Non ci porto tutti.
Non è uno di quei luoghi in cui accompagnare qualsiasi gruppo, magari alla fine del giro, quando le vecchie signore in evidente sovrappeso sono stanche morte e si trascinano ansimanti. Bisogna essere certi che abbiano capito bene, che siano entrati in comunicazione con lo spirito, con l’anima della città.
Perché questa, sapete, è una città particolare. Funziona come un enorme animale addormentato, sulla pelle del quale camminiamo cercando di mantenere l’equilibrio senza cadere nel buio di anfratti maleodoranti dai quali sarebbe difficile riemergere uguali a prima. Un’epidermide frastagliata e irregolare, con ombre e luci che si alternano senza una logica, in grado di farti ridere e piangere cinque volte in un’ora; si riesce a mantenersi in piedi e perfino a camminare solo se si entra in perfetta sintonia con quello che ti sta attorno. Una questione di ritmo: come il suono dei tamburi che ogni sera cominciano a martellare le orecchie in piazza San Domenico Maggiore, per ricordare che siamo in pieno Mediterraneo, signore e signori: dimenticate l’asettico nitore delle vostre nordiche piazze, e le mute di poliziotti che accorrono fischiando ogni volta che un ragazzino lascia cadere, magari inavvertitamente, la carta sporca del proprio gelato.
Qui siamo al Sud. Qui si urla e si gesticola, si parcheggia in doppia e tripla fila e ci si incazza perché si urla, si gesticola e si parcheggia in doppia e tripla fila. Abbiamo le nostre usanze.
Credete che non le noti, le espressioni? Mica sono scema. So a memoria tutto quello che devo dire, perfino le risposte alle domande che mi verranno poste sempre nello stesso punto, e sullo stesso argomento. Si guardano attorno con una faccia un po’ così, a metà tra il terrorizzato e il curioso, ansiosi di vedere qualcosa di orribile che potranno raccontare tornando a casa come si fa rientrando da un safari nell’Africa Nera. A volte ho fantasticato di organizzare qualche spettacolino a uso privato, così, giusto per vedere le facce che farebbero questi gruppi di pensionati delle poste tedesche o delle ferrovie giapponesi, in cerca di brividi nella città-inferno. Che so: dare una ventina di euro a un paio di ragazzi per inscenare uno scippo con tanto di intervento di un supereroe in giacca e cravatta, che agguanta il cattivo, lo costringe a restituire il maltolto e poi sorridendo alle minicamere e agli obiettivi tiene un breve discorso in inglese sul bene e sul male. O rappresentare una redenzione dalla prostituzione minorile, con un’anziana madre che toglie dalla strada una fanciulla costretta dalla povertà a vendersi. Oppure, al contrario, farli sequestrare da un commando di camorristi d’epoca, con lunghi coltelli a serramanico e baffoni a manubrio, facendoli poi liberare da un finto vigile urbano che sconfigge il nemico a mani nude. Così, giusto per vedere quelle facce rubiconde aprirsi a un’espressione interdetta e poi felice. Raccontate questo a casa vostra, davanti agli amici costretti a quei terribili pomeriggi a base di sachertorte e diapositive.
Poi penso: chi me lo fa fare? Tanto, qualsiasi bellezza vedano, qualsiasi tesoro d’arte e di storia e di cultura incontrino, non cambieranno idea. O, se la cambieranno, basteranno tre mesi di telegiornali e reportage per riformarsela del tutto uguale a prima, riesumando il ricordo di un cestino traboccante o di un venditore ambulante per poter sentenziare: io ci sono stato, è proprio come dite voi.
Insomma, non ci porto tutti. In genere mi limito a fare il solito giro, riunendo a piazza del Gesù il gruppo che mi ha contattato tramite l’ufficio. Illustro la facciata bugnata della chiesa, unica in Italia col Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Gli racconto delle scritte ritrovate recentemente negli interstizi, che lasciano pensare che ci sia uno spartito musicale scritto sul muro, e che c’è perfino un’orchestra che ha suonato la canzone che è stata trascritta dagli studiosi.
