GIOVEDÌ

Una sfogliatella dell’altro mondo

La mattina il Professore arrivò un po’ più tardi, quando l’assalto della colazione era già scemato. Aveva l’aria stropicciata, ed era scuro in volto. Borbottò un saluto e si mise alla sua postazione affondando gli occhi nel taccuino.

Appena Ciccillo uscì per i recapiti e Deborah si immerse nella conversazione telefonica, Peppe gli si avvicinò:

«Lo sapevo. Ce l’hai con me».

Il Professore lo guardò storto e sibilò:

«E certo, che ce l’ho con te. Ma sono scherzi che si fanno, quelli? Me l’avessi raccontata tu, o chiunque altro, mi sarei fatto una risata e mi sarei goduto la storia come un prodotto di fantasia. Ma lui, uno in gamba, equilibrato, simpatico. E lei… lei, con quegli occhi. E il racconto successivo, quando mi ha detto che un giorno si è alzata e ha deciso di ritornare, lasciando il marito ma facendo in modo che non soffrisse. Ma dai».

Peppe fece una faccia triste:

«Lo sapevo. Non ci hai creduto. E adesso pensi che ti ho voluto prendere in giro. Ma mi devi credere, non è così! Io…».

Il Professore lo interruppe con un sommesso ruggito:

«No, invece, cazzarola! Il problema è proprio questo, che invece ci credo! Noi abbiamo dei metodi, delle tecniche per sapere se la gente dice balle o la verità, e quei due… insomma, quei due credevano di dire la verità. E io, io sono uno scienziato, maledizione! E alle streghe uno scienziato non ci crede, non ci deve credere!».

Peppe gli fece un largo sorriso:

«E tu lascia stare, non ci credere. Fai come se l’avessi sognato. Tanto ho pensato che oggi si parla di qualcosa di veramente soprannaturale, ma che è successo davvero. E tutti l’hanno visto, milioni di persone: e l’hanno visto succedere proprio qui».

Il Professore fece per alzarsi:

«Senti, Peppi’, io ti voglio bene e lo sai. Ma se mi devi prendere per i fondelli, sappi che io sono una persona seria e che…».

Il barista gli mise una mano sul braccio:

«Stai buono, Professo’. Io lo so bene che sei una persona seria, ma è il tuo unico difetto. Oggi ti devo presentare una persona, che ti dirà qualcosa che formerà un capitolo importante del tuo libro. Vedrai».

La giornata trascorse secondo il solito ritmo di avvicinamento all’Evento. Il Professore ebbe la chiara impressione che alcuni clienti prendessero più caffè apposta per specchiare la propria angoscia in quella altrui: mal comune, insomma. L’argomento del giorno era la formazione da schierare, e i toni della discussione erano di vitale coinvolgimento, come se davvero spettasse alla comunità dei clienti del bar di Peppe mettere in campo la squadra.

Si andava dai difensivisti a tutti i costi, che avrebbero alzato una barricata di filo spinato con trincea e sacchi di sabbia davanti all’area, ai disperati offensivisti, che avrebbero messo in campo dieci punte e un portiere centrocampista per aggredire gli avversari; in mezzo, tutto lo spettro delle possibilità, ivi compresa qualche impossibilità.

Più volte il Professore sentì fare con rimpianto un nome; anzi, a dire la verità il nome non era quasi mai pronunciato. Eppure si capiva benissimo dal contesto, come se non fosse necessario rievocare il riferimento anagrafico per capire di chi si stesse parlando.

Quando a un giovane professionista che stava facendo una tesa e preoccupata merenda elencando il dream team che, potendo disporre di una macchina del tempo, avrebbe disposto in campo, il Professore chiese per quale motivo nominasse ruolo per ruolo tutti i grandi ex del passato tranne quello col numero dieci, sentì calare il silenzio nel bar. Dopo una breve riflessione, l’uomo si strinse nelle spalle e gli disse:

«Professo’, perché non ce n’è bisogno. Non ci sarebbe bisogno nemmeno di dire il numero, lo potevo pure saltare e mi avrebbero capito tutti».

Peppe, quando gli storiografi furono usciti, gli disse:

«Noi questa fortuna abbiamo avuto, che il miglior calciatore di tutti i tempi è venuto a giocare qua. Da un certo punto di vista è stata una benedizione, da un’altra una maledizione perché poi come sai il campionato non lo abbiamo vinto più. Certo ci siamo andati vicini, e vicini c’eravamo andati pure prima di lui, ma sta di fatto che non l’abbiamo vinto. Ed è proprio con riferimento a Lui che ti volevo far conoscere qualcuno».

