Non parliamo molto, noi due. E non capisco perché.
Certo, tu hai l’università, gli amici, la ragazza. Mille attività, lo sport, la lettura. E io, il lavoro il lavoro il lavoro, e la stanchezza catatonica del ritorno a casa, mascella pendula e telecomando in mano.
Tutti e due poi abbiamo il maledetto pc, sempre a scribacchiare e soprattutto a cazzeggiare, Twitter, Facebook, e-mail e le mille altre diavolerie che ci arrivano addosso. Ma parlare un po’? Mai. A cena, forse, a bocca piena, con la televisione a blaterare in sottofondo, ma che film vediamo stasera, no, io devo uscire. Insomma non parliamo molto.
Argomenti in comune ne avremmo. Anzitutto ci vogliamo bene, questo è fuori discussione. E alla famiglia ci teniamo, ce la siamo difesa coi denti e le unghie tra mille avversità. Leggiamo le stesse cose, vediamo gli stessi film; e poi i soldi, le cose da fare, le vacanze.
Però parlare, quella è un’altra cosa. Si tratta di sedersi, guardarsi dentro. O anche passeggiare, ma senza dover andare da qualche parte per forza; magari fermarsi davanti al mare, a osservare l’acqua e le buste di plastica che galleggiano. Parlare di presente, di futuro. Di passato.
Se parlassimo, ti racconterei le cose grandi e piccole che ho avuto prima di te, quando non c’eri. Quando ancora non mi ti avevano portato, fasciato in un lenzuolo con gli occhi chiusi; prima che tenerti in braccio mi dividesse la vita in due parti. Ti racconterei cercando tra le emozioni più forti, tra le bombe che mi sono scoppiate nell’anima.
E se me ne chiedessi la classifica, come fai sempre, per prima cosa ti racconterei del dieci maggio dell’ottantasette.
Magari qualcuno scuoterebbe la testa, tra il divertito e lo scandalizzato, se sentisse un uomo adulto mettere in testa ai ricordi di una vita intera una sola giornata, con all’interno una partita di calcio. Ma questo qualcuno, per scuotere la testa, dovrebbe non essere napoletano e non essere stato a Napoli il dieci maggio dell’ottantasette. Se invece ci fosse stato, direbbe ah, ecco, e sorriderebbe con aria sognante. Anche senza essere tifoso, anzi malato: malato d’amore, malato di rabbia, malato di passione. Per il Napoli, naturalmente.
Ci sono dei giorni, sai, ai quali arrivi comunque impreparato. La laurea, il matrimonio; la morte di una persona cara, anche se dopo una lunga malattia. Il trasferimento dal luogo in cui hai abitato per anni, o dalla tua città. Ci pensi, ci ripensi, predisponi le cose, prepari tutto: ma quel giorno ti arriverà comunque tra capo e collo, sarà improvviso in ogni caso, per quanto abbia riempito i tuoi pensieri attimo dopo attimo per un sacco di tempo. Così fu per questa città quel giorno, in cui l’alba arrivò tardissimo e trovò quasi tutti svegli, a occhi spalancati in letti che sembravano irti di chiodi come quelli dei fachiri indiani.
Me lo ricordo come fosse adesso. I pochi minuti di sonno che ero riuscito a strappare all’attesa spasmodica del sole erano stati popolati da incubi: perdevamo, l’Inter vinceva e l’ordine veniva ristabilito. Legioni meste arrotolavano bandiere e striscioni e si usciva dallo stadio a testa bassa, in silenzio. Nessuno aveva il coraggio di guardare gli altri in faccia. Mi ritrovai seduto, sveglio e sudato, gli occhi spalancati dal terrore. Uscii sul balcone, praticamente ancora di notte, e con sorpresa vidi un sacco di uomini in canottiera affacciati alle finestre, che fumavano spettinati: non era una notte fatta per dormire, quella. E molte facce segnate dal sonno e dalla passione avrei visto, prima che il sole calasse sull’amore e sul trionfo, il dieci maggio dell’ottantasette.
Nando
Voi non ve lo ricordate, dotto’, perché ancora non ci conoscevamo; ma io allora lavoravo a giornata nell’officina di don Mario Acampora, non tenevo ancora l’attività mia, mi stavo imparando il mestiere. Non ero ancora maggiorenne, ma tenevo già le mani d’oro, il mastro mi ripeteva che sarei diventato il meglio carrozziere della città, e così è stato, come mi dicono i clienti miei prima che gli faccio vedere il conto. E comunque malato io lo sono sempre stato, da dentro alla pancia di mammà che mi raccontava sempre, buonanima, che quando il Napoli segnava per radio io zompavo che gli facevo certe bozze che pareva quel film dell’alieno, là. E insomma, man mano che il campionato andava avanti io facevo una cosa, una specie di voto: mi conservavo i pezzi di Cinquecento che avanzavano dalle riparazioni, quelli che non si potevano mettere a posto e si dovevano per forza cambiare. Me li portavo nello scantinato sotto casa mia e provavo ad aggiustarli, con le mani e qualche attrezzo. Mi ero ficcato in testa di costruire una macchina un poco alla volta, di verniciarla tutta azzurra e, il giorno della vittoria, andarci in giro con la bandiera. Perché, dotto’, io ve lo devo dire: ero sicuro, ma sicuro sicuro, che noi quell’anno il campionato lo vincevamo. Se vi dovessi spiegare perché, io non lo so, mica eravamo i favoriti: quelli erano i soliti, Juventus, Inter, Milan, la Roma di Erikssòn, che un altro poco e vinceva quello dell’anno prima. Ma io, io me lo sentivo: quell’anno vincevamo noi. E siccome ero sicuro, i pezzi che si dovevano buttare dicevo che li buttavo, e invece me li tenevo a casa, e martellavo di notte, che i vicini mi volevano ammazzare, e li mettevo a posto. E man mano, io aggiungevo un pezzo e il Napoli una vittoria, mi pareva che la stavamo costruendo insieme, la festa. Mi ricordo che il motore lo andai a prendere allo scasso di Poggioreale il trenta di marzo, dopo che battemmo la Juventus in casa, due a uno, Renica e Romano per noi e Serena per loro. Mi spesi la paga di due settimane, per comprare quel motore: ma sono stati i soldi meglio spesi di tutta la vita mia, sono stati.
