio: perfino Raffaele non masticava più, anche perché aveva finito tutto.
«Signora» dissi, «sarà un piacere offrirle il caffè. Perché oggi il Napoli vince. E glielo leggo negli occhi, signora: nei suoi bellissimi occhi. Azzurri, appunto.»
Il marito ebbe un lieve accenno di risata, forse non era comune sentir tacitare la signora, che un po’ indispettita si alzò.
«A dopo, allora. In ogni caso.»
«In ogni caso, signora. A dopo.»
E, a pancia piena, andammo incontro al Destino.
Il Luogo dove accadde era, a suo modo, un santuario. Un posto che aveva visto più vittorie di qualsiasi altro, e le gesta di campioni che noi, fino ad allora (e sottolineo: fino ad allora) avevamo potuto seguire solo in televisione o con la maglia della Nazionale. E quindi, austero e storico com’era, incuteva soggezione, pur essendo molto più piccolo del nostro San Paolo.
Si vedeva che non c’era la sana, simpatica abitudine di invadere il campo per partecipare, esprimendo magari un civile dissenso rispetto alle decisioni di arbitri vigliacchi e parziali: niente reti o transenne, niente filo spinato, niente cocci di bottiglia sui muretti. E nemmeno quel buio fossato che faceva un po’ castello medievale. Non c’era la pista di atletica, giustamente: un tempio del calcio serve solo per il calcio, per cui i tifosi erano a non più di venti, trenta metri dal terreno di gioco: gli sguardi, le parole, i lamenti e i rumori arrivavano chiari e forti, a noi sembrava di essere ammessi a bordo campo, abituati al nostro stadio da ottantamila (ufficiali: in realtà, di solito almeno il trenta per cento in più).
E la stessa densità, se non peggio, rispettavamo quel giorno nel settore ospiti, sfidando non solo i chilometri e gli avversari ma anche le leggi elementari della fisica: collocati di fianco e dietro una delle porte, quella scelta dal Destino, eravamo circa cinque volte più di quanti avremmo dovuto essere. Il gruppo della Regata era capitato in corrispondenza della bandierina del calcio d’angolo, dietro la di lì a poco bersagliata nuca di un guardalinee e al cospetto della Storia. Di fronte, al di là del campo, la tribuna d’onore: immaginavo due sarcastici occhi azzurri scivolare beffardi su bandiere e lasagne. E non sapeva dei Cugini di Campagna.
Le due ore di attesa sotto il sole, nemmeno tante a ripensarci, cementarono come al solito una sorta di famiglia allargata. Si stabilì la consueta, perfetta conoscenza con le altre sardine, pressate nelle due-tre file sopra di noi e nelle due-tre file sotto. In un simile contesto, il dialogo si sviluppa e si ramifica, restando sempre e comunque monotematico.
Le attuali trasmissioni sportive sui canali locali sono versioni edulcorate e annacquate di questa straordinaria intimità. Pacatamente si discorre di argomenti connessi all’Evento, un terzino piuttosto che un altro, un modulo tattico o una condizione atletica, la moralità della madre di un arbitro. Così, con serenità e distacco. A mia memoria, i coltelli sono comparsi in non più di cinque o sei occasioni.
Le ultime gradinate verso il campo furono occupate da un consesso di gentiluomini del Settecento, il Club Napoli Forcella, al solito simpaticamente abbigliati con passamontagna azzurri e maglioni neri a collo alto, campioni del mondo di sputo a squadre, in grado di raggiungere il campo da venti metri con un unico bolo; in quell’occasione non ci fu nemmeno bisogno di applicare la loro celebre conoscenza delle arti marziali. Però Luigi, la cui voce era stata trasformata dalla tensione in una specie di falsetto, notò che un incauto venditore di bibite era entrato proprio in quel settore, e gli sembrava non esserne più uscito. Anni dopo ci confidò di aver visto battere davanti al San Carlo un trans che somigliava molto a quell’ambulante torinese. Forse l’uomo aveva trovato quel giorno la sua via di Damasco.
