MARTEDÌ

Salsicce e friarielli, padri e figli

Il Professore cominciava a orientarsi sulle particolarissime dinamiche che regolavano i rapporti umani nel bar di Peppe, e si chiedeva come avesse potuto trascurare per decenni così colpevolmente, dal punto di vista scientifico, quel luogo meraviglioso.

La dimensione ridotta favoriva la collettività della conversazione, che iniziava col primo cliente assonnato che si trascinava verso il banco, attirato dall’aroma che veniva fuori dalla macchina del caffè e continuava di fatto per l’intera giornata, animata da estemporanei opinionisti che entravano e uscivano, inserendosi nel tessuto del dialogo senza mostrare il minimo disagio e senza chiedere cosa fosse stato già detto. L’incredibile, almeno per il Professore, era che assai raramente qualcuno ripeteva una delle decine di articolate analisi tecniche illustrate in precedenza: sembrava che, una volta usciti dal bar o prima di entrare, avessero ascoltato in auricolare su una segreta stazione radiofonica la diretta di quanto già detto.

In un primo momento il Professore aveva creduto che fossero tutti clienti fissi, la cui consolidata amicizia con Peppe e gli altri consentisse questo assai confidenziale atteggiamento, ma si era presto reso conto che non era affatto così; semplicemente, continuavano tutti a voce alta un filo del discorso che avevano in perenne svolgimento interno. Né, in quel primo giorno di osservazione, il Professore era riuscito a identificare qualche normotipo, qualche categoria di soggetti che fosse riconoscibile anche all’esterno del bar.

I conversatori impressionisti, questi macchiaioli del tifo appartenevano alle più disparate condizioni sociali e culturali. Aveva sentito un’attempata signora dai capelli azzurro metallizzato e gli occhiali trattenuti da una catenina di brillantini lamentarsi dell’errato utilizzo da seconda punta di un certo slovacco chiaramente da piazzare a centrocampo, zittendo un nerboruto camionista che invece l’avrebbe visto meglio in panchina, in favore di un brevilineo calciatore belga. E aveva assistito a un vivace scambio di opinioni tra una dodicenne gravata da uno zaino pari al suo intero peso, che chiariva che secondo il suo punto di vista il portiere schierato insistentemente dall’allenatore aveva solo un’evidente deficienza nelle uscite, e uno sbrigativo medico dentista che avrebbe preferito vedere le capacità del suddetto portiere utilizzate come parcheggiatore all’interno dello stadio, data l’assoluta inadeguatezza nel ruolo.

Insomma, impossibile la riduzione in categorie; ma ciò nulla toglieva alla spettacolare formazione di una tribuna collettiva, nella quale venivano meno tutte le paturnie, le timidezze e le reticenze così comuni nel resto della vita relazionale. Ognuno ascoltava dieci secondi di conversazione bevendo il caffellatte o il succo di frutta, poi riponeva rumorosamente la tazza nel piattino e interveniva scuotendo il capo e portando infine la luce sulle ottenebrate menti altrui. Fantastico.

Ferma restando l’imprevedibilità dell’affluenza nel corso della giornata, nella quale a lunghi momenti di vuoto in cui, a parte Ciccillo che continuava a girare per il locale come una pallina da flipper pulendo e lucidando qualsiasi oggetto, nulla sembrava muoversi nell’universo, si alternavano affollamenti clamorosi che al Professore facevano sembrare inadeguato anche un bar grande il triplo, c’erano un paio di ore topiche in cui si poteva contare su un numero congruo di avventori. La colazione era uno di questi momenti; il pranzo un altro.

Il bar di Peppe, in quanto bar di Peppe, non era il ristorante di Peppe. I tavolini erano solo due, di cui uno sacrificato in nome del progresso della scienza al Professore, e l’altro sapientemente tenuto per chi aveva qualche bella storia da raccontare. La mensola con gli sgabelli che consentivano di mangiare in precario equilibrio e faccia al muro non costituiva certo una grande attrattiva per gente comunicativa come gli avventori del bar e veniva occupata solo dai pochi che non avevano voglia di mollare le angustie solipsistiche dei piccoli o grandi problemi quotidiani.

Qualcuno avrebbe potuto chiedere: ma allora perché avendo una sola, misera ora di intervallo lavorativo, con tanti ristoranti e pizzerie e fast food e gelaterie e paninoteche e birrerie e friggitorie in zona, in tanti sceglievano di nutrirsi precariamente stipati in un bugigattolo?