E comunque il sole sorse; alla fine sorge sempre. Fu un sollievo. Tirai fuori i vestiti da stadio, lo stesso jeans, le scarpe pesanti con tutto che faceva caldo perché erano quelle di Torino, Juve-Napoli uno a tre, e chi se le poteva mai cambiare: se qualcosa doveva andare storto, non poteva essere certo per colpa mia. E i paramenti sacri, cappello, sciarpa e bandiera indossata a mantello: ero uno degli eletti, mica uno qualsiasi. Uno di quelli che, dall’indomani e per cento anni, avrebbero potuto dire che c’erano stati.
Io non so come si sentissero i garibaldini partendo da Quarto, ma credo più o meno così: si entrava nella Storia e non se ne sarebbe usciti, dalla Storia, mai più. Se no, che Storia è?
Con gli altri non avevamo fissato un orario, semplicemente perché era inutile. Ci saremmo visti fuori al varco della B, e chi arrivava per primo avrebbe aspettato: ma di certo saremmo stati tutti lì da ore, quando i cancelli si sarebbero spalancati sulla nostra passione.
Mario
Mia moglie se n’era andata una notte di cinque anni prima. Una vita insieme, a lavorare e buttare il sangue per costruire qualcosa, e una mattina la vado a svegliare e lei non apre gli occhi. Emorragia cerebrale, disse il dottore, facendo segno di no con la testa. E segno di no facevo io, e ancora mi pare impossibile, mo’ che sono passati trent’anni e mi sono fatto vecchio quella mattina, dotto’, all’improvviso, quando mia moglie se n’è andata senza avvertirmi. Che poi, dico io, che ci voleva a dirmi Mariettie’, non mi sento bene, portami a far vedere? Quella ha sempre tenuto la capa tosta, fino alla fine. Chissà che si pensava, di non dovermi fare preoccupare. Diceva sempre così a Luca, nostro figlio, non fare preoccupare a papà. Ma non era meglio che mi preoccupavo, invece di rimanere senza di lei? E insomma rimaniamo soli io e Luca, senza tenere che dirci, io e lui. Io sono ignorante, dotto’, un vecchio ignorante che sa fare solo il mestiere suo, a testa bassa e con le mani sporche di vernice e grasso, un carrozziere che a stento sa leggere e scrivere, che poi per l’età non ci vedo nemmeno bene; e Luca era uno studente, che non doveva fare la vita che ho fatto io, si doveva mettere la cravatta la mattina per andare a lavorare, a orario di signore, no come a me, che il sole arriva che già sto faticando da un’ora. E che ci potevamo dire, io e lui? Niente. E niente ci dicevamo, io a faticare e lui a studiare. Ma forse a pensare tutti e due alla stessa cosa. Alla stessa persona, che ci mancava e che non avremmo visto più.
E infatti ci trovammo là che erano le dieci, arrivati più o meno insieme. Li conosci, i miei amici dello stadio: per capire com’erano allora te li devi immaginare con i capelli, e senza gli occhiali per leggere. Più seri di oggi, che la vita ci ha insegnato a ridere spesso quando siamo insieme, e poi i giovani, lo sai, sono sempre più seri dei grandi; e quel giorno ancora di più, perché ci avviavamo nella Storia tutti bardati come si conveniva, in divisa per la marcia decisiva.
Raffaele lo hai presente: due metri quasi, e centocinquanta chili che all’epoca forse erano due o tre in meno. Accigliato e pessimista, scaramantico fino all’esasperazione, quella mattina ci salutò dicendo: «È sicuro, ce lo levano dalle mani, vedrete. O l’arbitro o qualcos’altro, magari un terremoto o un fulmine sul pallone; ma non può essere, che ce lo fanno vincere». I soggetti sottintesi erano diventati due: il Capitano (che non c’era bisogno di nominare, era “isso” e tanto bastava) e lo scudetto, che allora era semplicemente “il Coso”. Fino a quella sera nessuno lo chiamò per nome, sembrava impossibile che si trovasse nella stessa frase con la parola Napoli.
Per noi tre era istintivo, appena Raffaele apriva bocca tutti con le mani sul davanti dei pantaloni, a schermare la sfortuna, anche se lui diceva quelle cose proprio per il motivo opposto. Salvatore, il nostro ottimista, si era invece combinato come un pazzariello di quelli che annunciavano anticamente l’apertura di un nuovo negozio: attenzione, battaglione, è asciuto pazzo ’o padrone. Un cappellone azzurro e bianco con i sonagli, cucito apposta dalla nonna, precorrendo inconsapevolmente la moda del successivo secolo; la storica maglietta di due anni prima, ormai di un colore indefinibile, a fissare l’indelebile ricordo settembrino dell’esordio del Capitano nel nostro campionato. Ne’, Salvato’, ma pure oggi questa maglietta?, gli dicemmo. E certo, aspetta dall’ottantaquattro, ma proprio oggi non me la dovevo mettere? E fu il turno di Raffaele di grattarsi: i due avevano un concetto diametrale di scaramanzia, uno invocava la buona sorte e uno faceva finta di ignorarla per esorcizzare quella cattiva.
Luigi, il sofferente ragioniere che sbiancava e sveniva ogni volta che la tensione saliva, pareva colpito da una paresi, il volto contratto in una smorfia dolente e il colorito delicatamente fumé; ci rivelò che non dormiva da cinque giorni, e non riusciva a mangiare. Ricordo che Raffaele si augurò lugubre che in un modo o nell’altro la faccenda si decidesse quel giorno, che altrimenti il successivo campionato avremmo avuto un posto libero in macchina per le trasferte. Di nuovo tutti a grattarsi, e Luigi un po’ di più.
