Il colpo di fortuna

Io un colpo di fortuna solo ho avuto, nella vita. Le corna.

Cacchio, penserete voi: e se le corna sono un colpo di fortuna, figurati la sfiga! Lo so che sembra strano: ma io dico davvero, e se avete un poco di pazienza vi racconto tutto dal principio, e vedrete che concorderete con la mia analisi.

Dunque, io ho ventidue anni. Quell’età, come sapete, in cui uno dovrebbe vedere di capire finalmente che vuole fare nella vita, giacché metà dei suoi coetanei lavora o fa pratica in qualche studio o comunque si dà da fare e l’altra metà ha già deciso di procrastinare ogni decisione, accontentandosi di campare sulle spalle di papà per almeno un’altra decina d’anni e poi se ne parla. Peraltro di questi tempi uno non può certo pensare di andarsene a vivere per conto proprio, con ’sti contratti di sei mesi in sei mesi, no? Tanto vale spendere i soldini che si guadagnano in qualche vacanza low cost, e dare a mammina l’illusione di essere ancora giovane stirando le camicie e rifacendo il letto.

Io, come direbbe Tolkien, sto nella Terra di Mezzo. È una vita, che sto nella Terra di Mezzo.

Sono figlio unico di un impiegato comunale e di una casalinga. Abito qua vicino, in un vicolo uguale a questo: un piano alto, tre camere e servizi con cucina abitabile. La casa era di mio nonno, che infatti finché ha campato è stato con noi perché pure mia mamma è figlia unica. Questo fatto della casa di proprietà è quello che ci ha permesso di vivere relativamente comodi, ma che ha dato ai miei l’illusione di poter fare il passo più lungo della gamba, cioè darmi la possibilità di crescere in un ambiente migliore di quello in cui sarebbe stato per me censitariamente corretto.

Intendiamoci, io ai miei voglio bene e gli sono molto grato. Hanno fatto sacrifici enormi, nemmeno una pizza per anni, nessuno svago: tutte le loro forze concentrate per mandarmi a scuola nei quartieri “buoni”, per fare una vita migliore della loro. Un intento lodevole, una nobilissima intenzione.

Io però, se avessi avuto voce in capitolo, gli avrei chiesto di risparmiarsi la fatica.

Vedete, i genitori questo errore fanno: credono che la vita sia uguale a com’era quando erano ragazzi loro. E quindi, che sia sufficiente frequentare la tale scuola, conoscere i rampolli delle famiglie aristocratiche, sposare una compagna di classe ricchissima col padre barone della medicina o avvocato delle stelle e ritrovarsi a vivere un’esistenza placcata d’oro e diamanti, da ricco professionista stimato e riverito perché conosciuto e amato fin da ragazzino. Non che me lo dicano esplicitamente, ma io so che il piano era questo: e magari all’epoca loro funzionava pure.

Adesso no. Adesso se non hai la Smart, la casa a Capri e quella a Rivisondoli, le scarpe e il piumino giusti, sei solo uno sfigato. E siccome nel tuo quartiere sei giustamente odiato perché appartieni a un ambiente di ricchi e fighetti, ti ritrovi nell’invidiabile condizione di essere omogeneamente schifato da tutto il territorio urbano.

La mia è stata perciò un’adolescenza infame. Collocato ai margini di una vita sociale alla quale non avevo accesso, mi sono sentito dagli undici ai diciott’anni come un bambino affamato che sta fuori dalla vetrina di una pasticceria a guardare gli altri che si abboffano senza riguardo. Viaggi d’istruzione a Barcellona, Londra, Berlino ai quali non potevo permettermi di partecipare e in occasione dei quali ero costretto a inventarmi assurde malattie giustificative; serate in costose ed esclusive discoteche opportunamente affollatissime, il che mi permetteva di farmi vedere all’ingresso e all’uscita fingendo di essere stato anche all’interno, strategia ben presto scoperta e dileggiata dai perfidi compagni di classe; indumenti falsi spacciati per originali, e sgamati senza pietà dall’occhio acuto delle ragazze snob di cui ho costituito il più divertente argomento di conversazione per anni. Una ininterrotta teoria di umiliazioni e mortificazioni che hanno caratterizzato l’intero corso di studi.

Per non parlare dell’atteggiamento dei coetanei nel quartiere di appartenenza. Credo di aver contribuito in maniera decisiva alla formazione di un’anacronistica coscienza di classe tra i ragazzi del mio quartiere, divisi in tutto tranne che nell’antipatia nei mie confronti. Aspettarmi all’angolo del vicolo, appena fuori dall’amorevole sguardo di mia madre che vedeva partire il pettinato, lindo e falsomarcato rampollo verso la sua futura gloria per inzaccherarmi, strapparmi e spettinarmi era diventata una simpatica usanza, un irrinunciabile must di inizio giornata. Portava bene.