È questo il primo banco di prova. Io trovo che sia meravigliosamente simbolico che qui cantino anche le mura dei palazzi storici: da quale altra parte è così?
Il grosso delle volte rilevo un vago, educato sorriso e un appena lieve intensificarsi del ritmo degli scatti fotografici. Altre volte nemmeno quello, sguardi vuoti che scivolano sulla facciata e sull’obelisco al centro della piazza alla ricerca di un chiosco per l’ennesima birra della mattinata. Molti partecipano a questi tour perché costretti dalle mogli o da qualche capogruppo fastidiosamente interessato all’archeologia o alla storia; altri si fanno trascinare a rimorchio da un ambiente sociale o da qualche associazione alla quale partecipano solo per fare affari, e non vedono l’ora di tornarsene sulla nave dalla quale sono scesi col buffet e i bar aperti ventiquattr’ore, la musica dal vivo col revival anni Settanta e la piscinetta riscaldata.
Fantastico spesso di regalare la mia conoscenza a quegli smilzi ragazzi con gli occhiali e i capelli sporchi che girano a occhi spalancati sotto il peso degli zaini, dormendo in sacco a pelo negli androni dei palazzi e guardando i musei dall’esterno perché non hanno i soldi per il biglietto. Loro sì che avrebbero la luce nello sguardo, se gli raccontassi dei bambini neonati morti e seppelliti senza lapide nei chiostri, o dei teschi che sorridono nelle catacombe di Santa Maria del Purgatorio ad Arco; e mi verrebbe voglia di approfondire, scivolando sul velo marmoreo del Cristo velato o sulla complessità del sistema circolatorio ancora ignoto alla scienza, ma intrecciato da chissà quale magica mano nella scultura delle macchine biologiche di Cappella Sansevero. A loro sì che sarebbe bello descrivere la filosofia massonica che percorre i vicoli come un canto sommesso, e il culto degli dèi Egizi che ancora è evidente in statue e targhe misteriose, piazzate secondo un arcano percorso che porta alla sorgente di un fiume dimenticato. A loro sì che racconterei dei giochi sacri che si tenevano nella lunga pista sulla quale è stato poi costruito l’attuale corso Umberto, quando Roma era poco più di un villaggio di pastori; giochi ai quali partecipavano i più grandi atleti di tutto il mondo allora conosciuto, e attorno ai quali c’erano riti e mercati e incontri di filosofi che duravano mesi.
Ma si deve pur mangiare, giusto? E allora invece di parlare a chi mi ascolterebbe incantato devo guidare, con un ombrellino in mano, squadroni di grassi e disinteressati anziani per vicoli e piazze, rilevando un molto maggior interesse per i ristoranti che per le chiese. E l’unico sfizio che posso togliermi è farli arrancare per anguste scalinate, sentendoli ansimare wunderbar o wonderful sotto le camiciole a fiori, le gambone rosa strizzate nei bermuda a più tasche che indossano sfidando l’inverno freddo.
Questo dell’abbigliamento incongruo è uno dei pochi sfizi che la mia professione riesce a fornirmi. Siccome vengono qui, e l’immagine oleografica della città propone il caldo e il mare e la perenne estate, chisto è ’o paese d’o sole, allora ci si veste per principio come se ci fossero quaranta gradi. Io amo perciò le giornate in cui il tempo combatte l’ovvio e produce quella frizzante tramontana, o quell’infame gelida pioggerella che entra nelle ossa. È allora che gli orribili sandali francescani, i pantaloncini di tela e le camicie traforate a mezze maniche danno il meglio di sé, scoprendo vaste porzioni di pelle originariamente rosea e lattiginosa resa bluastra dal freddo, come le labbra tremanti. I commercianti di abbigliamento sorridono malignamente felici e incassano fior di quattrini per estemporanei maglioni e sciarpe, e i cingalesi piazzano ombrellini monouso con entusiasmo. Così l’economia gira, anche da queste parti dove non produciamo Volkswagen.