Luca
Papà è un bravissimo uomo, sapete. Una persona perbene, un lavoratore, uno che fa sacrifici da sempre. Però io non ci riuscivo a parlare. Io parlavo con mamma, lui parlava con mamma e lei parlava con tutti e due; quando morì ci ritrovammo senza sapere che dire. Ci volevamo bene, sia chiaro, e ci vogliamo bene assai pure mo’, che sono passati tanti anni; io lo vado a trovare due volte la settimana, la domenica me lo vado a prendere e lo porto a casa, i bambini sono felici, gli fanno un sacco di feste. Ma quei primi anni dopo che mamma morì pareva che non riuscissimo più a comunicare. Ogni tanto mi chiedeva come andava l’università e io gli domandavo del lavoro, ma a nessuno dei due interessavano le risposte. Prima almeno c’era la domenica. La domenica c’era il Napoli, la passione della povera mamma; sentivamo la radio, io e lei, e facevamo i commenti, ci abbracciavamo a ogni gol, io da piccolo piangevo pure, quando si perdeva. Mamma era la vera tifosa, si arrabbiava, si lamentava degli arbitri; a papà invece del calcio non gliene importava niente, diceva che era una cosa da selvaggi, che non capiva tutta quell’esaltazione. E io e mamma ci guardavamo e ci mettevamo a ridere. Se n’era andata prima di vedere la scalata verso la cima della classifica, prima di vedere il nostro Capitano alzare la Coppa del Mondo, prima di vedere l’alba del giorno giusto. Madonna, quanto mi mancava, quel giorno; e sono sicuro che pure papà sentiva ancora di più la sua assenza, la settimana che precedette il dieci di maggio. Ma non lo diceva. Non diceva mai niente, se è per questo; parlava coi ragazzi dell’officina, molto più di quanto parlasse con me. Era con loro, che aveva qualcosa in comune.
Il piccolo mondo del settore di curva B che il nostro gruppetto occupava era diverso, quel giorno. Ma, a ripensarci oggi, tutta la città era diversa. L’atmosfera era strana: ci si aspettava ovviamente qualcosa, si preparava una festa che non poteva essere improvvisata per riuscire maestosa, e tutto il mondo avrebbe dovuto rimanere a bocca aperta, se le cose fossero andate per il verso giusto. Quindi le pareti di tufo di antichi palazzi erano state verniciate nottetempo d’azzurro da mani insonni, balconi e finestre erano stati uniti da pittoreschi striscioni e festoni colorati, scritte in rima campeggiavano nei vicoli bui, al posto delle lenzuola bandiere azzurre sventolavano nel vento primaverile; eppure, tutti si comportavano come se fosse una giornata normale. Oggi penso che più della naturale scaramanzia, a prevalere fosse il terrore di un’altra cocente delusione, che stavolta sarebbe stata veramente insopportabile.
E forse si temeva anche che la festa avrebbe dovuto essere rimandata alla settimana successiva, quando avremmo giocato in trasferta: certo noi quattro ci saremmo andati, eravamo stati ben più lontano e per ben più miserevoli occasioni; ma vuoi mettere, festeggiare in casa? Uscire in trionfo dal luogo che ci aveva riservato per decenni casuali soddisfazioni, frequenti illusioni e svariate delusioni cocenti?
Ecco il perché di quell’atmosfera strana: tensione, aspettativa, emozione. E silenzi, sguardi sfuggenti, scatti improvvisi. Mi ricordo che sentivo un tremito per tutto il corpo, e un persistente mal di testa: incredibile, eh?
Forse oggi che sei all’università ricordi così la notte prima della tua maturità: una notte di chilometri nella tua stanza, rincorrendo le nozioni che ti sembrava di aver dimenticato, e che l’indomani si sarebbero presentate puntuali alla tua mente davanti alla commissione; solo che noi, quella volta, all’esame potevamo solo assistere.
Nando
La macchina la finii proprio quella settimana, con l’aiuto di Gigino l’elettrauto, che allora era un guaglione di bottega come me, e di Franco, il figlio del meccanico della Vicarìa, che si era occupato del motore. Ognuno per la sua parte, dotto’, come quello, come si chiama, Franchestàin, pezzo a pezzo. Io avevo dipinto tutto di azzurro, e quanto era bella, meglio della Fiat: perfino la cappottina ci avevo tolto, così potevamo stare all’impiedi e girare per tutta la notte all’erta, con le bandiere in mano. Allo stadio non entravamo, e chi se li poteva permettere i biglietti o gli abbonamenti, a quell’epoca: coi soldi si doveva mangiare, si dovevano portare a casa, mica si potevano fare fesserie. Ma la macchinetta per festeggiare l’avevamo costruita, e pure se non c’era la targa e nemmeno il libretto di circolazione, ne’, dotto’, ma chi ci doveva fermare, se le cose andavano come dovevano andare? E perciò dalla mattina ci mettemmo a piazzale Tecchio, verso la stazione dei Campi Flegrei, con la macchina puntata verso la galleria, pronta a partire: della radio non c’era bisogno, se le cose andavano bene lo sentivano pure i santi in cielo. Ce lo dicevano quelli che stavano dentro, beati loro.
Se noi quattro eravamo il gruppo delle trasferte, quello che sarebbe poi rimasto coeso negli anni a venire condividendo altre gioie, molti dolori e tante lasagne, ciò non vuol dire che esaurivamo il novero degli abitanti del nostro settore; anzi, a riunirci una domenica sì e l’altra no al secondo anello, terza uscita scalone lungo, subito a sinistra e cinque gradini in basso, eravamo in tanti. Nel nostro piccolo, un condominio.
Devi sapere che in curva la partita non si guardava: si giocava. Quando tornavi a casa eri distrutto dalla fatica, spesso dovevi andartene dritto a letto. Non ricordavi niente se non qualche azione, alla tua mente si presentava un caleidoscopio di sensazioni e colori, ampiamente secondari alle emozioni violente che avevi provato. Il dolore, la gioia, la rabbia, l’amore erano moltiplicati per cento, per mille quando eri in curva: una cosa da giovani, un cuore debole non ce la faceva. Così almeno era a quei tempi: oggi vedo striscioni politici in rima, sento cori che entrano nel merito delle attività finanziarie dei presidenti, assisto a scioperi del silenzio e a pogrom contro le forze dell’ordine. Non è una curva; è un partito. Ma lo trovano, il tempo di guardare l’incontro?
Ecco, ci sono cascato: ho detto “a quei tempi”. Invece ti devo raccontare come fosse oggi, per farti capire dov’ero e perché, e che cosa non hai visto perché non eri ancora nato.
