Quando la settimana arriva a metà, annotò il Professore sul suo taccuino, la conversazione collettiva in perenne corso nel bar prende decisamente un’altra piega. La partita precedente diventa, a distanza di poco più di due giorni, addirittura antica, materia per gli storici e gli statistici, e ci si proietta sull’incontro successivo come una muta di cani da caccia all’inseguimento della preda.
La tensione, nei più emotivi, comincia a crescere, e diventa palpabile il senso dell’aspettativa. È il momento in cui i meno patiti prendono a sfotticchiare i più inquieti, e questi reagiscono con imbarazzati sorrisi che costituiscono silenziose ammissioni.
Una volta terminato il pienone dell’ora di colazione, in cui un centinaio di clienti masticanti e cappuccinanti avevano coralmente preso atto della situazione degli infortunati e delle squalifiche del giudice sportivo, stabilendo l’elenco dei disponibili dal quale nelle ore successive avrebbero pescato le ventiquattro possibili formazioni da schierare in campo la domenica successiva, Peppe si rivolse pensoso al Professore:
«Senti, Professo’, ma tu a certe cose ci credi? Non te l’ho mai chiesto, in tanti anni».
Il Professore sollevò perplesso lo sguardo dagli appunti:
«In che cosa? Che intendi, per “certe cose”?».
Peppe si strinse nelle spalle e tacque per un lungo momento. Deborah aveva incredibilmente il cellulare in ricarica, ed era stranissimo vederla con la testa in posizione eretta; il Professore aveva pensato qualche attimo prima che aveva proprio dei bei lineamenti, colori chiari e il viso che tradiva a volte la giovanissima età, anche se gli occhi induriti rivelavano una spigolosa saggezza che la faceva sembrare un’adulta. La curiosa domanda del principale le fece distrarre l’attenzione dalla sistemazione delle monete in rotoli e alzare lo sguardo curioso su di lui.
Peppe tossicchiò:
«No, niente. Niente d’importante».
Il Professore conosceva troppo bene l’amico per mollare.
«E no, adesso mi dici che intendi. E me lo dici pure per filo e per segno.»
Peppe esitò. Era di spalle, voltato verso la macchina antica del caffè di cui stava lucidando le cromature. A un certo punto si fermò, e parlò senza girarsi come se trovasse più facile dire certe cose senza guardare in faccia l’interlocutore.
«Ma tu… tu ci credi che certe cose che succedono noi non le capiamo?»
Il Professore era sempre più perplesso; ma aveva troppe ore di indagini psicologiche con soggetti reticenti alle spalle, per non saper aspettare.
«Sono molte le cose che non capiamo, è evidente: la scienza serve a questo, no? A capire meglio, a spiegarci i fenomeni. Io, per esempio, sono qui proprio per comprendere gli effetti che la passione per il calcio…»
Peppe lo interruppe. Parlava a bassa voce, quasi a se stesso:
«No, non intendo questo. Lo so a che serve la scienza. Ma io non parlo di scienza. Parlo proprio del suo contrario».
«Peppi’, io proprio non capisco che…»
Il barista passò la mano sulla macchina del caffè, come per una carezza.
«La vedi questa macchina? Consuma un sacco di elettricità. Ho dovuto far alzare la potenza del contatore, se no saltava la corrente ogni volta che l’accendevo. Ed è enorme, a stento c’entra. Per farla uscire la dovrei smontare pezzo per pezzo. E quando si rompe una parte la devo far rifare da un tornitore o da un meccanico, perché i ricambi non li producono più, la fabbrica è fallita vent’anni fa.»
Il Professore annuì:
«Sì, lo so quanto ci tieni a quella vecchia macchina, ma…».
Peppe riprese, come se non avesse udito:
«Però io piuttosto chiuderei il bar, invece di toglierla da qua. E cederei l’attività solo a qualcuno che mi giurasse di non rimuoverla mai».
Deborah sussurrò, con tenerezza:
«Ma non lo chiuderai mai, ’sto bar, Peppi’. Noi come faremmo, senza di te?».
Peppe, sempre di spalle, continuava ad accarezzare la macchina:
«No. Il discorso è diverso. Il fatto è che questa macchina è la vera proprietaria del bar».
Il locale piombò nel silenzio. Fuori, uno scooter smarmittato passò rombando.
«In che senso, scusa?» chiese il Professore.
«Nel senso che io sento chiaramente che Mario, il precedente proprietario, è qui dentro. È rimasto qui. Non si è mai mosso.»
Deborah emise un sospiro spaventato, e fece un cenno preoccupato al Professore che disse:
«Che vuoi dire? Don Mario è morto molti anni fa, lo sai, vero?».
Inaspettatamente, sempre senza voltarsi, Peppe fece una risatina.