La risposta venne fuori proprio il martedì, quando anche al Professore fu recapitato per mano di un solerte e rapidissimo Ciccillo, che a quell’ora diventava così veloce che il movimento delle mani diventava indistinguibile a occhio nudo, un panino con la salsiccia e i friarielli.

Al primo boccone il Professore capì tutto. Capì per quale motivo un sacco di persone si accalcavano in precario equilibrio, col più che concreto pericolo di imbrattarsi irreparabilmente o di rovinare senza appello l’abbigliamento altrui con schizzi d’olio e frammenti di cibo, pur di mangiare al bar di Peppe.

Il panino salsiccia e friarielli con provola affumicata che veniva servito in quell’esercizio era un pezzo di Paradiso. Una sintesi perfetta tra il gusto di un piatto elaborato e la velocità di uno spuntino, tra la cura della cucina tradizionale e la funzionalità di un tampone rapido alla fame di mezza giornata. Oddio, non il massimo in termini di leggerezza e digeribilità: ma volete mettere l’amalgama fornito dalla provola calda e filante alla morbidezza della salsiccia e al sapore piccante delle cime di rapa ripassate in padella con olio extravergine e peperoncini?

Deborah con l’acca batteva scontrini su scontrini, i mugolii di piacere si intensificavano e la conversazione scorreva fluida. Le percentuali degli argomenti stavano variando rispetto al giorno precedente, in cui i commenti sulla partita giocata assommavano alla quasi totalità; il martedì cominciava timidamente a imporsi, in misura di circa il venti per cento, la preparazione al match della domenica successiva. Tenevano banco le analisi sullo stato di forma dei singoli e le possibilità di rientro degli infortunati: il bar doveva concepire la sua ipotesi di formazione, e si era ancora in alto mare.

Dal canto suo il Professore si era accorto di una interessante e molto celata situazione che concerneva il personale: Ciccillo, ogni tanto, sostando per frazioni di secondo come un colibrì ripreso da «National Geographic» in slow motion, lanciava occhiate a Deborah. Una cosa pressoché impercettibile, mascherata all’interno di un frullante svolazzare in giro per il locale con una pezza in mano, ma evidente allo spirito d’osservazione allenato dell’anziano insegnante, abituato ad avere a che fare coi ragazzi di quell’età. Non ci si poteva sbagliare: c’era un interesse.

Ciccillo era un immigrato della seconda generazione. I suoi genitori erano arrivati da molto lontano e si erano scavati con la fatica e col sorriso uno spazio nella difficile, asfittica realtà lavorativa di una città che fra i tanti suoi difetti almeno non conosce l’intolleranza razziale. Lui era nato qui, e aveva coniugato il sorriso e l’attitudine al lavoro dei suoi con un simpatico dialetto con uno strano accento che faceva sorridere e attirava gli affettuosi sfottò dei commercianti dei dintorni. Tutti gli volevano bene, e le mance erano generose; ma c’era una persona che non lo degnava della minima attenzione.

Deborah sembrava presa soltanto dalla vita esterna che le arrivava tramite il cellulare incastrato tra spalla e testa. Era nipote della moglie di Peppe, chiara di carnagione, bionda e sovrappeso, un po’ troppo truccata e molto chiacchierona. Il lavoro, come il Professore aveva rilevato immediatamente, non risentiva della illustrata sua costante distrazione: le mani della ragazza erano sempre in movimento dentro e fuori il cassetto di banconote e monete, e utilizzando l’orecchio libero rispondeva con immediata precisione alle numerose telefonate con le ordinazioni da uffici e negozi della zona.

Era allora che si concretizzava l’unica attenzione che Deborah concedeva all’adorante e silenzioso Ciccillo: senza guardarlo gli allungava un biglietto con l’indirizzo, o glielo diceva a voce, senza mai aggiungere nemmeno un richiamo. Una macchina perfetta che concedeva poco, per non dire nessuno spazio al contatto umano.