Le manie di grandezza dei miei mi avevano insomma collocato in una terra di nessuno sociale, un maledetto limbo che nemmeno forniva la consolazione dell’isolamento. Ero nella poco invidiabile condizione di suscitare le risate dei miei abbienti compagni di scuola e le livide invettive dei coabitanti di quartiere; in più ci mettevo del mio, avendo un modo di fare non certo brillante e nessuna delle qualità che avrebbero facilitato il mio inserimento in entrambi gli ambienti.

Non sono particolarmente attraente, né tanto brutto da poter con orgoglio esibire la personalità di un difetto fisico: magrolino, con gli occhiali, gli smorti capelli lisci che hanno la caratteristica di sembrare sporchi anche appena fuori dalla doccia. Tratti del volto anonimi, le spalle un po’ piegate dall’abitudine al tentativo di passare inosservato, la voce bassa e un po’ esitante. E soprattutto, peggio di uno sfregio permanente sul volto, non so giocare a pallone.

Credetemi, se esiste una capacità in grado di segnare la vita di un adolescente maschio nel mondo occidentale è il calcio. Mi chiedo per quale motivo non esista un’ampia bibliografia in merito, un dibattito tra sociologi e precise terapie relative a questo insormontabile scoglio relazionale. Se sai giocare al calcio, anche mediamente bene, ti ritrovi inserito nel ristretto novero di quelli che raccolgono consensi, che sono corteggiati dalle donne e adorati da stuoli di amici o aspiranti tali, coccolato da insegnanti e genitori. Qualunque sia l’accento o l’inflessione dialettale con cui parli, comunque tu ti vesta e addirittura quale che sia il colore della tua pelle, ti basta palleggiare con perizia e ogni barriera crolla rumorosamente, ogni diffidenza si scioglie come la neve al sole e diventi il centro sfolgorante del sistema solare del tuo ambiente sociale. Un passaporto per la felicità.

Se invece non sai giocare, sei un paria. Ti aggiri patetico ai margini delle conversazioni e degli incontri, cercando di interloquire anche su argomenti di secondaria importanza e nessuno ti dà minimamente retta. L’ora di educazione fisica, in cui il professore concede cortile e pallone alla classe scalmanata, è un calvario perché per far numero devi essere in campo, e ogni volta che la maledetta sfera ti capita tra i piedi i compagni di squadra urlano disperati, gli avversari ne approfittano con maligna prontezza e le ragazze sedute a chiacchierare e fumare si girano a guardarti ridendo. Una vera punizione del destino infame.

Naturalmente i riflessi di questa condizione si consolidano e si cristallizzano anche quando l’età del pallone finisce. Secondo chissà quale perversa logica, se sei uno che non sapeva giocare al calcio non ne puoi nemmeno parlare, né sarai uno che possa mostrare apprezzabili qualità in seguito. Non sono in grado di contare le volte in cui ho cominciato una conversazione e dopo qualche secondo mi sono ritrovato a parlare da solo come un povero mentecatto. Peccato, perché magari il calcio mi sarebbe pure piaciuto da spettatore e da tifoso: ma esserne così brutalmente escluso me lo ha sempre fatto guardare con diffidenza e un po’ dall’esterno. Certo, seguo il campionato come tutti e se capita di trovarsi davanti alla tv durante una partita non scappo urlando, ma non sono un Malato vero e proprio.

L’università non ha cambiato le cose. Non ho grandi inclinazioni per la matematica, e quando si è trattato di scegliere avrei preferito trovarmi un lavoro impiegatizio da qualche parte, ma appena ho accennato alla cosa ho assistito a uno spettacolo terribile: a mia madre si sono riempiti gli occhi di lacrime e mio padre, col labbro inferiore tremante e la voce malferma, mi ha chiesto cosa mi avessero fatto di male per frustrare la loro speranza, coltivata con sacrifici enormi e grande fatica, di avere un figlio libero professionista, autonomo e non sottoposto a un superiore idiota, come a lui era toccato per tutta la vita. Mi sono sentito un verme.