Capite bene, quindi, che quel posto non è per tutti. Anzi, direi che sono pochissimi quelli che meritano una visita guidata in quel meraviglioso luogo di culto, dove solo l’anima sensibile può aprirsi a un incontro di forte, personale fede.
Mi accorgo dell’inclinazione giusta quando, nell’ambito del folto gruppo di pecore belanti e fotografanti, qualcuno si stacca, come se volesse prendere le distanze da questi casuali e insopportabilmente amorfi compagni di escursione. Di volta in volta un uomo, un ragazzo, una donna mi avvicina e mi chiede: signora, ma non si potrebbe vedere qualcos’altro? Qualcosa, intendo, che non sia così turistico? Qualcosa che mi racconti dell’anima della città, così com’è oggi anche se legata a com’era prima?
Una domanda in apparenza confusa, la manifestazione di un’esigenza che deriva dall’intuizione che ci sia qualcos’altro da sapere. Una nota bassa, al limite dell’udibile, che può essere percepita da una curiosità particolare, non tanto di testa quanto di pancia.
E allora io faccio un sorriso e un cenno con la testa. Sussurrando in tono inevitabilmente cospiratorio suggerisco di fermarsi dopo il rompete le righe, quando la mandria si avvia verso il ritorno nel rassicurante albergo a cinque stelle o sulla nave alta quanto un condominio newyorkese. E conduco il curioso o i curiosi in gruppi di non più di quattro unità nel luogo sacro.
Non è affatto nascosto: anzi, è sapientemente collocato sulla principale direttrice del decumano inferiore, la via principale del percorso turistico, quella che attraverso portoni enormi e meravigliosi cortili che occhieggiano su un vicolo antico conduce alla via dei presepi e delle nascoste fonti. Spesso penso che la via del culto, della religione istintiva che porta l’essere umano a credere nel trascendente venga da assai prima della storia, e affondi nel futuro senza tener conto della scienza. La gente prega negli stessi luoghi in cui ha sempre pregato. Sarà il percorso del sole o dell’acqua, sarà una questione di magnetismo terrestre o di origine della specie, ma certe strade e certi incroci hanno una magia nell’aria che altri non hanno. Bisogna accettarlo, e uniformarsi. Tutto qui.
Ci si arriva lasciandosi alle spalle la statua del dio Nilo, nell’omonima piazzetta, statua che aveva perso la testa, trafugata e poi ritrovata e rimessa al suo posto; guarda verso il mare, come un fiume deve sempre fare, e la tradizione vuole che sia stata posta proprio alla fonte dell’antico Sebeto che attraversava il centro della città greca per sfociare nel golfo, portandosi dietro le speranze e le passioni di un popolo. Oggi il fiume non c’è più, almeno nella parte emersa: sarà per questo che le passioni e le speranze ristagnano e continuano a girare nell’aria in gorghi e mulinelli.
Non mi fermo a guardare la statua, e nemmeno preparo il turista curioso a quello che sta per vedere: toglierei un po’ di sorpresa, e non voglio farlo. Le strade risuonano ancora delle voci di poeti antichi e recenti: sono luoghi cantati da Basile e Boccaccio, ma anche da Compagnone e Rea e Di Giacomo e Viviani, dal grande Eduardo e da Pino Daniele, il meraviglioso interprete del suono cambiato della città.
Ci si arriva un po’ all’improvviso, com’è giusto che sia. Non ci si prepara alle illuminazioni. In origine era all’esterno, incastonata nel muro del primo palazzo sulla destra dopo la piazzetta, e bisognava stare attenti a farci caso, in tutto e per tutto uguale a ogni altra, tra le mille presenti in qualsiasi vicolo del centro antico.
Esiste una codifica per le edicole votive. Nascono dall’impellente bisogno di trascendenza di una famiglia o della comunità di un pezzo di strada, per ringraziare di una benedizione o di un piccolo miracolo, per esaudire un voto o anche solo per celebrare una fede. Ricordano l’architettura di un tempietto, il tetto spiovente e due colonne ai lati, con una mensola a fare da altarino.