Allo stadio c’era solo una delegazione della città, questo va detto. È una cosa diversa, molto diversa da oggi. Oggi allo stadio ci vanno alcuni personaggi naïf, gente che vuole vivere dal vivo un’emozione rinunciando alle dodici telecamere e alla moviola in tempo reale, nonché alle inquadrature che ti mostrano le scatarrate dei calciatori in alta definizione, così realistiche che ti viene da scansarti per evitare lo sputo. Quel giorno invece non c’era abitante urbano o dell’hinterland che non avrebbe stanziato tutti i suoi averi per poter dire che c’era stato: se facciamo un censimento di tutti quelli che negli anni successivi hanno millantato di essere stati sulle gradinate del San Paolo il dieci maggio dell’ottantasette, scopriamo che sugli spalti eravamo più di settecentomila.
E invece i prescelti dalla sorte erano sulla carta ottantacinquemila, nella realtà oltre novantaduemila; gente che era partita all’alba o addirittura di notte, accompagnata da sguardi lividi di invidia o luccicanti d’orgoglio, andate e tornate vincitori. Tra gli eletti, il condominio di cui sopra, che aveva nel nucleo detto “della Regata” il proprio comitato tecnico.
Ma le domeniche di passione giocate in casa, ti dicevo, avevano altri personaggi e interpreti fissi, di cui un paio decisamente notevoli.
Nei paraggi di Luigi, per il quale l’invasata concentrazione sull’evento sportivo prevaleva sull’istinto di conservazione, stazionava don Alfonso.
Don Alfonso era un falegname in pensione di Torre Annunziata, dalla rotonda inflessione dialettale che rendeva pressoché incomprensibile quello che diceva; un personaggio meraviglioso, dotato di un berretto di velluto azzurro senza il quale non l’ho mai visto, estate o inverno, pioggia o sole, vento o gelo. Un giorno, a metà degli anni Novanta, non è venuto allo stadio e da allora non l’abbiamo più incontrato; spero stia bene, e che l’età ormai gli sconsigli le forti emozioni. Altrimenti, sono sicuro che affolli la tribuna che in cielo hanno certamente allestito col suo aiuto i grandi tifosi del Napoli che ci hanno lasciato.
Aveva due caratteristiche fondamentali, antitetiche fra loro: l’alito più pestilenziale e letale che abbia mai avuto la disgrazia di respirare, e per moglie la cuoca più celestiale che sia mai esistita. L’alito di don Alfonso non era un odore, era uno stato d’animo. La terribile puzza che promanava dalla bocca monodente e plurigengiva appestava l’aria con una fragranza che ricordava un po’ le fialette di carnevale e un po’ un obitorio d’estate durante un blackout dell’impianto di refrigerazione: Luigi, che incautamente una domenica ne ascoltò le confidenze per circa dieci minuti, ci disse, una volta rinvenuto, di essere certo che l’inferno fosse stato ispirato a Dante da un’esperienza simile; si dichiarò anche convinto che fosse partito un processo di decomposizione degli organi interni dell’uomo, senza che egli se ne fosse accorto, o in alternativa che si cibasse per hobby di carcasse di cavallo frollate da mesi, e con scarpe di tela agli zoccoli.
A fronte, don Alfonso esibiva la Marenna. Si trattava di una pietanza che variava di partita in partita, allestita dalla di lui consorte, la fantomatica signora Maria: una donna che immaginavamo vivesse con la mascherina come un neurochirurgo, o con la tuta anticontaminazione come Dustin Hoffman in Virus letale, avendo sposato un uomo che aveva un lanciafiamme al posto del fiato; ma che fosse stata compensata dalla sorte con un grandissimo talento culinario. La Marenna, che differiva solo per una vocale dalla dizione partenopea del più grande simbolo della cristianità, strappava già al primo boccone una quasi omonima esclamazione: Maronna, appunto. Di volta in volta e in quantitativi sufficienti a sfamare tutti tranne Raffaele – buco – per – terra, don Alfonso elargiva fette di Paradiso da torte rustiche, pizze e tortani, insieme alle mortali zaffate provenienti dalla marcia cavità situata al posto della sua bocca. Quel fatidico giorno produsse un kebab di frittata di maccheroni alto quaranta centimetri che allietò le due ore precedenti l’inizio della partita. Che Dio benedica la signora Maria, per aver avuto mani così sapienti e naso così corazzato.
E poi c’era Robertina. Era tra noi dall’ottantaquattro, l’avevamo conosciuta nell’esercizio della sua funzione; nel senso che, da laureanda in Sociologia, aveva scelto, senza aver mai assistito fino ad allora a una partita di calcio, di preparare la tesi sull’effetto dell’avvento del Grande Capitano sullo spaccato sociale costituito dai tifosi del Napoli. Risultato: si era appassionata e, dopo aver ottenuto la sua laurea con lode, era diventata una pasionaria della curva B. Arrivava per ultima, consapevole del fatto che il suo fisico minuto e l’ascendente che aveva sulla ben nota galanteria dei gentiluomini che si assiepavano sulle gradinate le avrebbero consentito comunque di trovare posto.
La caratteristica di Robertina era una forma particolarmente violenta di sindrome di Tourette, che l’attaccava appena accedeva allo scalone del San Paolo: in pratica, dalla sua delicata boccuccia veniva fuori un turpiloquio che avrebbe fatto rabbrividire qualsiasi portuale, e avrebbe ben figurato anche nel braccio tre di Poggioreale durante la finale del torneo di briscola tra guardie e detenuti. Salvatore, che ne era segretamente innamorato e che fingeva di incontrarla per caso un po’ dovunque, giurava che altrove era normale e gentile, al limite dell’affettazione; era difficile crederci, vedendola solo allo stadio.
Quel giorno arrivò anche lei due ore prima, a dimostrazione dell’importanza dell’evento; pallida e tirata, ci salutò appellandoci quali frammenti di sterco rinsecchito e, riscossa la sua fetta di frittata di maccheroni della signora Maria, cominciò a mangiare in silenzio se non per incidentali invocazioni al pene. Così, genericamente inteso.