La ritualità fu rispettata, col solito breve riscaldamento della squadra ancora in tuta sul terreno di gioco. I nostri eroi vennero fuori da un tunnel che li portò in campo da chissà quale tabernacolo, nel ventre dello stadio. Li capeggiava, al solito, Lui.
Tutt’oggi non sentirete nominare se non in condizioni di inevitabilità il Capitano di quella squadra di Dèi. Non saprei dire perché: in fondo, quel nome sarebbe sinonimo di gloria e trionfi. Molti di noi se non tutti, incluso il sottoscritto, hanno avuto in quell’Uomo la persona al mondo cui sono connesse la maggior felicità, la più grande passione, le più calde lacrime di gioia. Eppure, non lo nominiamo. Forse ci sembrerebbe di sminuirlo, dandogli una connotazione anagrafica come se, assurdamente, si trattasse di un semplice essere umano. E umano non fu mai, nella grandezza del bene, che a noi interessò, e in quella del male, che pagò sulla sua propria pelle. Sta di fatto che quel giorno, quando calpestò con le scarpe slacciate quell’erba sacra e guardò verso il muro adorante di cui il sottoscritto era un mattoncino, tirò un profondo respiro che non ricordavo avergli visto fare nelle precedenti occasioni. Seppi in quell’istante che era consapevole che quello, anche per Lui che soltanto pochi mesi prima e praticamente da solo aveva vinto la Coppa del Mondo, non era un momento qualsiasi; che il nove di novembre del magico ottantasei il vento sarebbe cambiato, una volta per tutte.
Il sottostante club Napoli Forcella, a proposito di vento, aveva aggiunto un paio di festosi fumogeni ai cinquanta cannoni di maria che si era fumato nell’attesa: a noi che stazionavamo di sopra, il connubio regalò un Walhalla psichedelico, fatto di nebbia azzurra e immagini dorate. Se non fosse stato per l’immediato flusso di adrenalina, nessuno per cinque file di spettatori avrebbe potuto superare alcun test antidroga.
Stringendosi la mano a centrocampo, le due squadre manifestavano già prima di tirare il calcio d’inizio le differenti caratteristiche. Loro belli, alti, simili nel fisico e nel tratto: Tacconi, Manfredonia, Cabrini, Serena, Laudrup. Magri, sereni, sciolti e tranquilli. E per di più, con la scritta “Ariston” sulla maglietta, in greco “il meglio”, e ti pareva. Un motto, più che una marca di cucine. Noi, invece, “Buitoni”. Ci avrebbero cucinati aglio e olio, disse Raffaele Cassandra con voce cavernosa, facendo riferimento ai due sponsor come se si trattasse di due gesti della morra cinese. Non lo degnammo di uno sguardo.
I nostri, invece: Garella sembrava un orango, senza collo sotto una massa di capelli da strega. De Napoli aveva la faccia della befana. Bagni, con le sue gambe a tunnel. Bruscolotti, con la mascella degna di uno studio del Lombroso. Sola, un nome una garanzia, sembrava uscito dal pennello di Arcimboldo, il pittore che assemblava i volti con i fiori e la frutta: in questo caso, avrebbe fatto meglio a utilizzare gli ortaggi. Quanto a Lui, be’, era come al solito: slanciato, biondo e con gli occhi color del cielo. E alto due metri, col mantello a coprirgli le ali.
Sembra strano, ma del primo tempo in cui attaccavamo verso la porta più lontana ricordo solo l’inizio.
Prontivia, come dicono oltre la linea gotica, gli dèi zebrati presero un palo. Andò così: si spinsero all’attacco sulla palla al centro, giusto per far vedere che erano ospitali, e un nostro difensore mostrando propensione alla dissenteria alleggerì in corner. Sulla parabola uscì il nostro portiere, Garella. Due parole su Garella: avete presente i portieri del calciobalilla? Bloccano essi forse la palla, la trattengono con le mani infondendo sicurezza agli altri pupazzi? No, eh? E nemmeno Garella. La prendeva, eccome se la prendeva, ma con il braccio, la testa, il carapace. Col fondoschiena, spesso, sia in senso metaforico che reale. Solo con le mani, non la prendeva mai.
