VENERDÌ

La cappella dei Cappuccini

Il Professore aveva ormai le idee in corso di veloce chiarimento. Gli elementi c’erano tutti: la comune convinzione, il senso di appartenenza, la vicinanza e perfino la mitologia condivisa. Una Malattia, forse, come gli stessi contagiati la definivano, ma pur sempre un elemento fortemente identitario.

Mentre si avviava di primo mattino alla sua postazione di ricerca, ansioso di constatare quanto la curva della tensione incrementasse a soli due giorni dall’Evento, s’imbatté in Ciccillo. Il ragazzo era insolitamente fermo, immobile all’angolo del vicolo con la strada grande. Teneva i pugni stretti e gli occhi chiusi, e sembrava stesse recitando tra sé una specie di litania.

Il Professore gli giunse alle spalle e si fermò un attimo a osservarlo.

Poi gli disse:

«Uè, Cicci’, buongiorno. Che stai facendo? È successo qualcosa?».

Il ragazzo si produsse in un ottimo tentativo di battere il record del mondo di salto da fermo; una volta atterrato rispose:

«Buongiorno, Professo’. Scusami, io distratto».

«No, scusami tu se ti ho spaventato. Ma stai bene?»

Ciccillo arrossì sotto il colorito bruno.

«No. Sì, bene. No, veramente non molto. Ma adesso ce la faccio, due minuti e ce la faccio.»

Il Professore lo scrutò. Aveva visto migliaia di ragazzi di quell’età, e pur essendo consapevole delle diversità possibili sapeva ben riconoscere l’angoscia primaria di un ventenne.

«Guarda che andare avanti così non serve a niente. Devi trovare il coraggio, altrimenti sarà sempre peggio.»

Ciccillo lo fissò per un momento, con i grandi occhi neri spalancati. Poi si svuotò come un sacco.

«Si vede così tanto, Professo’?»

L’anziano sorrise e annuì.

«Sì, ma io sono bravo. Magari nessun altro se n’è accorto, stai tranquillo.»

Il ragazzo sospirò:

«Di certo non se n’è accorta lei. Io faccio, dico, corro e lei nemmeno guarda. Sempre cazzo di telefono, sempre sorelle, sempre clienti. Parla con Peppe, certe volte. Ma io, io non guarda. Non esiste, Chittaranjan, per lei».

Fu il turno del Professore a sgranare gli occhi:

«Chi, non esiste?».

Ciccillo sorrise triste:

«Mio nome vero. Io così mi chiamo. Ma nessuno sa, quando detto a Peppe, lui deciso Ciccillo e io rimasto Ciccillo. Solo a casa mi chiamano col mio nome».

Il Professore assentì, pensoso:

«Be’, da un certo punto di vista io lo capisco a Peppe, non è un nome semplice con cui chiamare il ragazzo che lavora con te. Ma il nome, soprattutto nella tua tradizione, è una cosa importante. Comunque, tornando all’argomento principale, penso che dovresti trovare il coraggio di parlare con lei. Guarda che spesso le ragazze sono sorprendenti, magari ti dà retta; e in ogni caso, tutto è meglio di restare così, ai margini e in silenzio. Fidati: il nemico principale è il silenzio».

Davanti agli occhi del Professore passarono all’improvviso i penosi, ultimi mesi della sua convivenza con la moglie. Era diventato così palese il disinteresse di ognuno per l’altro che semplicemente non avevano nulla da dirsi. E anche dopo che lei se ne fu andata, ogni volta che lui le telefonava, perché gli sembrava assurdo che dopo tanti anni non ci fosse più alcun contatto, dopo i saluti formali scendeva una coltre di buio che rendeva quei pochi minuti insopportabili.

Chissà come stava, si domandò all’improvviso. Non aveva sue notizie dai tristi auguri di Natale, un paio di mesi prima.

Ciccillo stava parlando, con un lamentoso sussurro:

«Tu non vedi, Professo’? Ogni volta che lei dice a me qualcosa, è dura, brusca. Mai parola buona, mai sorriso. Peccato, lei tanto bella quando sorride. Solo a qualche cliente, solo qualche volta».