Non si sapeva se Deborah avesse relazioni, o se ne volesse avere. Nessuno veniva a prenderla alla fine del lavoro, nessuno l’accompagnava la mattina presto. Non mancava mai e, come già raccontato, nessuno mai l’aveva vista all’esterno del bugigattolo della cassa. Il Professore, che manteneva viva la curiosità per qualsiasi forma di relazione interindividuale, si ripromise di chiedere qualche notizia a Peppe: nel frattempo provava una punta di dispiacere per il povero Ciccillo, che soffriva, per lui evidentemente, in assoluto silenzio. Ma non più di tanto, però: vent’anni lui, diciotto lei. Che meravigliosa età.

Ai fini della ricerca il Professore aveva capito che i momenti ottimali non erano quelli della massima affluenza. Troppo chiasso e troppa partecipazione ai temi della scottante attualità per cedere alla voglia di ricordare, o di aprirsi a confidenze sulle radici intime della passione. Era quello che interessava al Professore, su quello voleva basare il suo saggio. Gli effetti più profondi del tifo, un fenomeno apparentemente effimero, sugli altri sentimenti; sulla formazione delle emozioni che fanno da struttura portante al resto dell’esistenza.

Quel martedì la pioggia era andata scemando, lasciando il posto a un gelido vento che veniva da chissà quale inospitale tundra nordica.

Peppe lasciò il retrobanco, quando fu uscito l’ultimo cliente del pranzo, per andare a chiudere la porta.

«Mamma mia, che vento. Questa è l’unica cosa per la quale questo vicolo è terribile: una galleria del vento. Se fuori tira vento, qua ne tira il doppio.»

Il Professore metteva ordine fra gli appunti:

«Ma secondo te, Peppi’, nei rapporti familiari questa passione come si sviluppa? Cioè, nella prospettiva delle difficoltà relazionali che oggi sussistono tra i componenti del nucleo, come…».

Peppe scoppiò a ridere:

«Professo’, ma come parli difficile! Vuoi sapere se padri e figli si parlano, e se parlano di pallone? E se parlare di pallone migliora questi rapporti?».

Anche il Professore sorrise.

«Sì, più o meno. Diciamo così.»

Il barista consultò l’orologio:

«Guarda, potresti essere fortunato. Oggi è martedì: nel pomeriggio passano quasi sempre certi clienti che ti possono spiegare qualcosa che, da questo punto di vista, ti potrebbe servire».

In effetti dopo mezz’ora entrò, fregandosi le mani, un uomo alto e piuttosto imponente, di mezz’età. Portava un pesante cappotto e non sembrava particolarmente incline a chiacchierare.

Peppe ricambiò il cenno di saluto e gli fece il caffè. Dopo un po’ gli chiese:

«Dotto’, come va vostro figlio? Sempre bene all’università?».

L’uomo annuì, con un sorriso:

«Sì, per fortuna benissimo. L’ho lasciato proprio adesso, quando ci mettiamo a chiacchierare perdiamo la nozione del tempo. Non siamo d’accordo sul centrocampo, lui dice che va bene a due, io dico che sarebbe meglio coprirci di più. Lo sai, i giovani sono sempre più spregiudicati».

Peppe sorrise:

«Mi ricordo quando gli avete scritto quella lettera. Me lo raccontaste, avete presente? Proprio una bella storia».

L’uomo rispose al sorriso, scuotendo il capo:

«Eh, mi ricordo, sì. E ho fatto bene, perché allora parlavamo poco e invece ora abbiamo ricominciato. Il problema, Peppi’, è che uno coi figli una cosa non condivide: i ricordi. Ma se i ricordi sono importanti, vanno condivisi perché ci si possa veramente intendere. E allora io decisi di scrivergli una lettera, per raccontargli una cosa che fa parte di me. Per aiutarlo a capirmi, per fargli fare uno sforzo. Come mi sforzo sempre io, che sono suo padre, per capire lui».

Peppe rimase pensoso per un po’. Poi disse:

«Dotto’, perdonate la faccia tosta. Questo è un mio amico, è un professore e sta preparando una ricerca proprio su quella cosa là. Se avete cinque minuti, ve la posso chiedere la cortesia di raccontarglielo pure a lui, quello che scriveste a vostro figlio? Ma se non volete, per carità, fate come se non ve l’avessi detto».

L’uomo si voltò verso il Professore, che si alzò a mezzo per salutarlo con un inchino. Ci pensò su, poi sorrise e si sedette all’altro tavolino.

«Sapete» cominciò, «con mio figlio io parlavo poco. Proprio poco. Allora un giorno mi misi, e gli scrissi una lettera. Per raccontargli del dieci di maggio.»