Per cui, sulla parabola esplorativa di uno juventino sul calcio d’angolo colpirono due alieni, di testa, senza nemmeno spettinarsi, e la palla carambolò sul palo.
La tribuna d’onore tossicchiò, come un genitore condiscendente quando quel monellaccio del figliolo, in visita ad amici, corregge la padrona di casa che ha sbagliato un congiuntivo. Noi emettemmo un lungo gemito disperato, agonizzando. Luigi sbiancò ulteriormente, diventando sempre più simile a una statuetta souvenir di Lourdes, anche per il mantello e il copricapo azzurri; Raffaele, con un maligno sorriso, dichiarò che se lo sentiva; Salvatore, con la saggezza dell’uomo disperato, asserì che in altre occasioni quella palla sarebbe entrata, e che quello era il segno di un destino luminoso. Il club Napoli Forcella sputò ululando e ululò sputando, con uno spettacolare effetto temporale sui raccattapalle. Da parte mia, pensai che sarebbe stato un terribile pomeriggio di passione, dimostrando una volta di più di essere preveggente.
Dalla nebbia della memoria viene fuori un tiro appena alto sulla porta del Napoli che, dalla nostra postazione, sembrava dentro, con conseguenti unghiata di Luigi e bestemmia di Raffaele, di turno al suo fianco, e una Sua fiondata respinta dal malvagio Tacconi, re delle tenebre e principe degli inferi. Un paio di volte ci prendemmo una bella paura, col nostro portiere che non ne voleva sapere al solito di bloccare il pallone; e un paio di volte facemmo noi paura a loro. Si capiva che forse il pareggio andava bene a tutti, avrebbe consentito di rimandare al futuro il redde rationem, con due partite lontane, magari noi a Verona e loro a Bologna o da qualche altra parte. Non ci andava di tornare a casa, dopo tanti chilometri, avendo perso un’altra volta. E allora anche noi sardine tifavamo per il pareggio, trattenendo il fiato quando i nibelunghi attaccavano. Come che fu, arrivò l’intervallo. Zero a zero.
Chiacchierando mi resi conto che la nostra gente era contenta: ce la stavamo cavando e ce la giocavamo da pari a pari, senza paura in casa loro. Ma mancava ancora una vita. Stanchezza, sole, paura e fumi vari che provenivano dal club Napoli Forcella ci portavano quasi a desiderare una veloce conclusione senza danni.
Ma il Destino aveva già da tempo deciso che tutti gli stati d’animo avremmo attraversato in quella giornata, eccetto la tranquillità. Cinque minuti dopo l’inizio del secondo tempo ci toccò vedere da lontano, verso l’area della nostra difesa, Cabrini guardare la porta e fare un cross; ci toccò vedere Garella che, tanto per cambiare, invece di bloccare la palla la respingeva; e ci toccò vedere avventarsi sulla predetta palla Laudrup, esangue danese con la faccia da vampiro, che la mandò in rete con un tocco lieve come una carezza. La tribuna di fronte emise un sommesso urlo, aristocratico e consapevole: ancora una volta, il fato si compiva e chi doveva vincere vinceva. “Ariston”, c’era scritto sulle magliette che si abbracciavano a centrocampo. Non c’era di meglio, no?
Sul nostro settore calò un silenzio tragico. Raffaele asserì gravemente: «Lo sapevo. L’ho sempre saputo». Un esponente estroverso del club Napoli Forcella rivolse un’accorata invocazione all’anima di chi di recente era defunto in campo avverso. Luigi, bianco come un cencio, esalò un sospiro in falsetto; ancora oggi riteniamo che in quell’occasione sia svenuto, rimanendo in piedi solo perché non aveva lo spazio per accasciarsi. Salvatore, schiacciato tra me e circa duemilasettecento altri, esibì un sorriso malconcio. Non è ancora finita, sussurrò.