«Ma tu le hai mai fatto capire qualcosa? Che so, una parola, un invito, un piccolo regalo?»

Di nuovo il ragazzo fece un’espressione di enorme spavento:

«Io? Tu pazzo, Professo’. Ma tu vista lei? Lei terribile, dura, sempre fare cazziatoni alle sorelle, ai clienti, a me, perfino a Peppe. E se io sorrido, parlo o invito e lei si mette a gridare? A me lavoro serve».

Il Professore rifletté; Ciccillo non aveva torto, in un ambiente così ristretto una frizione qualsiasi poteva rendere l’aria irrespirabile.

«Allora tu devi cercare, un po’ alla volta, di allontanarti. Così, se lei vuole averti vicino, te lo farà capire; altrimenti riuscirai a pensarci sempre di meno, fino a non soffrire più.»

Ciccillo annuì con amarezza.

«Sì, Professore. Fino a non soffrire più.»

Il Professore provò una stretta al cuore.

«Tu sei un bravo guaglione, sai. Lavori tanto, ti sforzi, e trovi la forza di innamorarti e di coltivare l’amore. Credimi, non è poco.»

Il ragazzo fece un mezzo sorriso e si allontanò verso il bar.

Di corsa.

Come il Professore ebbe subito modo di verificare, il venerdì era un giorno diverso da tutti gli altri. L’ultimo giorno feriale prima della partita, quindi gli avventori sapevano che la tribuna sportiva perenne avrebbe avuto un’interruzione proprio in corrispondenza del momento topico. Sembrava a tutti quasi un tradimento aver coltivato con discussioni, congetture, dibattiti e perfino litigi un avvenimento di tale portata e poi doverlo vivere ognuno nel proprio contesto, non potendone di nuovo discutere, dibattere e congetturare insieme fino al lontanissimo lunedì.

Ciò non toglieva ovviamente nulla al parossismo della tensione al quale ormai si era arrivati. Nell’inferno della colazione tutti si intrattenevano per più tempo del dovuto, optando per il più lungo a sorbirsi cappuccino, in luogo del troppo veloce caffè. I commenti vertevano sulle conferenze stampa del giorno prima, condite di bellicose dichiarazioni dei protagonisti annunciati che, in sintesi, dicevano tutto e il contrario di tutto: sarà il campo a parlare, daremo il massimo, non faremo sconti, cercheremo di portare a casa il risultato, deciderà il mister.

Eppure persino le solite ovvietà avevano un colore diverso, il venerdì. Il clima era quello del verdetto senza ulteriore appello, dell’ultima spiaggia. Anche un titolo della spiegazzata pagina sportiva che passava di mano in mano assumeva un peso, una rilevanza inspiegabile se non con l’enorme senso di ansia che serpeggiava nel bar.

Un uomo pallido, guardando nel vuoto, disse cupo:

«Non lo voglio nemmeno pensare».

Esprimeva soltanto l’altra metà del cuore, il sentimento che chiunque teneva ben chiuso nella stanza in fondo dell’anima. Ma la reazione fu immediata. Tutti i maschi portarono, più o meno esplicitamente, la mano destra al cavallo dei pantaloni rivolgendo lo sguardo altrove. Le donne sbuffarono o rivolsero al suolo indice e mignolo eretti, con un sonoro “tie’!”. L’uomo impallidì ulteriormente, balbettando scuse nella piena consapevolezza che tutti avrebbero ricordato la sua espressione di timore, attribuendogli responsabilità dirette nel deprecato caso. Per molto meno, uomini forti erano stati costretti a emigrare.

Le ritualità della scaramanzia cominciarono a produrre le complicate liturgie che la solennità dell’Evento prevedeva. Il Professore vide stringere accordi precisi in merito ad appuntamenti telefonici, a incontri cui presenziare e a comportamenti da assumere.