«Lo so bene, che è morto. L’ho vestito io, e al funerale ci stava tutto il quartiere, non ti ricordi, Professo’? Ci stavi pure tu.»
«Certo che c’ero. E allora che intendi, quando dici che è rimasto qui?»
Peppe si voltò finalmente verso il suo amico. Era serio, forse perfino un po’ imbarazzato.
«Io penso che in certi posti, dove le emozioni sono state tante e forti, dove la gente ci ha vissuto per tutta la vita, rimane qualcosa. Nelle cose, negli oggetti. Nell’aria. Tu non credi?»
Il Professore scosse la testa, a disagio.
«Peppi’, lo sai, ne abbiamo parlato qualche volta: io non ho il conforto della fede. Purtroppo per me, perché sarebbe stata davvero un grande aiuto, in certi momenti della mia vita».
Peppe scosse la mano nell’aria.
«No, no, Professo’. Io non parlo di fede, niente di soprannaturale. Io penso a qualche cosa di umano, di reale. Solo che non si conosce ancora. D’altra parte me lo hai detto pure tu, che nel passato ogni volta che non si capiva qualcosa si considerava magia, no?»
Il Professore sorrise:
«Certo. Hanno pure ammazzato persone, per queste false credenze».
«Infatti. E allora mi devi credere, quando io ti dico che sento la mano, l’affetto di Mario per questo posto e per questo mestiere, quando tocco la macchina. Non succede sempre, solo qualche volta, ma succede. Sai quanto tempo ha lavorato qua Mario?»
Il Professore scosse il capo.
«Per oltre quarant’anni. Sono milioni di caffè, sai. Almeno quattro, ma forse pure di più. E sai che significa? Milioni di facce. Di sorrisi, di parole, di chiacchiere. Di partite, pure. In un posto così piccolo, tante emozioni.»
Il Professore annuì, pensoso:
«So cosa intendi, e comincio a capire. In effetti ci sono studi, su questo, e avvenimenti che fanno pensare che possa esistere qualcosa. Per esempio, quando ritorni a casa di umore diverso e il tuo cane ti viene vicino, come se avvertisse qualcosa. Oppure quando entri in un posto, e inspiegabilmente senti un’impressione positiva o negativa, pur non essendoci mai stato».
Deborah fece cenno di sì, illuminandosi:
«Sicuro, Professo’! Io sto tranquilla e serena solo qua dentro e a casa mia, certe volte pure per strada non mi sento tranquilla!».
Ciccillo, che era rientrato col vassoio vuoto da una consegna a domicilio, mormorò:
«Tu mai tranquilla, pure qui. Sempre incazzata».
La ragazza lo guardò storto:
«E che ne sai, tu? Pensa a lavorare, vai! Tre caffè, un cappuccino e due cornetti alla crema al recupero crediti della banca di fronte, secondo piano. Il capo dell’ufficio tiene gente, fai presto».
Ciccillo abbassò la testa, ferito, e preparò la fornitura. Peppe continuò:
«No, non è esattamente quello che dicevo. Io dico che certe volte le emozioni, i comportamenti delle persone possono influenzare quello che succede. Così come ci sta chi vede benissimo e chi ha bisogno degli occhiali, e chi sa fare a mente le moltiplicazioni a tre cifre e chi si confonde pure a contarsi le dita. Qualcuno ci ha qualche potere speciale, tu non pensi?»
Il Professore era disorientato:
«Mi fai un esempio? Non sono sicuro di aver capito».
Nel bar erano entrati due uomini in tuta da operaio e avevano ordinato caffè corretti all’anice. Peppe si rivolse a loro:
«Ragazzi, siamo pronti per la partita? Giova’, tu come ti stai preparando?».
L’uomo più anziano si strinse nelle spalle:
«Lo sai, come sempre quando è importante: cambio di tasca al portafogli, mia moglie si deve vestire per tutta la settimana con qualche cosa di azzurro addosso, non si viene al lavoro con la macchina ma solo coi mezzi pubblici, e la maglia intima messa al contrario. Niente di speciale».
Peppe si rivolse all’altro:
«E tu, Alfre’?».
Il giovane allargò le braccia:
«E no, Peppi’, io sono scaramantico. Le cose mie le faccio all’ultimo giorno, il venerdì: tu lo sai che per venire qua da casa con lo scooter passo davanti a quattro semafori. Mo’, se quando arrivo il maggior numero è rosso, allora non ci sta niente da fare: perdiamo. È matematico, tanto vale che mi organizzo per portare i bambini fuori la domenica, inutile vederla, la partita. Se li acchiappo tutti verdi, è da giocarsela, forse finisce in pari. Ma se riesco a farmeli tutti col giallo, allora non ci stanno dubbi: sarà un trionfo. Naturalmente non mi posso fermare ad aspettare, la fortuna non è scema, capisce e si regola; allora devo rallentare o accelerare al punto giusto. Una volta di queste, se non mi vedi arrivare, è perché sono stato ucciso in un incidente al semaforo. Ma lo capisci che non posso venire meno, no?».