Al centro, protetto da una lastra di vetro, l’immagine del Santo o della Madonna celebrata, dipinta con amore e cura. Sotto, la raffigurazione iconografica di scene della Sua vita, o il ricordo di qualche celebre miracolo avvenuto per Sua mano. Infine, quando rarissime volte è disponibile, perfino un piccolo tabernacolo aperto alla visione dei fedeli, con una Reliquia. Chiedo scusa per tutte queste maiuscole, ma si tratta di Vera Fede; e quando è Vera Fede, si deve sentire pure per iscritto.
Questa edicola adesso è stata portata all’interno dell’edificio, con una traslazione avvenuta nel corso di una cerimonia privata. È stato necessario, perché gruppi di turisti impreparati, blasfemi e inconsapevoli sostavano facendo foto e orribili selfie, rimarcando il basso livello di coinvolgimento nelle tradizioni religiose popolari dei luoghi che si visitano senza adeguata preparazione. Si mettevano là, ridacchiando volgarmente, commentando la simpatica cialtroneria e l’istrionismo di un popolo che non conoscono e non capiscono. Si fotografavano e filmavano e se ne andavano a mangiare il ragù e la pizza margherita, non rendendosi conto di quello che avevano appena visto.
L’edicola ha tutte le caratteristiche che vi ho detto. Tutte. Ma qui la religione cattolica apostolica romana non c’entra; e non si commemorano guarigioni, salvataggi da terremoti o la fine di antiche epidemie. Non c’è il fantasma di un terribile dolore o il ricordo di morti atroci. Eppure si tratta di Grazie ricevute, di Fede profonda, di inestinguibile Amore.
Qui c’entra il Sudamerica. Qui si parla di Miracoli. Qui si ricorda la Gioia perfetta.
In cima, al culmine del tetto spiovente, uno scudo azzurro sormontato da una corona riporta la N iniziale del nome della città adorante. Sul transetto, ai lati di un’immagine dipinta del lungomare con lo sfondo della montagna dai delicati contorni, le icone raffiguranti i Miracoli: due triangoli tricolore il cui nome gergale, per motivi scaramantici, mi rifiuto di pronunciare. Il numero uno e il numero due rappresentano gli anni dei trionfi, il 1987 e il 1990. La delicata mano anonima del costruttore ha voluto porre, al fianco dei Cosi tricolori, le immagini stilizzate dei due trofei vinti in quegli anni, una Coppa Uefa e una Coppa Italia. I trofei sono dorati, a simboleggiare il trionfo senza discussioni di quelle meravigliose cavalcate.
Al centro, il Santo Volto: una meravigliosa fotografia in cui il Divo adorato viene rappresentato con il fiero sguardo rivolto verso le future vittorie, nel fiore degli anni, la maglia azzurra e il Coso tricolore sul petto. Di fianco al Capo Riccioluto, a voler collegare i maggiori culti della popolazione cittadina, un’immagine della Madonna del Carmine intenta a vegliare su quel Figlio meraviglioso.
Ma è sotto di Lui, in una piccola teca segnata dalle impronte di tanti che pur attraverso il vetro cercano di trarne il positivo influsso, che c’è la vera ragione della presenza dell’edicola: la Reliquia.
È quando lo sguardo attonito del turista sensibile si sofferma su di Essa che comincio, con tono basso, a raccontare.
Si narra infatti di un tifoso benedetto dalla sorte che un giorno fu collocato dal destino e dall’Alitalia nel sedile posteriore a quello occupato dall’Augusto Pibe, di ritorno coi compagni da una trasferta naturalmente vittoriosa. L’Uomo era stanco, avendo dispensato molto talento come sempre, e come spesso accadeva avendo in abbondanza festeggiato la vittoria riposando poco nella precedente notte, saziando di sé molteplici sacerdotesse adoranti insieme alla simpatica ciurma di fratelli, cugini e procuratori di cui Egli amava circondarsi; cosicché si addormentò, delicatamente russando con la bocca spalancata per l’intero viaggio.