Un gruppo di impiegati appartenenti allo stesso ufficio, ad esempio, era convinto che il manifesto disinteresse alla partita da parte di un preposto di recente arrivato nella struttura fosse, complice un accento inquinato da anni di permanenza al Nord, indice di un criptotifo per i Grandi Avversari. Il fatto che egli fosse un probabile seguace del Male poteva gettare una sinistra ombra di maleficio sull’incontro, per cui bisognava decidere le contromisure da adottare. Il tavolino residuo del bar di Peppe fu eletto a luogo di discussione sull’argomento, e il Professore poté felicemente annotare sul taccuino le proposte avanzate. Alcune, per fortuna scartate, avevano rilevanza penale: si andava dal rinchiudere a fine giornata nel bagno dell’ufficio il malcapitato, che avrebbe avuto l’unico disagio di non potersi nutrire per il weekend, avendo per il resto tutto quello che gli occorreva, fino all’investimento pirata presso l’attraversamento pedonale vicino al parcheggio, a bassa velocità per non incorrere in soluzioni estreme. Vinse il partito più moderato, perché in fondo non sussistevano prove univoche del fatto che l’individuo tifasse per gli esecrati colori avversi: magari, disse un tarchiato caposezione, era solo gay. Per cui si optò per il ricovero nella di lui borsa di un corno azzurro, immesso senza che se ne accorgesse, e per un accurato interrogatorio di verifica da effettuarsi il lunedì successivo. Se l’esito non fosse risultato positivo, con indizi concreti dell’appartenenza ad altri schieramenti, si sarebbe dato inizio a una terapia correttiva a base di lassativi insapori aggiunti di nascosto alle bottiglie d’acqua minerale di cui il possibile colpevole dell’andamento negativo della partita si muniva a inizio giornata, bevendo poi fastidiosamente e continuamente a piccoli sorsi.

Il venerdì, scoprì il Professore, era il giorno in cui le speranze non venivano espresse. Come quando il tempo pare assurdamente buono proprio nell’occhio del ciclone, un attimo prima che si scateni il finimondo, si tentava di parlare d’altro. Ma la conversazione era spezzata, fratturata e molto distratta: si capiva che le teste andavano sempre all’Evento, rigirandoselo come un incipiente mal di denti. Temendolo e sperando che si avvicinasse velocemente, sospesi tra la gioia eventuale e l’ipotesi della disperazione. Ogni tanto, in mezzo alla folla dei cappuccini, si sentiva esplodere una risata nervosa, o si registrava una reazione esagerata a un urto che faceva rovesciare una goccia di liquido su una manica. Sospensione. Nervosismo, tensione, ansia. Ma soprattutto sospensione.

In molti, naturalmente, sarebbero andati allo stadio; si stringevano intese per appuntamenti in luoghi non toponomastici: fuori dal gazebo, davanti al chiosco, dove stanno i bagarini delle tribune. Luoghi i cui riferimenti erano pronunciati a mezza voce, con parole smozzicate e con la fronte aggrondata.

Ci si preparava, insomma, a un confronto con le proprie aspettative; e al culmine delle interminabili conversazioni, ci si rendeva infine conto che l’esito del campo avrebbe cancellato le opinioni, mettendo inequivocabilmente tutti di fronte alla realtà, distribuendo il torto e la ragione con nettezza, come succede pochissime volte in ogni altro ambito.

Per questo motivo, i più radicali quel venerdì mattina, trattenendo in entrambe le mani il calore del cappuccino, smussavano le proprie certezze, al fine di non essere catalogati, il successivo lunedì, tra quelli che avevano sbagliato senza appello. Le vittorie larghe diventavano di stretta misura; i pareggi si aprivano alla possibilità di un trionfo; il ruolo previsto da salvatore della patria di un calciatore o di un altro diventava quello di possibile comprimario.

Qualche eroe si manteneva tetragono: i pessimisti soprattutto, gli irriducibili della scaramanzia negativa, pervicacemente insistevano nel vedere un futuro nero e le mezze frasi pronunciate con voce tremula erano come l’oboe in una sinfonia. Su una cosa erano tutti d’accordo, rilevò il Professore: l’arbitro.