Mario
E comunque quel giorno presi una decisione: ci sarei andato pure io, allo stadio. E mi sarei portato Luca, se ci voleva venire. Quella notte mi ero sognato a mia moglie, tale e quale a com’era quando si era messa a letto l’ultima volta. Stava là, vicino a me, con la camicia da notte, calma e sorridente. Si gira, mi guarda e mi fa: Mariettie’, ma tu lo sai che domenica il Napoli vince il campionato? Io la guardavo. Dissi: ne’, Luci’, ma tu dopo tanti anni che non ci stai più, con tutto quello che abbiamo passato e con tutta la sofferenza di non vederti più, l’unica cosa che tieni da dirmi è che il Napoli domenica vince il campionato? E a me che me ne importa? Dimmi invece dove stai, come stai, che so, chiedimi di Luca, dammi tre numeri, qualsiasi cosa, insomma. Ma non mi venire a parlare di pallone. Quella sorride e scuote la testa: Mariettie’, dice, ascolta quello che ti voglio dire. Io ti ho sempre amato, lo sai. E Luca è stato la vita mia, finché ci avevo la vita, naturalmente. E ’sto fatto che vi parlate così poco non mi piace, a me. Succede questa cosa importante, domenica; tu lo sai, quanto mi piaceva il Napoli, quanto ci tenevo. Fammi questo regalo, vacci, e portati pure a Luca. Noi, sai, le cose del mondo non le possiamo vedere più; ma le possiamo sentire attraverso i figli. Come fosse una radio?, ho chiesto. Eh, proprio come una radio, mi ha risposto. E sorrideva dolce, come quando mi faceva sentire un deficiente. Ma mi metto paura che va lui solo, ho detto. Pure io mi metto paura, perciò lo devi accompagnare tu. E dove li trovo, i biglietti? E lei fa: ti ricordi che il funzionario ai biglietti del Napoli è tuo cliente? Facci una telefonata, vedi che quello te li procura, due di tribuna. Quello che costano costano, fallo per me. E io la mattina dopo ho pigliato il telefono e l’ho chiamato, al cliente mio. Perché, dotto’, mi dovete credere: io sul cuscino sentivo ancora il profumo di Lucia. Forse mi stavo facendo vecchio.
Per una volta, fuori dallo stadio c’era più rumore che dentro. Dal nostro posto sentivamo salire un brusio che diventava sempre più forte man mano che tra noi scendeva il silenzio. E se? E se la Fiorentina tirava fuori una di quelle prestazioni che si fanno quando si è disperati, giacché si trovava sull’orlo della B ? E se noi venivamo presi dalla vertigine del primo posto, e come sempre era successo nella nostra storia ci prendeva la paura di vincere? E se qualcuno, anzi Qualcuno, si faceva male o non era in giornata? E se. Tutti gli “e se” del mondo ce li sentivamo seduti sul cuore, mentre passavano i minuti e l’ora si avvicinava. Raffaele, ricordo, scandiva il trascorrere del tempo con lugubri previsioni di sventura, rischiando la pelle sua e nostra e attirandosi sguardi sempre più torvi e segni di corna nella migliore delle ipotesi; se non avesse avuto la corporatura di un autobus, saremmo stati scaraventati nel fossato.
Don Alfonso sospirava alitando sulla fila inferiore come lo Spirito Santo a Pentecoste, creando nei malcapitati sottostanti uno stato di sonnolenza che non riuscivano a spiegarsi; ricordo che a un certo punto uno si girò verso l’amico al suo fianco e gli chiese se la tensione gli procurasse sempre quella terribile peristalsi.
Luigi scuoteva il capo fosforescente e abbrancava furiosamente il braccio di Salvatore, che gioioso si preparava all’Evento come una diciottenne al ballo delle debuttanti.
Robertina di tanto in tanto mormorava dubbi sulla condotta sessuale delle sorelle dei giocatori dell’Inter, nostri ultimi avversari nella corsa al Coso Innominabile. Il sole picchiava, la frittata di maccheroni di Maria fermentava.
Sembrava la penultima scena di Mezzogiorno di fuoco, quando si attende l’arrivo del cattivo per il duello finale. E se, ripeté Raffaele. La curva muggì esasperata.
Luca
Quando papà me lo venne a dire stavo studiando. Dovevo tentare di nuovo economia aziendale, l’ultimo esame che era rimasto, il più terribile. L’avevo fatto quattro volte e il professore, una vera belva, continuava a bocciarmi. È anche vero che la materia non mi entrava in testa; ma diamine, dopo quattro volte e tenuto conto che dallo statino si vedeva che i voti non erano poi male, e che avevo già fatto tutti gli altri esami, un po’ di pietà l’avrebbe avuta chiunque! E insomma, mentre studiavo entra papà, fa un colpo di tosse imbarazzato, io lo guardo interrogativo. Senti, mi dice, vedi, io ho avuto due biglietti. Per che cosa?, domando. Ma come, per che cosa: per la partita del Napoli di domenica. Io non credevo alle mie orecchie; erano mesi e mesi che non c’erano più biglietti per l’ultima in casa. Da prima ancora che si capisse che sarebbe stata decisiva. E dove li hai presi?, chiedo. Striscia i piedi per terra. No, è che un mio cliente, insomma, uno che gli ho fatto una riparazione difficile, l’ho fatto risparmiare, allora… Ma che è, non ti interessa? Non ci vuoi andare? Come, non ci voglio andare! Ma è una notizia bellissima, grazie! Peccato che, dico. E mi sto zitto. Ma lui capisce lo stesso quello che significa. Sì, peccato, fa. Ci sarebbe andata volentieri; lo sai, quanto le piaceva. Comunque, se ci vuoi andare con qualcuno, i biglietti stanno qua. Sono due, di tribuna. Addirittura. D’impulso gli dico, mentre sta già con la mano sulla maniglia per uscire dalla camera mia: papà, andiamoci tutti e due. Così stiamo un poco insieme. Non si volta, rimane fermo un momento. E poi: va bene, mi fa. Come vuoi tu. E se ne va.