Era l’unico che avesse ragione.
Nel nostro silenzio lunare e nelle distanti manifestazioni di gioia dei tifosi avversari, mentre i calciatori del Napoli erano fermi, a capo chino, macchie di azzurro smorto in mezzo al verde, accadde qualcosa di straordinario: Lui corse da metà campo e andò a prendere quel pallone in fondo alla rete. Poi, col pallone in mano, si fece vicino a Bagni, quello forte, quello che doveva lottare, quello senza il cui coraggio non c’era più niente da fare. Gli prese la testa fra le mani e gli disse qualcosa.
Ecco: io ho scelto un altro fotogramma per raccontare la nostra storia. In questo momento, distiamo da quel fotogramma poco meno di trent’anni. Ma se dovessi dire quale fu l’attimo in cui nacque il Napoli dei due scudetti, della Coppa Uefa e delle mille lacrime di gioia, delle trombe nella notte a piazza Trieste e Trento e di Oj vita, oj vita mia, quello il cui ricordo ci ha dato la forza di affrontare la serie C e le interviste a Salvatore Naldi, be’, l’attimo fu quello in cui Lui e Bagni decisero con uno sguardo e una parola che quella partita l’avremmo vinta. Non pareggiata: vinta.
E la partita ricominciò.
Come se fosse arrivata la primavera, come se i barbari per una volta venissero da sud, il Napoli cominciò ad attaccare. La tromba della carica la suonò Bianchi, il nostro lungimirante e taciturno allenatore, sostituendo un centrocampista difensivo con un attaccante: uscì Sola, entrò Carnevale. Potenza dei nomi: con l’incolpevole Sola uscì dal campo lo spettro di un’ennesima pedata sui nostri sederi, una Sòla, appunto, ed entrò l’anima del riso e della felicità incontrollata, il Carnevale. E poi dite che l’onomanzia non è una scienza esatta.
Col passare dei minuti i pallidi aristocratici furono rinchiusi tra le mura del loro castello, assediati da truppe urlanti che parevano decuplicate nel numero e nelle forze. Tacconi fece cinque, sei miracoli in venti minuti: la sua successiva sopravvivenza e il fatto che tuttora non sia almeno tetraplegico è la dimostrazione che, ad onta delle credenze popolari, le bestemmie non vanno a segno. Man mano prendemmo anche noi coraggio: cominciò un unico, costante urlo da belva, come se il settore ospiti del vecchio Comunale fosse diventato un grande animale, ferito e molto, molto incazzato.
I maledetti si difendevano in undici, la tribuna di fronte taceva e sospirava a ogni pericolo scampato. Ci provarono tutti i nostri, arrivò al tiro perfino Bruscolotti e questa, credetemi, è un’altra delle cose straordinarie che successero il nove novembre dell’ottantasei. Perché Bruscolotti Giuseppe detto la Mascella di Sassano non era un uomo, era un terzino: scolpito a colpi di karate da un blocco di pietra lavica, tecnicamente dotato quanto uno gnu e altrettanto abile nel dribbling, uno che ha passato la metà campo quattro volte in carriera, una delle quali per andare in bagno con urgenza. E quel giorno addirittura tirò in porta, e i compagni lo guardarono allibiti. Calcio d’angolo. Tre, quattro, sei calci d’angolo. Due, tre punizioni. Quando il plurimaledetto Tacconi non ci arrivava, era un qualsiasi Caricola sulla linea a salvarli dalla giustizia divina. Finché.
Finché, sull’ennesimo corner, la palla rimase a rimbalzare in area in mezzo ad almeno ventisei stinchi, fino a incocciare quello giusto: quello di Ferrario Moreno da Lainate, stopper onesto e inconsapevole, noto soprattutto per le autoreti. Suo era lo stinco della Storia. Suo fu il gol del pareggio. Era il minuto ventisei del secondo tempo. Il mio affettuoso pensiero va ancora a questo milanese con la faccia da cowboy e il fisico da giocatore di tressette, che si avvia verso il centrocampo con un rachitico braccio alzato come se volesse farsi interrogare. Lode a te, Ferrario Moreno da Lainate: non sei passato sulla terra invano.