Triste il destino di questi masochisti che, fin da quarantotto ore prima, si prestano a serissime analisi sulla morale sessuale delle loro consorti. I precedenti venivano analiticamente scomposti e frazionati, risalendo a cinque campionati prima quando il malcapitato in divisa color evidenziatore aveva omesso di annullare un gol nemico in clamoroso, evidente fuorigioco: ciò, stando agli esperti e agli storiografi dei torti subiti, era un chiaro indice dell’asservimento al Maligno del designato, incline al delitto e al malaffare come peraltro lombrosianamente chiaro dal prognatismo evidente nelle foto sul giornale sportivo. Nella migliore delle ipotesi, coincidente col mancato impatto sull’esito del confronto o con marchiani errori a favore, sarebbe passato inosservato; altrimenti, avrebbe raccolto voti unanimi di un doloroso destino fatto di malattie incurabili e rovesci finanziari. Il Professore si chiedeva quale psicopatologia inducesse un essere umano a voler fare l’arbitro di calcio.

La giornata scorreva, mantenendosi diversa da ogni altra. Perfino il tempo era irregolare, alternandosi discussioni animate che facevano trascorrere mezz’ora in due minuti, a silenzi accorati che dilatavano i minuti in ore.

In una delle pause del suo servizio, il Professore si rivolse a Peppe:

«Io una cosa continuo a non capire. Molti di questi sono colti, raffinati. Gente intelligente, che fa lavori impegnativi e di alta responsabilità. Non possono non rendersi conto di quanto non valga la pena di soffrire tanto, nel tessuto di un’esistenza che riserva comunque avversità nella professione, nei rapporti sociali, nelle relazioni familiari. Il passatempo, perché di passatempo si tratta, dovrebbe essere un’isola felice, un luogo dell’anima in cui ci si rifugia proprio per non soffrire. C’è chi va a pesca, o a caccia, non per ammazzare gli animali ma per stare ore in silenzio a contatto con la natura; chi fa il bricolage, chi dipinge, chi lavora a maglia per concentrarsi su altro che non siano i soliti pensieri di ogni giorno, e questo è naturale. Ma perché offrirsi a qualcosa che ti può far stare male? Perché se le cose non vanno come devono andare, questi poi stanno male davvero. No?».

Peppe rifletté a lungo. Poi rispose:

«Sì, certo che stanno male. Io ho visto gente piangere, ed erano adulti che nella vita le ragioni per piangere le avevano eccome. Ma tu, Professo’, proprio tu che hai tanto studiato le persone e quello che provano, non puoi sottovalutare la passione».

Il Professore chiese:

«In che senso?».

Peppe sorrise:

«Nel senso che secondo me è sbagliata la prospettiva. Tu non devi guardare quello che la gente ha nella vita, quindi i dolori, le avversità, le sofferenze, ma quello che non ha. O che non ha abbastanza».

«Cioè?»

«L’entusiasmo. Lo scoppio di una gioia imprevista e improvvisa. Vincere sul campo, senza dubbi, senza riserve. E soprattutto la condivisione: abbracciarsi urlando, saltellare tenendosi per mano, inveire insieme, perfino scoppiare a piangere uno sulla spalla dell’altro. Tu citami quante volte, nella normale vita di un adulto contemporaneo, ti può capitare, se escludi il pallone.»

Il Professore scosse il capo con decisione:

«Ma non è accettabile, quello che dici! E la politica? La coscienza di classe? Le grandi vittorie umanitarie, le religioni, i movimenti sindacali?».

Peppe scoppiò a ridere:

«Ma tu, Professo’, da quanto tempo non guardi il telegiornale?».

Prima che il Professore potesse replicare entrò nel bar una bella signora, alta ed elegante. Salutò Peppe con familiarità e si collocò alla fine del banco, dal lato opposto a quello del tavolino del Professore. Subito dopo fecero il loro ingresso due turisti, una coppia evidentemente proveniente da un Paese nordico, in bermuda e sandali nonostante il vento gelido.

Il Professore notò l’immediato moto di fastidio della donna, che squadrò i turisti con manifesto disgusto. I due chiesero indicazioni su una chiesa, non consumarono nulla e uscirono senza ringraziare.

La donna commentò, rivolgendosi a Peppe:

«Ecco. Hai visto, come fanno? Sono i padroni, tutto è dovuto. Non ringraziano, non consumano, non tirano fuori nemmeno un centesimo. Non li sopporto, io. Non li sopporto».