Credimi, non sembrò nemmeno molto tempo. Tu mi potresti dire: ma come, non sembrò molto tempo? Se stavate stipati come sardine, sotto un sole bestiale, con alcuni pazzi esaltati che ogni tre minuti arrivavano, scavalcando corpi, per dirvi quale parte del cervellotico coro che sarebbe stato provato dovevate cantare, in mezzo a tutte le puzze del mondo cui don Alfonso contribuiva almeno per il trenta per cento: come, non sembrò molto tempo? Eppure è così, mi devi credere. Se non ti è ancora successo, nella vita ti succederà: ci sono degli eventi che aspetti e che temi in egual misura, per i quali l’attesa è uno stato comodo, in fondo.
La conversazione diventava pian piano monosillabica, il nervosismo era palpabile. Luigi brillava di luce propria, tanto era pallido. Raffaele si guardava intorno incazzato, accigliato e immusonito: io, che gli sedevo accanto, sentivo come un sordo ruggito costante, un rumore di fondo che veniva dalla sua gola. Salvatore emetteva dei risolini nervosi e completamente incongruenti, molto irritanti. Robertina mormorava frasi incoerenti sull’abitudine al sesso orale della classe arbitrale. Don Alfonso, l’ho detto, puzzava.
E così via per tutto lo stadio: ognuno, secondo la sua natura, amplificava la sofferenza specchiandola in quella degli altri. Finché, quando giunse l’ora, Salvatore, il nostro Salvatore tra tutti i duecentomila occhi fissi sull’uscita degli spogliatoi, emise il suo belluino avviso: eccoli, stanno uscendo.
Nando
Mi credete, dotto’? Lo sentimmo da dove stavamo, che erano entrati in campo. E stavamo all’inizio di viale Giulio Cesare, a un chilometro dallo stadio, seduti tutti e tre, io, Gigino l’elettrauto e Franco il meccanico; ci eravamo messi là perché eravamo sicuri, dotto’, che tale sarebbe stato il casino dopo, che saremmo rimasti imbottigliati. E a un chilometro di distanza sentimmo l’urlo e capimmo che erano entrati in campo. E ci guardammo in faccia, e lo sapete, dotto’? Ci mettemmo a piangere. Come tre scemi.
Da allora in poi, il mio ricordo è a sprazzi. Sì, lo so: avevamo aspettato tanto, eravamo concentrati, attenti e assolutamente “sul pezzo”, come si dice. Ma tale fu la tensione che rimane solo la memoria delle singole componenti di quell’evento, come se la mente avesse conservato alcune gemme tra tutti i tesori di quel momento.
Me li ricordo al centro del campo, questo sì; bianchi in volto, che si guardavano attorno stralunati: quel giorno lo spettacolo eravamo noi.
Mi ricordo i fumogeni che diedero requie perfino all’aroma di don Alfonso, e il velenoso commento di Robertina sull’uso che avrebbero dovuto e potuto fare degli stessi fumogeni gli ultrà scenografi.
Ricordo Luigi che, secondo tradizione, con gesti misurati attivava la sua mitica radiolina con auricolare, per seguire l’andamento delle altre partite.
Ricordo il cielo diventare più azzurro per il bandierone che fu calato all’improvviso sulla curva, e le mani di tutti che annaspavano per farlo scorrere altrove e respirare di nuovo.
Ricordo il fischio dell’arbitro, e il rumore del mio cuore nelle orecchie che aveva lo stesso ritmo dei tamburi, ma molto, molto più forte.
Ricordo Raffaele che ogni tanto esplodeva in un lamento disperato, quando la Fiorentina prendeva palla; e ricordo che tutti trattenevamo il fiato, incluso don Peppe grazie a Dio, quando Lui, il nostro meraviglioso Capitano, suonava la carica dipingendo calcio sull’erba.
Se tu dovessi chiedermi come andò il gioco, chi prevalesse e con quale tattica, io non te lo saprei dire. Eppure c’ero, oh, se c’ero. C’ero con l’anima e il corpo, c’ero con la fantasia e la realtà. C’ero io, e purtroppo non il mio papà che era morto, o tu che non eri ancora nato. Ma entrambi eravate dentro di me, in un ricordo e in una speranza: la nostra famiglia era presente.
Mario
Non credevo ai miei occhi. Seduto sul gradino, in mezzo a decine di migliaia di persone, guardavo Luca che guardava il campo. Pensavo, Luci’, ma dove mi hai fatto venire? Questi sono tutti pazzi, come se non ci fossero problemi, come se non si morissero tutti quanti di fame. Coi prezzi dei biglietti e degli abbonamenti stanno tutti qua, come una tribù di selvaggi. E quest’urlo continuo, assordante, ma che hanno da gridare pure col pallone a centrocampo? Guardavo Luca, gli occhi brillanti, un sorriso sulla faccia, assorto, concentrato: ti sta arrivando, Luci’? Ti sta arrivando forte e chiaro, quello che vede? Perché non me n’ero mai accorto, ma tiene gli stessi occhi tuoi, Luci’.
Il ragazzo nostro. Nostro figlio.
E mi ricordo che passammo in vantaggio, naturalmente. Verso la fine del tempo, nella porta dall’altra parte, sotto la curva A, beati loro. Ce ne accorgemmo subito, quando Lui vide Carnevale che partiva in diagonale e gli diede palla: non fu un passaggio, fu un’investitura. L’uomo benedetto si avviò in verticale, vide Giordano e gliela diede; che fece Giordano? Ovviamente gliela ridiede di tacco.
Devi pensare a noi come al pubblico di un’opera lirica, che conosce a memoria parola per parola, e che segue l’esecuzione canticchiando a fior di labbra la romanza. L’artiglio di Luigi affondava nella carne del mio braccio, man mano che la palla si avvicinava alla porta avversaria, ma io non lo sentivo: stavo seguendo quello che succedeva conoscendone a menadito l’esito, giro del pallone dopo giro.
E giro dopo giro, un lieve tocco di esterno di Carnevale e la Storia si compì.
Nando
Mamma mia, dotto’, sembrò un terremoto. Prima si sentì la terra che sussultava, poi i vetri che tintinnavano e poi arrivò il rumore. Un rumore che faceva tremare il petto, che faceva venire il fischio nelle orecchie. Un rumore di pazzi. E pazzi diventammo pure noi, e ci rotolammo per terra.