Allora ho scelto Giurisprudenza, così, nell’ingenua speranza di procrastinare la scelta e tenermi aperto il maggior numero di porte possibili. Mi sono ritrovato in pratica con tutta la mia classe del liceo, proprio io che ne sarei fuggito volentieri. Un prolungamento della mia pregressa sofferenza sociale, aggravata dal fatto che uno studente universitario nel mio quartiere aveva la stessa posizione morale di uno sfruttatore della prostituzione in un monastero. Insomma, di male in peggio.

A complicare le cose, naturalmente, c’era Nancy.

Nancy è la figlia del portiere del mio palazzo, ci conosciamo da bambini. Il suo vero nome è Nunzia, ma si tratta di un segreto che lei e i suoi intendono difendere a prezzo della vita.

La nostra amicizia, per dir così, è stata per molti anni un cruccio per la mia famiglia: il refrain dei tanti soldi spesi per fare in modo che tu frequenti certi ambienti, che non è certo l’amicizia con una ragazza del quartiere che ti consentirà certi accessi, che se ti vede qualcuno dei tuoi compagni di classe con la figlia del portiere ti sei giocato tutto, scandiva ogni occasione in cui, da piccolo, mi trovavano a chiacchierare con lei sulle scale del palazzo.

In effetti, devo ammettere che Nancy non è, come dire, una cima. Il range culturale delle sue conversazioni va dai neomelodici alle veline, con qualche spettacolare incursione sui film comici di Natale e sui talent show. Una brava ragazza, molto ingenua e in possesso di un ottuso, resistente ottimismo che non crolla nemmeno di fronte alle più evidenti manifestazioni dell’ingiustizia e del malessere. Per la massima parte, discutere con lei è in pratica un monologo: tu parli, esprimendo i tuoi ragionamenti con una logica e un processo comprensibile alla maggior parte dei macachi giapponesi, e lei ti guarda arricciandosi una ciocca con le dita e con le palpebre a mezz’asta, la mandibola che continua a ruminare un bolo costituito da almeno tre gomme alla fragola e un mezzo sorriso ebete. Il suo contributo alla conversazione consiste in un fastidioso palloncino che fa scoppiare a intervalli regolari, ogni trentacinque secondi. Ci si può sincronizzare l’orologio.

Mi si potrebbe chiedere: e allora perché, se siete così diversi, Nancy è tua amica? E perché tu sei suo amico?

Alla prima domanda dovrebbe rispondere Nancy, se fosse capace di una qualsiasi introspezione o anche solo di articolare un pensiero complesso come quello sull’amicizia. Direi che sia attratta dalla diversità, o anche solo che sia vittima di un’infantile infatuazione per un ragazzino appena un po’ più grande di lei e apparentemente (solo molto apparentemente) benestante, la cui madre pretendeva che suo padre le desse del lei (soggiungendo a mezza voce, sempre: «’Sta zoccola» senza alcun giudizio morale ma solo per il sussiego) e che le rivolgeva una parola gentile. Nella giungla in cui Nancy è cresciuta, le donne impuberi non godono infatti di alcuna considerazione.

Per quanto riguarda me, la risposta è semplice: non avevo nessun altro con cui scambiare una parola. Nancy non mi capiva, ma almeno mi ascoltava estatica: credetemi, è già tanto.

C’è un’altra cosa che devo dirvi di Nancy. Una notizia senza la quale il resto della storia potrebbe risultarvi incomprensibile.

Nancy è bona.

Molto, molto bona.

Non bella. Non raffinata nei lineamenti, né portatrice di un’innata grazia. Non regale nell’incedere o elegante nei modi. Niente di tutto questo.

È proprio bona.

La cosa avvenne pressoché all’improvviso, durante l’estate in cui passò dai quattordici ai quindici anni.

Effettivamente il cambiamento fu spettacolare. Era partita per la solita colonia in Calabria, dove passava il mese di agosto assumendo il colore di un’aragosta mal cotta, che era una spigolosa bambinona malferma sulle lunghe gambe e sgraziata nei movimenti, con una risata sgangherata e una sommessa attività cerebrale, ed era tornata che sembrava uscita dal paginone centrale di una di quelle riviste che costituivano il mio segreto passatempo di adolescente brufoloso, occhialuto e segaiolo.

Era letteralmente esplosa: un seno opulento che il reggiseno quinta misura comprato in tutta fretta all’emporio del paese faticava a contenere. Il sedere, forse cercando di far da contrappeso a quel davanzale, si era arrotondato e marmorizzato costringendo i jeans a fare gli straordinari per non esplodere. Non riuscivo a crederci: avevo visto nasi, ma mai un culo all’insù. Anche il viso aveva assunto una delicatezza che prima non aveva, coi lunghi capelli castani appena mossi che incorniciavano lineamenti delicati e bellissimi occhi nocciola. Occhi un po’ bovini nell’espressione, peraltro, perché in mezzo a tanti clamorosi cambiamenti l’unica cosa che era rimasta uguale era la bassa disposizione all’utilizzo cerebrale.