Peppe cercò di essere conciliante:

«Mari’, tu sei troppo dura con loro. Magari non conoscono bene la lingua, e hanno paura di sbagliare. E poi, che ci costa a noi dire dove sta il castello, o una chiesa qua vicino? Se non consumano qua, una cosa sempre se la devono mangiare, no? E poi, ti lamenti tu che ci lavori, coi turisti?».

La nominata Maria agitò un dito verso la porta dalla quale erano usciti i due:

«Proprio perché ci lavoro e li conosco bene, li so giudicare e distinguere. Tu, come al solito, sei troppo buono e li giustifichi: ma mi devi credere se ti dico che parlano la nostra lingua meglio di me e di te, e che se hanno rispetto lo hanno per la nostra storia e non per noi. Certo, con le dovute eccezioni».

Il Professore trovava affascinante quella donna. C’era qualcosa, in quella figura sottile e nella sua espressione decisa, che indicava intelligenza e femminilità.

Si schiarì la voce e disse:

«Se non sono indiscreto, qual è questo lavoro che la mette a contatto coi turisti?».

La donna si voltò verso di lui, e prima che Peppe potesse intervenire chiese:

«E se non sono indiscreta io, chi è questo signore che lo vuole sapere?».

Peppe rise:

«Professo’, stai attento che morde. Lei è Maria, la guida turistica più esclusiva e colta che abbiamo qui in centro; e tu, Mari’, rinfodera gli artigli. Lui è un mio caro amico, il Professore. Ci fa un po’ di compagnia, sta facendo una ricerca e gli serve sentire le opinioni delle persone. Tutto qui».

La donna, parzialmente rassicurata, accennò a un saluto. Deborah ridacchiò, mascherando la risatina con un colpo di tosse e fingendo di concentrarsi sul disegno elaborato che ornava le unghie della sua mano destra.

Il Professore si alzò dalla sedia e fece un lieve inchino.

«Mi scusi, signora. È che quello che ha detto mi ha incuriosito. Quindi lei ritiene che i turisti, interessati ai monumenti, ai musei e alle mostre non abbiano lo stesso interesse nei riguardi della popolazione attuale della città?»

Maria fece una smorfia, bevendo un sorso del cappuccino che aveva davanti.

«No, non è la mia opinione. È la mia certezza. E secondo loro, almeno la maggior parte di loro, tutto quello che abbiamo non ce lo meritiamo, perché non lo sappiamo tenere. Come se ci fosse arrivato in eredità, Pompei, cappella Sansevero, Capri, la chiesa di Santa Chiara. Caduto dal cielo, in mano a questo popolo incolto, incivile e disgraziato. Questo pensano di noi. Lo so. Lo vedo.»

Peppe sorrise, paterno:

«Mari’, tieni proprio un brutto carattere. Peccato, perché sei una bella donna. Secondo me per questo, sei rimasta zitella».

La donna lo mandò a quel paese, sorridendo:

«E già, perché una solo perché è femmina dev’essere compiacente e sorridente, così trova marito, eh? Lo so che mi prendi in giro, Peppi’, ci conosciamo da troppo tempo. Io sono zitella, come dici tu, perché gli uomini migliori, quelli come te per intenderci, si sono già sposati. E a tua moglie voglio bene, se no ci metterei cinque minuti a portarti via da lei, lo sai».

Peppe scoppiò a ridere, e rise anche Deborah. Ciccillo, impegnato ad asciugare tazze, sollevò il viso a quel suono e mescolò con gli occhi incanto e tristezza, in maniera visibile al solo Professore.

Per qualche strano motivo gli venne di chiedere:

«Invece lei la pensa in altro modo, evidentemente. Ce la meritiamo, la nostra storia? E la teniamo presente?».