Voglio lasciare all’immaginazione di chi ascolta la violenza dell’urlo liberatorio. Avessimo almeno avuto lo spazio per muovere le braccia, ci sarebbe stato uno spettacolare gesto dell’ombrello moltiplicato per diecimila verso l’ammutolita tribuna. Eravamo felici: avevamo preso il giusto pareggio. Ora, c’era solo da tirare avanti per una ventina di minuti e avremmo rimandato di una settimana il pericolo di dover mollare la testa della classifica.
Ma qui successe una cosa straordinaria. Ancora ci si abbracciava urlando, che Lui e Bagni si fiondarono a recuperare il pallone come se il gol invece di farlo lo avessimo subito. Quei benedetti figli di puttana volevano vincere.
Appena Platini, che non credo fosse nemmeno sudato, e Serena, mobile e sciolto e con l’identica pettinatura con cui aveva cominciato la partita, ebbero battuto il calcio d’inizio, si ritrovarono in mezzo a dieci diavoli azzurri che parevano venti. Noi urlammo. I napoletani recuperarono la sfera e si fiondarono in avanti. Noi urlammo. Romano scambiò palla con Lui e si avviò verso l’area. Noi urlammo. Romano tirò in porta, col veleno nel piede. Noi urlammo. Tacconi deviò in angolo. Noi bestemmiammo.
Il corner si batté proprio sotto di noi. In area ognuno andò a piazzarsi al proprio posto. Tacconi si sputò sui guantoni. Il club Napoli Forcella sputò sui raccattapalle. Lui si avvicinò alla bandierina, guardando noi e ostentando le spalle al campo. Noi urlammo, naturalmente. Lui sorrise. Luigi urlò in falsetto, come un Cugino di Campagna. Lui si girò verso il campo e calciò verso la Storia. La palla andò verso il primo palo dove era appostato Renica, il nostro libero; l’uomo col cavallo dei pantaloni più alto di tutti i tempi. Saltò e colpì di testa all’indietro, dando così anche lui un senso alla propria esistenza.
Ed eccoci qui, ci ritroviamo nel nostro film e nel fotogramma che abbiamo salvato. Nel momento in cui si compì il Destino, e nulla fu mai più come prima.
Nello spicchio di cielo che il ragazzo romano guardava, la punta della lingua tra i denti e la spalla sinistra più avanti della destra, comparve un pianeta: un pianeta bianco e nero, che roteava dopo l’impatto con i riccioli di Renica e, secondo una parabola prevista da Dio e da Lui, sarebbe caduto proprio nel metro quadro occupato da Bruno Giordano da Trastevere, classe cinquantasei.
Chiunque altro, e in un’altra qualsiasi circostanza anche lui stesso, avrebbe scelto un comodo appoggio di testa: la porta era spalancata e il maledetto Tacconi era andato finalmente a farfalle, superato dalla sponda del nostro difensore in licenza nell’altra area. Ma non Giordano, il nove di novembre dell’ottantasei. Non lui.
Capimmo quello che avrebbe fatto: lo capimmo perché lo conoscevamo e lo amavamo, godevamo delle sue geniali prestazioni domenica dopo domenica; e tuttavia ci augurammo che per una volta non lo facesse. Che scegliesse la soluzione più facile. Che non gettasse via con un errore l’occasione più importante della nostra vita, e della sua.
Ma Bruno Giordano portava il nome, ancorché invertito, di uno che per coerenza era bruciato sul rogo; era uno che aveva avuto fame da piccolo e problemi con la giustizia, anche in famiglia. Era uno che aveva buttato i Mondiali per una scommessa. Era uno che le cose semplici non le aveva mai fatte. Era un genio.