Insomma, in quel corpo alieno c’era rimasta la solita Nancy, che voleva solo starsene seduta adorante a sentirmi farneticare di politica, storia e letteratura senza capire una parola ma lasciandosi cullare dal suono stridulo della mia voce in pieno cambiamento giovanile. Il quartiere reagì alla metamorfosi della ragazza tutto sommato con relativa calma. Al di là di qualche delicato apprezzamento espresso da un paio di ragazzini che ebbero a dire che rinascendo avrebbero volentieri accettato di diventare la parte anteriore della di lei biancheria intima, e di alcuni spacciatori emergenti che la invitarono benevolmente a occupare in pianta stabile il palmo delle loro mani, non ci furono ripercussioni drammatiche. Lei fu disarmante, opponendo una vacua occhiata distratta e facendo scoppiare il solito palloncino. Desistettero: bona era bona, ma troppo scema anche per un camorrista.

Tutt’altra cosa era portarla in giro in scooter per la città. In qualità di pilota non potevo vederla e quindi riuscivo a guidare con serenità, anche se devo dire che le frenate assumevano, in virtù di quell’airbag naturale che si ritrovava, tutt’altro gusto; così non era per i malcapitati che se la ritrovavano transitare con la minigonna tirata sulle cosce nude: mi ero abituato al suono delle ruote bloccate che slittavano sull’asfalto, alle invocazioni alla Madonna del Carmine, alla lunga fila strombazzante alle mie spalle perché nessuno voleva sorpassarmi e perdersi così lo spettacolo di quell’impertinente posteriore al quale sembrava mancare solo la parola.

Nonostante la decisa virata del corpo di Nancy verso le physique du rôle della pornostar, il nostro rapporto si era mantenuto sul tono della casta amicizia. A me faceva tenerezza, una undicenne rinchiusa nell’involucro voluttuoso di una pantera del sesso; lei mi vedeva come una sorta di Clark Kent pronto a prendere il volo da un momento all’altro, e questo mi gratificava. Quindi passavamo molto tempo insieme, io perché non vedevo altra gente e lei tenendosi così alla larga dalle mani rapaci di loschi individui operanti in settori borderline tra la prostituzione d’alto bordo e le pubblicazioni hard. E stavamo bene così. In uno strano, perverso senso eravamo due diversi.

Mi faceva malignamente comodo, peraltro, farmi vedere in giro con Nancy. Tutti rimanevano a bocca aperta, una donna di quel calibro al braccio di uno come me. Bastava stare attenti a che ci si guardasse solo da lontano, sia per evitare che Nancy aprisse bocca riducendo il mio ruolo all’accompagnamento di una portatrice di handicap, sia per evitare una più attenta occhiata, soprattutto femminile, agli arditi accostamenti cromatici del suo abbigliamento. Andava benino, insomma.

Tutto fino a quando, senza essere fidanzato con nessuna né con altre relazioni in corso, mi sono ritrovato cornuto.

Mi accorsi che c’era qualcosa di strano quando arrivai all’università. Stavo seguendo un seminario di diritto commerciale, una cosa un po’ ristretta per puntare a un voto alto. In aula c’era una trentina di colleghi, sempre gli stessi, in gran parte vecchi compagni di scuola; io mi avviai al solito posto defilato, rassegnato alla consueta manifestazione di ostentata indifferenza.

Che quella volta non ci fu.

Cominciarono a bisbigliare e darsi di gomito. Uno fece una risatina soffocata in un colpo di tosse, altri due si scambiarono una pagina di giornale. Tutti si voltarono a guardarmi. Io, abituato all’invisibilità, rimasi disorientato; feci un sorrisino ebete e accennai a un saluto con la mano, che produsse un ulteriore sommesso mormorio. La lezione fu ascoltata poco e male, mi sentivo bersagliato in continuazione da occhiate furtive; passai in rassegna i miei abiti anonimi, controllai la corretta chiusura della patta e la suola delle scarpe per verificarne la pulizia, ma niente: tutto era come al solito. Che cosa stava succedendo?