Maria non rispose subito. Fissò invece con interesse il Professore, come se solo in quel momento si fosse accorta della sua presenza. Bevve un altro lungo sorso, poi rispose:

«Non tutti. E non sempre. Ma in linea di massima sì, ce la meritiamo, la nostra storia. Perché è la nostra, l’abbiamo fatta noi. Questo è quello che dimentichiamo, la nostra colpa più grave: non ricordare che siamo noi, quel popolo. Che queste cose sono il segno indelebile di quello che siamo stati, e di quello che possiamo tornare a essere se ci decidiamo. Che sono mani nostre quelle che hanno costruito il castello in mezzo al mare, e le chiese, e le scalinate che salgono verso le colline. Siamo noi, quelli».

Il Professore annuì, interessato.

«E quindi trova inaccettabile anche lei, come i suoi turisti, il degrado in cui ci siamo ridotti. Mi scusi, ma non vedo la differenza.»

Peppe emise un fischio sommesso e sussurrò:

«Professo’, stai rischiando la pelle. Poi non dire che non ti avevo avvertito».

Maria gli fece un sorriso soave:

«Stia tranquillo, io non cado nelle provocazioni. Egregio Professore, la sottoscritta ogni santo giorno accompagna in giro per la Storia gruppi di barbari scesi dalle navi convinti che, a forza di dollari, franchi svizzeri e sterline, possono dimostrare la loro superiorità culturale. Ma non è una strada pulita e senza buche o un politico corrotto che fanno la differenza. È una questione di fantasia, di immaginazione. Di genio. E non sempre, purtroppo per noi, il genio, la fantasia e l’immaginazione si accompagnano al senso civico. Noi siamo individualisti: lo siamo nell’arte, nella musica e nella scrittura, e produciamo cose bellissime. Ma non sappiamo fare i concittadini. Tutto qui».

Poi, come se il Professore non fosse stato presente, si voltò verso Peppe:

«E che ricerca sta facendo, questo amico tuo?».

Peppe si strinse nelle spalle:

«Una cosa sugli effetti del tifo sulla gente. Il calcio inteso come passione».

Maria annuì, pensosa.

«Mmh. E quindi immagino che lei pensi, Professore, che sia una specie di follia collettiva. Che si tratti di una malattia, come peraltro dice lo stesso nome: il tifo, qualcosa di epidemico e dannoso.»

Il Professore sorrise, inchinandosi lievemente:

«Onorato di essere ritenuto così approssimativo, signora. Uno scienziato, se lei non lo sa, non ha preconcetti. Altrimenti non sarebbe uno scienziato. Io raccolgo gli elementi e dopo, soltanto dopo, traggo le conclusioni. Una ricerca seria non è mai a tesi».

La donna sorrise, come se si fosse aspettata la risposta.

«E allora è disposto a tenere nella giusta considerazione anche un’apparentemente assurda manifestazione di fede, no? Rappresentata da tracce di storia recente.»

Il Professore annuì:

«Ma certo. Nulla di meglio della fede, per comprendere le ragioni di certi momenti storici del pensiero collettivo. Naturalmente, se questa concorre alla formazione di una consapevolezza di popolo. Ma su questo ho idea che siamo d’accordo, no?».

Maria sembrò riflettere se continuare o no la conversazione. C’era qualcosa, nel modo di fare di quell’uomo, che la metteva a disagio: come se si muovesse di qua e di là dal confine tra il prendere sul serio quello che si dicevano e lo sfottò.

Si decise, e continuò:

«Quindi, da serio e onesto scienziato, non si sorprenderebbe se le parlassi di un monumento, diciamo così, non convenzionale? Di tracce di fede alternativa, proprio nel bel mezzo del centro storico della città antica?».

Il Professore sorrise a sua volta:

«Io, signora, sono pronto ad ascoltare qualsiasi storia. Soprattutto se a raccontarla è una persona affascinante come lei».

Peppe e Deborah si scambiarono un cenno d’intesa: l’austero Professore faceva il galante.

Maria assentì, seria; finì il cappuccino, ne ordinò un altro e si sedette al tavolino fissando i suoi occhi blu in quelli dell’uomo.

«E allora, Professore, liberi la mente dai pregiudizi. Perché mi creda, uno scienziato è pur sempre un uomo; e ogni uomo, magari in segreto, i pregiudizi se li tiene cari e li coltiva. Ascolti bene.»