Luca
Mamma mia, che peccato che non c’eri. Quel momento, quel momento bastava per sempre. Chissà se da lassù te l’hanno fatto vedere. Ma se esiste il Paradiso è sicuro, che te l’hanno fatto vedere.
Mario
Luci’, era questo che volevi dire. Mo’ lo capisco. Trema tutto, mi sono messo vicino vicino a Luca per non fargli fare male. Ma nessuno si fa male, oggi. Oggi è gioia. Solo gioia. Mo’ lo capisco.
Non ci calmammo, e che ti vuoi calmare? Da quel momento in poi fu un delirio. Uno sull’altro come stavamo, che non si poteva nemmeno respirare, trovammo il modo di abbracciarci tutti; e tutti piangevamo. Piangeva Luigi, gli occhiali storti e la camicia al vento, la bocca spalancata sull’urlo primigenio che stava lanciando sin da quando il Capitano aveva dato palla a Carnevale, le palpebre semichiuse sull’incipiente svenimento, del colore della cera fusa; piangeva Salvatore, cercando di baciare Robertina; e piangeva Robertina, mandando tra le lacrime tutto il resto del mondo a fare qualcosa in qualche buco altrui; piangeva Raffaele, aggrondato ancora come se qualcuno gli avesse pestato un piede; e credo piangesse don Alfonso, che nessuno ebbe il coraggio di abbracciare e che per fortuna era rivolto col viso al cielo, che difatti si rabbuiò di una nuvola passeggera.
E piangeva il tuo papà, che avrebbe in seguito pianto solo quando sei nato tu; piangeva per il ricordo di suo padre che se l’era persa, per l’emozione di qualcosa alla quale, scopriva in quel momento, non aveva mai veramente creduto.
Piangeva la città, e piangeva di gioia.
Da quel momento le immagini nel ricordo si sovrappongono, come se il film andasse più veloce. A mille chilometri di distanza segnò l’Atalanta all’Inter, ce ne diede conto un roco Luigi almeno due secondi prima che lo dicesse la sua radio, e lo stadio riesplose: nulla poteva più cambiare il corso degli eventi.
Siccome in una festa così devono essere tutti contenti, segnò anche la Fiorentina, che aveva bisogno di un punto per salvarsi: e che, la vogliamo far piangere mentre noi balliamo e cantiamo? In un certo senso, a ripensarci oggi, fu proprio quel gol su punizione che rese perfetta la giornata: la nostra è la città dell’amore, e non c’è amore perfetto senza la perfetta armonia. E anche loro avrebbero ricordato il momento a lungo, perché la punizione fu calciata da un destro giovane e fatato: il primo gol in serie A di Roberto Baggio, che riscosse gli abbracci dei compagni e un invito a pratiche incestuose da Robertina. Molte altre volte il suo sarebbe stato il miglior piede sul terreno di gioco: non quel giorno, però.
Il miglior piede del mondo compitò una partita perfetta, dirigendo con sapienza le cose verso la loro opportuna conclusione; nulla avvenne più fino alla fine, e nulla avvenne a Bergamo. Il Napoli era ed è per sempre campione d’Italia 1986-1987.
Un mio amico mi raccontò, qualche giorno più tardi, che il triplice fischio dell’arbitro fu l’ultimo ricordo cosciente, prima di risvegliarsi la mattina dopo in mutande sulla spiaggia a Sorrento. Mi parve una storia tutt’altro che incredibile, alla luce dei fatti.
Per quanto riguarda il condominio vicino allo scalone, rimanemmo per quasi un’ora a bearci dei giri di campo, dei lanci di magliette, delle lacrime di gioia, dei baci dalla pista d’atletica, degli eroi in ginocchio e stretti in un interminabile abbraccio. E poi ci riversammo fuori, per andare a dire alla città, in forma di lava azzurra, quanta e quale emozione nuova avevamo conosciuto.
La città ci accolse, vestita del colore del mare e del cielo: con in mezzo un Coso triangolare e tricolore, nostro finalmente, ma che non avevamo ancora il coraggio di nominare. E per familiarizzare lo abbracciammo e ce lo tenemmo stretto, per vedere l’effetto che faceva.
Nando
Dotto’, e che ci stava in mezzo alla strada! Macchine, motociclette, pure a piedi la gente correva e correva, e non sapeva dove andare. Tutti ridevano e piangevano, non esistevano sensi unici, non esistevano marciapiedi, tutti da tutte le parti. E il bello, dotto’, è che non successe niente! Né un incidente né uno scontro, una botta, niente! Non è un miracolo pure questo, dotto’?
Mario
Uscimmo dallo stadio in mezzo a tutta quella gente. A me del calcio non me ne frega niente, ma se mai un sentimento è stato contagioso era quello. Mai prima e mai dopo ho visto tanta felicità per la strada. Luca si guardava attorno e sorrideva, quasi spaventato, con lo stesso sorriso della mamma: non me n’ero mai accorto, di quanto fossero tali e quali. Eravamo a piedi e ci trovammo in un fiume che ci portava avanti, chissà dove. In mezzo alla strada vidi Nando, un ragazzo mio lavorante, in piedi su una Cinquecento dipinta di azzurro. Guardai meglio: non credevo ai miei occhi. La macchina era costruita con i pezzi che non eravamo riusciti a riparare in officina, e che io stesso gli avevo detto di gettare via! Ma come aveva fatto, a ripararli e a rimetterli insieme? Mentre guardavo a bocca aperta, Nando si girò dalla mia parte e mi vide.
Nando
Mamma mia, dotto’, e che paura mi misi! Proprio mentre stavo ballando e cantando mi volto e chi vedo? Il mastro mio, proprio là che guardava la macchina! Io lo sapevo che alla prima occhiata aveva riconosciuto i pezzi che mi aveva detto di buttare. Ora mi avrebbe licenziato, o addirittura denunciato. E teneva pure ragione, perché io quei pezzi li avevo rubati, anche se lui aveva detto di buttarli. Mi sentivo di svenire.