Quando furono usciti, Peppe si voltò a guardare l’amico:
«Capisci, adesso? Pure questo è un fenomeno da studiare, ti pare?».
Il Professore sorrideva da un orecchio all’altro, riempiendo pagine di taccuino.
«Fantastico. Questo aspetto è fondamentale: il rapporto col destino, il senso del soprannaturale! E ce ne sono altri, così pazzi?»
Deborah rise:
«Altri? Tutti! Voi non avete idea, Professo’, di quello che sentiamo qua dentro dalla mattina alla sera. E pure fuori, in verità: mio padre fa una cosa ancora più divertente. Siccome un paio d’anni fa, durante una partita importante, mia madre si trovò fuori al balcone a stendere i panni proprio nel momento in cui segnammo un gol, da allora ogni volta che la squadra nostra si trova in difficoltà, con qualsiasi tempo, lei deve uscire fuori per almeno cinque minuti nella speranza che si creino le stesse circostanze. Siccome un paio di volte la cosa effettivamente è riuscita, la povera mamma ormai capisce da sola e quando mio padre la guarda si mette il cappotto e se ne esce fuori al balcone».
Una signora di mezz’età con un’accurata messa in piega, bevendo un latte macchiato, annuì con forza e disse:
«Io a mio marito lo costringo a mangiare un panino prosciutto e formaggio, pure se è domenica, quando si gioca quella partita là. Così fu tre anni fa quando vincemmo a Torino, che era finita all’improvviso la bombola del gas e quella di ricambio non funzionava, e così sarà per sempre fino a quando non… non lo voglio nemmeno dire. E lui è contento così, lo capisce che è necessario».
Un impiegato, che frettolosamente stava divorando una sfogliatella a enormi bocconi, bofonchiò:
«Io ho l’abitudine di telefonare a mio padre tra il primo e secondo tempo: io devo dire papà, che ne pensi allora, come stiamo andando? E lui mi deve rispondere con queste precise parole: Miche’, non possiamo ancora dire niente, manca un intero tempo, ci sentiamo dopo. È un’abitudine che abbiamo preso quando lavoravo a Pescara, tanti anni fa. Mo’ da quando sto qua vediamo la partita insieme, perché abitiamo io sopra e lui sotto: ma siccome quelli erano gli anni della risalita, e abbiamo vinto tutti i campionati, che fai, interrompi la tradizione? E allora io alla fine del primo tempo scappo su a casa mia e gli telefono, e ripetiamo le stesse battute. Secondo me se qualcuno ci vede, ci prende per pazzi».
Una giovane avvocatessa, col suo elegante soprabito col collo di pelliccia, sbuffò zucchero dalla ciambella:
«Ma che pazzi e pazzi!? Io per esempio sono Malata in senso letterale: due ore prima della partita mi sale la temperatura, posso arrivare fino a trentotto e mezzo. E in quel momento, a centoventi minuti dall’inizio, devo scrivere su Facebook “Forza ragazzi”, con la erre rigorosamente minuscola, e nessuno, dico nessuno deve commentare, possono mettere solo il “mi piace”. Se qualcuno si permette di scrivere, gli tolgo l’amicizia all’istante».
Man mano che entrava la clientela dell’aperitivo, si intensificò la gara a chi aveva i riti più elaborati. Il Professore faticava a stare dietro all’outing collettivo con gli appunti, e nel frattempo rifletteva se potesse definirsi follia un atteggiamento così condiviso.
«… E non parliamo della ritualità da stadio, Professo’» disse un insegnante quarantenne, «io mi devo accendere una sigaretta (e non fumo più, solo allo stadio!) ogni dieci minuti, al decimo, al ventesimo, al trentesimo e così via: una boccata e la spengo. Poi, cinquanta minuti esatti prima dell’inizio devo leggere un fumetto di una determinata serie che non posso dire, altrimenti non funziona più, fino a pagina ventidue; nell’intervallo altre ventidue pagine, e mi sento d’impazzire perché vorrei commentare con gli altri e non posso. Ma così devo fare per forza, una volta me lo sono scordato a casa, il fumetto, e ho sofferto le pene dell’inferno. Fortuna che almeno abbiamo pareggiato. Ho ancora lo scrupolo di coscienza, perché per colpa mia abbiamo perso due punti!»
Un attempato funzionario annuì gravemente, sgranocchiando un salatino:
«Capisco. Io devo andare con due sciarpe, una legata al polso sinistro che è quella, vecchissima, dell’anno del primo scudetto. L’altra dev’essere comprata nuova ogni stagione, e cambiata in caso di risultato negativo. Va sventolata a inizio partita, quando comincia il secondo tempo e alla fine. Se succede qualcosa di negativo va lanciata nel fossato, perché si porti via la malasorte».