E secondo il proprio genio, Giordano si librò in aria come un Uccello del Paradiso. Si dispose in orizzontale rispetto al terreno. Si avvitò nel proprio spazio, di cui era padrone assoluto. Colpì il pallone in mezza rovesciata, di pieno collo piede, con tutta la forza della sua classe e delle mille occasioni gettate al vento.
Il rumore, che arrivò distinto a noi che trattenevamo il fiato, fu quello di un tappo di champagne sputato fuori dalla bottiglia, e la rete che si gonfiò parve il liquido schiumoso e ubriacante che ne zampilla fuori. Ricadendo al suolo, Giordano Bruno da Trastevere si alzò e corse sotto di noi, battendo le mani. Lui a noi. Battendo le mani.
Ho quasi sessant’anni, due splendidi figli e una dolcissima compagna. Ho un lavoro gratificante e ho avuto tante soddisfazioni dalla vita. Ma mentre parlo, qui, oggi, e cerco di raccontarvi cosa fu quell’attimo, ancora tremo e ho la pelle d’oca. E se tra voi qualcuno c’era, sa di cosa parlo.
Il caos sugli spalti non fu concepibile. Mi ritrovai con in braccio un uomo tracagnotto, baffi, cappellino con visiera e maglietta azzurra numero tre, che mi baciava piangendo. Giuro che non c’era nelle tre file sopra, né in quelle sotto. Non so dire da dove fosse caduto, ma era caduto, era felice e piangeva. E anche io, ero felice e piangevo. E Raffaele, Salvatore e Luigi erano felici e piangevano. Il club Napoli Forcella era felice e sputava.
L’uomo coi baffi rotolò altrove, altri tifosi da baciare in lacrime. Anni dopo lo avrei ritrovato, nei panni di Super Mario, in un videogioco del mio bambino: uguale, se non fosse stato per la maglietta a righe.
Mancava ancora un quarto d’ora più recupero, ma nessuno, in campo e sugli spalti, pensò nemmeno per un momento che la Juventus potesse pareggiare. Il vento era cambiato, ed era un vento del sud. Lo stesso vento che, all’ultimo minuto, trasportò sulle proprie ali in campo aperto Volpecina Giuseppe da San Clemente, provincia di Caserta, onesto terzino, in contropiede verso uno sfinito Tacconi che non aveva più miracoli in tasca. Uno a tre. Li avevamo lasciati indietro: non ci presero più per quattro anni. I quattro anni più belli per i Malati, quelli che ancora ci avvelenano la vita dello stesso veleno di un cieco che ricorda i colori. Quando l’arbitro fischiò quasi ci dispiacque, avremmo volentieri maramaldeggiato per altre cinque o sei ore, troppi schiaffi ci dovevamo togliere dalla faccia. Ricordo che rimanemmo là per una mezz’ora ancora, sorridendo ebeti, resi ottusi dalla felicità incredula e dai suffumigi che il club Napoli Forcella non aveva mai smesso di somministrarci. Che Dio li benedica, quei bravi ragazzi, e gli porti conforto in tutte le celle dove oggi abitano.
Uscimmo dal tempio violato con un futuro che non avevamo quando eravamo entrati; volli passare con una Regata che era stata una zucca e ora era una carrozza alata per il Circolo della Stampa, memore di due occhi azzurri e desideroso di trovarli arrossati.
Vorrei raccontarvi di un travaso di bile, o magari di un nobile sorriso aristocratico; vorrei dirvi del saper perdere, merce rara. Ma non posso dirvi niente di tutto ciò: il Circolo della Stampa era chiuso, sbarrato. Quando la sconfitta è così rara, non si riesce a gestire.
Ho un ricordo etilico del ritorno, nelle nebbie di una pianura padana invernale, e di un’ubriacatura di gioia. Anima mia, torna a casa tua, implorava il Cugino.
E noi tornammo, rauchi e assorti, la bocca chiusa a trattenere il nuovo gusto della vittoria. E tornammo velocemente. In fondo, Salvatore aveva ragione.
Il ritorno era in discesa.