Il fortunato tifoso vegliò trepido su di Lui per il volo, pronto a fare scudo col suo corpo a ogni tentativo improvvido di interrompere il Sacro Riposo. Sapeva bene, il tifoso, quanto fosse importante che quel sonno rigenerasse le energie che in seguito tanta gioia avrebbero donato al popolo azzurro. Morfeo rilasciò comunque il Divo quando, a seguito di un poco dolce atterraggio con conseguente sobbalzo, Egli regalò di nuovo il proprio sguardo al mondo. Stropicciandosi gli Occhi e schioccando la Sacra Lingua, il Pibe si stiracchiò e sbarcò dal velivolo, impartendo distratte benedizioni alla folla ululante che come al solito Lo attendeva ai piedi della scaletta.
Il tifoso allora, quando si fu riscosso dall’estasi, trafugò con un gesto rapido e istintivo il pannetto che ricopriva il poggiatesta al quale per l’intero tragitto si era appoggiato il Divo e sul quale era rimasto, proprio al centro, un lungo capello reduce dalla sommità della di Lui cervice. Il capello fu rimosso con una pinzetta e trasportato come il reperto di un delitto presso un bar nei paraggi della suddetta piazzetta Nilo, il cui proprietario, noto per la specchiata fede e per l’immenso amore verso il Divo, immediatamente provvide alla costruzione dell’edicola (non possedendo i mezzi per l’edificazione di una cattedrale, come avrebbe voluto).
Alla base della teca in cui è custodito il Divin Capello, e qui si sintetizza a meraviglia la natura cittadina che saggiamente vuole il ricordo del peggio all’interno della memoria del meglio, c’è un’ampolla nella quale è conservato un liquido trasparente. Un cartiglio reca la scritta: “Lacrime napoletane: anno nero 1991”, con riferimento al momento della caduta dalle stelle alle stalle che per quasi vent’anni hanno poi costituito l’abitazione morale del tifo azzurro.
Terminata la spiegazione, scruto in genere l’espressione del turista al quale ho ritenuto di dedicare l’approfondimento. Se ho scelto male, scoppierà in una sgangherata risata e si allontanerà scuotendo il capo, per poi raccontare al ritorno a casa a parenti e amici quanto sappiano essere fatui e superficiali i napoletani, con tutti i problemi che hanno.
Ma se invece ho scelto bene, mi sorriderà con gli occhi e con la bocca. E capirà che proprio quando il destino e la storia si accaniscono contro un popolo, dotandolo di tutte le piaghe che la civiltà occidentale sa infliggere, un po’ di gioia e di effimera felicità diventano necessarie alla sopravvivenza. Che non è giusto per nessuno vivere costantemente immerso in un disagio che non si ha la forza o il modo di risolvere. Che c’è un bisogno fisico di urlare, cantare e ballare senza freni, almeno una volta ogni trent’anni. Che questo ballare, cantare e urlare è il sapore della gioventù, e che questa gioventù non si nega a nessuno.
Se ho scelto bene, il turista annuirà gravemente e si guarderà attorno, per lasciare un’offerta come si fa nelle chiese in cui si entra per la prima volta: e al posto del banchetto in cui si incamera senza nulla dare in cambio se non un’indulgenza, troverà la cassa del bar che invece retribuirà l’offerta con uno dei migliori caffè del mondo, un nettare scuro che resterà indimenticabile come l’Immagine appena visitata.
Il barista sorriderà grato e felice, e strizzando l’occhio astuto dirà: «Dotto’, che vi credete? La scienza va avanti. E sono sicuro che un domani, magari fra non molto tempo, arriverà qualcuno in camice bianco e mi chiederà di aprire la teca per prelevare il capello. Perché magari, per vincere un’altra volta, basterà andare in laboratorio e fare una bella clonazione. Dotto’, ma voi l’avete visto Jurassic Park?».