Si doveva essere sparsa la voce, perché l’affluenza quel giorno fu maggiore. Ognuno aveva un episodio da raccontare, un piccolo o grande rito, perfino delle liturgie collettive a base di incontri e complicati saluti che coinvolgevano gruppi di dieci persone. Chissà se un determinato pizzaiolo nei paraggi dello stadio si era mai chiesto perché ogni domenica di partita in casa, esattamente alle dodici e trenta, gli ordinassero sei pizze alla mozzarella di bufala e gorgonzola a un tavolo da quattro persone (in memoria di due papà che non c’erano più); o se il tassista denominato Modena 9 si inserisse apposta nel turno del giorno della partita, per portare di prima mattina al cimitero un anziano signore e sua moglie dal loro appartamento del Vomero, per salutare il figlio tifosissimo che non c’era più ma che c’era ancora, e sempre ci sarebbe stato.
Quando ci fu il solito momento di pausa pomeridiano senza clienti, il Professore tirò il fiato.
«Mamma mia, è incredibile. Avevi ragione, e io che credevo di essere nel terzo millennio: nemmeno in Africa equatoriale o nelle tribù amazzoniche si arriva a questo livello di superstizione! È come se il calcio tirasse fuori da ognuno il selvaggio che si nasconde sotto la superficie. Hyde è follemente scaramantico, e Jekyll lo sa benissimo e non vede l’ora di raccontarlo. Adesso sì che capisco cosa volevi dire stamattina in merito a ciò che si crede di fare col potere della mente.»
Peppe teneva la testa bassa nel lavandino pieno di tazzine sporche da mettere in lavastoviglie.
«Invece no, Professo’. Non mi hai capito. Io volevo dire un’altra cosa.»
Il Professore rimase fortemente interdetto:
«Come sarebbe? Non era alla scaramanzia che ti riferivi? E allora a che cosa?».
Il barista alzò la testa e lo fissò. All’improvviso, vedendo l’espressione stanca e le rughe che circondavano gli occhi dell’amico, il Professore si rese conto che il tempo era passato ed erano diventati vecchi.
«Ti ricordi quando hai detto che, nei secoli passati, per certe cose la gente veniva messa al rogo?»
Il Professore annuì:
«Certo che mi ricordo. L’Inquisizione, per esempio, ha un sacco di morti sulla coscienza; e pure le invasioni musulmane, e ancora oggi in certi Paesi…».
Peppe lo fermò alzando la mano:
«Sì, lo so, qualcosa lo leggo pure io. Ma se oggi tu, che sei un uomo di scienza, scoprissi che c’è qualcosa, qualcuno che ha dei poteri che non riesci a spiegare, come reagiresti?».
Il Professore non sapeva cosa dire.
«Io sono uno scienziato e ho studiato per tutta la vita, quindi crederei a quello che vedo. Poi cercherei di spiegarmelo, immagino.»
«E se non ci riuscissi, a spiegartelo?»
«Non lo so. Ma proprio non riesco a immaginare…»
Peppe uscì dal retro del banco e si avvicinò al tavolino. Deborah aveva ripreso a confabulare al telefonino con qualche sorella con l’acca, e Ciccillo era fuori per le consegne pomeridiane. A voce bassa disse:
«Ho chiamato due amici, stamattina. Marito e moglie, si sono sposati da poco ma si conoscono da tanto tempo. Lei è già stata sposata, ha divorziato anni fa. Si sono ritrovati, insomma. E hanno una storia che vorrei che tu ascoltassi».
«Peppi’, io sto scrivendo questo saggio, vorrei prima finirlo e dopo sono a tua disposizione per…»
L’altro lo interruppe:
«Il punto è proprio questo, Professo’: il calcio c’entra. Eccome, se c’entra. Tu ieri hai detto che tra le relazioni che volevi esaminare, e l’impatto del tifo su queste, c’era l’amore, no?».
Il Professore allargò le braccia:
«Sì, certo, ma che non dovessero esserci esemplificazioni si può desumere da…».
«No, fidati, l’esemplificazione, come dici tu, ci sta. E stasera, se ti trattieni dopo la chiusura quando i ragazzi qua se ne vanno a casa, questi due amici vengono a raccontarti la storia. Una storia particolare, un po’… magica, diciamo. Lui è un giornalista, lei… va be’, lei la conoscerai. Ma solo per tua cultura: non la potrai mettere nel tuo saggio. Va bene?»
Il Professore fece cenno di sì, sorridendo:
«Certo, va bene. Sentiamo quest’altra storia magica, come dici tu».