Nei giorni precedenti, un paio di volte il Professore aveva notato un vecchietto che entrava nel bar, scambiava un cenno d’intesa con Peppe, prendeva un bicchierino ambrato, lo svuotava in due sorsi e se ne andava. Non passava da Deborah né prima né dopo, e lei gli lanciava immancabilmente un’occhiata astiosa: il Professore sospettava che lo facesse più per il disinteresse che il vecchietto ostentava per la sua persona che per il fatto che non pagava la consumazione. Peppe però, pur non rivolgendogli se non un sorriso e un saluto, sembrava contento di vederlo.

Era piuttosto strano, di un’età indefinibile anche se di certo sopra i settanta. Aveva capelli grigi lunghi, legati dietro la nuca in una coda che non sembrava particolarmente pulita, e i vestiti erano consunti tanto che in più punti lasciavano intravedere la pelle grinzosa dell’uomo. Lasciava alla porta del bar una specie di carriola ricavata da un vecchio passeggino, dove erano collocati un paio di sacchetti di plastica rigonfi di masserizie. Un barbone, chiaramente. Il Professore si chiedeva per quale motivo l’amico lo accogliesse con tanta cordialità.

Anche quel giovedì il vagabondo si presentò, verso le cinque del pomeriggio. Il Professore notò che aspettava che il locale fosse vuoto, come se avesse voluto evitare di mettere Peppe in difficoltà entrando mentre c’erano clienti paganti. Stavolta il barista, versato il bicchierino, lo collocò sul tavolo dove il Professore prendeva appunti e ci mise accanto un piattino con dentro una sfogliatella. L’uomo lo fissò disorientato, rimanendo al suo posto nei pressi dell’angolo del bancone; poi, in risposta al cenno di Peppe, si avvicinò guardingo. Si vedeva che il bicchierino e la sfogliatella costituivano un richiamo irresistibile, ma che c’era un evidente conflitto con la voglia dell’anziano di passare inosservato.

Alla fine fame e sete, come sempre accade, vinsero: e il vecchietto si sedette al tavolino, di fronte al Professore. Peppe rimase in piedi, indifferente alle occhiate disgustate di Deborah, mentre Ciccillo prendeva posto alla macchina del caffè.

Rivolto all’amico, mise una mano sulla spalla del barbone e disse:

«Questo signore, Professore mio, è Manuel. Non è di qui, viene da molto lontano: diciamo da un posto particolare, una città meravigliosa dall’altra parte del mondo».

L’uomo annuì gravemente e disse:

«Quindi da un altro mondo, si potrebbe dire».

La voce era bassa, e con un rotondo e accattivante accento spagnolo. La bocca con pochi denti guasti si aprì in un sorriso divertito, come se la sua fosse stata una barzelletta fulminante e si aspettasse un apprezzamento. Peppe disse:

«Manuel è arrivato qui negli anni Ottanta, al seguito di… Insomma, era con un suo amico. Poi ha scelto di rimanere qui. Al suo Paese faceva il periodista, il giornalista come lo chiamano loro; poi qui si è innamorato, e non ha voluto più andar via. Ci racconta storie bellissime, e noi ricambiamo chi con un pasto, chi con un maglione, chi come me con un po’ di calore per lo stomaco. Poco, se no gli fa male, vero, Manuel?».

Il vecchio annuì, compunto:

«Claro que sí, io ci tengo alla salute».

E di nuovo fece quel ghigno astuto.

Peppe riprese:

«Ma stavolta ho deciso di rimetterci una sfogliatella, per consentirti di ascoltare quello che Manuel ha da raccontare dell’amico al cui seguito venne qui, per non andarsene più. Ci stai, Manuel?».

Il barbone rise:

«Y como se puede resistir alla sfogliatella più buona della città? Dimmi pure che vuoi che ti racconti, mi amigo».

Peppe allargò le braccia:

«Lo sai che voglio che mi racconti, Manuel. Sempre la solita storia».

Manuel si mise comodo, e guardò fuori con aria assorta.

«Bien, mi hermano. Ma mi si seccherà la gola, e questo ti costerà un altro cicchettino.»