Mario
Un genio. Quel ragazzo era un genio. Mi accorsi che mi stava guardando, e che si era fatto bianco bianco di paura. Ma figuratevi se io, proprio quel giorno, tenevo la voglia di intossicargli la festa. Ciao, Nando, gli gridai. Sei stato bravissimo con questa carrozzeria. Ti darò da fare i lavori più difficili, però: la bravura me la devi far vedere pure in officina! Mo’ cammina, che ti stanno suonando tutti dietro. Levati di torno, fetente, e non fare tardi che domani è lunedì.
Che facemmo quella sera, e quella notte? Tutto, e il contrario di tutto. C’era quasi una vena di dispiacere, per il tempo che stava passando, invece di fermarsi con noi a festeggiare. Mi ubriacai, probabilmente: o forse era l’emozione. Passarono le ore, e poi i giorni e l’euforia non finì. Quando cominciò a calare, dentro rimase la convinzione nuova che eravamo i campioni e che tutto il mondo lo sapeva; e che i napoletani nel mondo erano campioni, come e più di noi. Napoli è un sentimento.
Un’altra cosa che ti è stata negata da questi anni di medioevo è stata quella di immergerti nella città in festa. Nessun altro posto sulla terra, dopo quel giorno, mi è parso così tanto oggetto di una possessione demoniaca e collettiva: Rio a carnevale sembra Stoccolma il due novembre, a confronto. Vedevi passare uomini con facce stralunate, gli occhi reticolati di venuzze, le bocche spalancate su un urlo afono; donne grasse, con braccia dondolanti a ritmo di samba e pance che continuavano a traballare per alcuni secondi dopo che il movimento del resto del corpo era cessato; lattanti terrorizzati seduti a cavalluccio su papà invasati, come bambini indiani sugli elefanti, guarda, appapà, guarda e non dimenticare mai; vecchi e vecchie determinati a far parte della festa, a rischio della pelle, che agitavano bastoni dirigendo il coro. Tutto questo e molto altro, i bagni nelle fontane, le canzoni stonate, le mille vespe con i cinque cavalieri imbandierati, li potrai vedere nei filmati d’epoca. Quello che non sentirai e di cui ti racconto oggi è l’esaltazione, il coinvolgimento e la passione.
E qui arriviamo al punto, al motivo per cui ti sto scrivendo di quel giorno magico e passato, irrimediabilmente fuggito tra i ricordi di qualche vecchio sconclusionato come il tuo papà. E il punto è questo: molte cose abbiamo perso, molti argomenti sono stati inghiottiti dal ritmo frenetico della nostra vita. Campiamo come surfisti californiani, sorridendo in precario equilibrio su un’onda che ruggisce cercando di sbatterci giù; abbiamo poco tempo, troppo poco per provare certe emozioni e ancora meno per condividerle. Quel giorno invece successe qualcosa di meraviglioso, e il Napoli, la partita e il Coso tricolore ne furono solo il pretesto: questo qualcosa fu la totale condivisione. Nessuno rimase escluso, nessuno fu emarginato.
Mi ritrovai a un certo punto, coi miei amici, a Forcella dov’era in atto un vero e proprio baccanale, con uomini e donne seminudi che correvano invasati. In mezzo alla folla, un carretto di quelli che c’erano all’epoca, col pentolone d’olio bollente, che friggeva e distribuiva gratis. Da allora, per me e per molti altri, come per Raffaele, Luigi e Salvatore, il sapore della vittoria e del trionfo è quello della pizza fritta con ricotta e pepe. Che c’è di meglio?
Ricordo che al piano di sotto del palazzo dove abitavo c’erano due famiglie in lotta come solo i vicini di casa possono essere: questioni di rumori, di musica troppo alta, di polvere spazzata via sul balcone sbagliato. Be’, quella notte e anzi quella mattina, quando tornai a casa esausto e ancora tremante di felicità, li trovai tutti uniti sulle scale che si raccontavano tre anni di pettegolezzi arretrati, ridendo come deficienti; e per inciso ti dirò che furono molto più insopportabili da amici, in seguito, di quanto lo fossero stati da nemici fino ad allora. E miracoli così ce ne furono migliaia, in quei giorni di follia euforica. Eravamo in cima al mondo, e ti sembrerà assurdo, oggi, ma allora essere napoletani era motivo d’orgoglio.
La città reagì a modo suo, facendo emergere scritte e colori che tu, ventidue anni dopo, trovi ancora sulle mura dei palazzi nei quartieri più popolari. Provano a cancellarle, ma riemergono.
Quella che mi colpì di più la scrissero sul muro del cimitero di Poggioreale: CHE VI SIETE PERSI ! A caratteri enormi, proprio sul muro del Monumentale, di fronte alla scritta RISORGEREMO del cimitero nuovo.
Ricordatelo, quando verrà il tuo turno di festeggiare il Napoli campione d’Italia: la nostra è una città di pazzi.
Luca
La domenica dopo tornai a trovare mamma. C’ero andato un paio di giorni prima di andare a provare un’altra volta economia aziendale, come al solito. E una cosa incredibile era successa: io non avevo voce, per le urla dello stadio. Mi siedo e dico rauco buongiorno, professore. E quello alza gli occhi, mi guarda, mi sorride e fa: buongiorno a lei. Più rauco di me! Pure lui aveva perso la voce allo stadio! E mi fa una mezza domanda, facile facile, e mi dice: vada, vada. Trenta e lode. Questa è una settimana di festa.
E allora sono tornato da mamma, per raccontarlo pure a lei dopo che lo avevo raccontato a papà; dal giorno della partita parlavamo sempre, come se dovessimo recuperare il tempo perduto, e forse era proprio così. Insomma, arrivo al cimitero e rivedo la scritta che avevano fatto sul muro, CHE VI SIETE PERSI. Alzo lo sguardo e mi viene un tuffo al cuore. Sul muro di fronte, quello di cinta del Cimitero Nuovo. Qualcuno ha scritto: E CHI VE LO HA DETTO? Lo ha scritto con una vernice azzurra, che riconosco, e con una grafia incerta, che riconosco pure. E riconosco vernice e grafia perché una certa bomboletta da carrozziere l’ho vista in casa, e perché con quella grafia erano scritte le mie giustificazioni a scuola. Rimango a bocca aperta e poi, piano, comincio a ridere. Questa a mamma gliela devo proprio raccontare.