La risposta giunse al termine della mattinata, quando una delegazione dei leader del liceo, ricchissimi figli di papà che svernavano all’università senza mordente perché già in possesso di un luminoso destino, mi avvicinò circondandomi. Ebbi la spiacevole reminiscenza di lontane ricreazioni in cui mi veniva sottratta la merenda, e d’istinto mi guardai attorno cercando una via di fuga: invece, con mia somma sorpresa, Raniero Rusco di Roccamedia, un biondo spilungone privo della consonante “erre” ma il cui boxer costava più del mio intero guardaroba, mi abbracciò davanti a tutti e mi disse che eva molto vammavicato della disgvazia che mi eva accaduta, anche da pavte dei vagazzi che, dovevo vicovdavmelo, mi avevano sempve voluto bene. La cosa mi agitò alquanto: un tizio che a stento mi aveva rivolto la parola tre volte in cinque anni di liceo e tre di università che veniva a mostrarmi accovata solidavietà per una cosa che non avevo idea quale fosse. E per giunta circondato da quattro altri nullafacenti milionari in euro, tutti sincevamente dispiaciuti. Sudavo freddo.

Chiesi educatamente di dirmi il motivo di così tanta comprensione, che comunque, precisai, apprezzavo moltissimo. Vanievo Vusco di Voccamedia mi fissò smarrito, capendo in un lampo di tardiva consapevolezza che sarebbe stato il primo a darmi una notizia evidentemente ferale. Senza distogliere gli occhi addolorati dai miei, allungò di lato una mano con un lieve schiocco delle dita e uno degli attendenti con doppio cognome gli passò deferente una pagina asportata da un roseo giornale sportivo.

Presi la pagina e trasecolai: al centro, un po’ sgranata ma perfettamente riconoscibile, la splendida sagoma di Nancy illuminata da un flash. La silhouette era inconfondibile, se anche non si fosse vista la faccia dai bei lineamenti con occhi e bocca spalancati. La minigonna, già ridottissima, era sollevata da una mano che si insinuava su per le sue cosce nude verso la loro confluenza, per fortuna non ritratta dall’audace reporter. Ricordo di aver pensato a una qualche forma di scherzo perverso, solo che nessuno rideva. Allora mi concentrai sulla figura del proprietario della mano, che risultava abbastanza nitido nell’altra metà della foto.

Era il Centravanti.

Conoscete sicuramente il Centravanti, anche se non seguite il calcio. Un idolo assoluto, recordman di gol realizzati in tre stagioni, venuto dal Paraguay, dal Perù o da chissà quale landa desolata sudamericana a dispensare gioia alle nostre latitudini. La sua fluente chioma e l’intricata geografia di tatuaggi multicolore sul muscoloso torso nudo erano riportati fedelmente su tutti gli striscioni, i murales e le bandiere inneggianti alle vittorie, poche, e alle reti segnate, molte, che avevano aperto i cuori alla speranza.

Nel privato, era un ragazzo più o meno nostro coetaneo sposatosi troppo presto, con un figlio di un paio d’anni e uno in arrivo, che non era ancora pronto alla vita matrimoniale così come comunemente intesa. La costante manifestazione di un forte sentimento religioso, espressa a ogni gol con un fervente ringraziamento al cielo a mani e volto alzati, contrastava eticamente con una speciale propensione ad aprire la lampo dei pantaloni in omaggio alle tante bellezze locali che gli si offrivano. Niente di male: era una cosa nota a tutti, che di norma rimaneva nell’ambito della storiografia redatta dai buttafuori delle discoteche e dai portieri d’albergo.

Stavolta però la liaison era rimasta vittima dell’occhio di un fotografo, proprio nel momento culminante del finale travolgente, come dice il poeta, sulla terrazza che dà sul mare di un noto locale per ricevimenti.

L’articolo, sul quale i miei occhi scivolarono velocemente, raccontava di un party dato dal main sponsor per celebrare il rinnovo dell’accordo commerciale; della folgorazione del Centravanti per l’incontro con una splendida hostess (lavoro che Nancy era ogni tanto chiamata a fare, con la promessa di fingersi muta); del suo appartarsi con la stessa, nonostante la presenza in altra parte del locale della di lui signora, impegnata a evitare che il simpatico e vivace bambino mettesse, secondo il suo costume, a ferro e fuoco il palazzo; della fuga precipitosa della sacra famiglia, una volta visti e subiti i lampi del flash; della pacata reazione della moglie, il cui turpiloquio in castigliano si era sentito fino al non vicino lungomare; della disponibilità sorridente della suddetta hostess a raccontare i particolari, della vicenda e della sua stessa vita.

Qui, lo ammetto, sudai freddo. Consentire a Nancy di parlare in libertà, e anzi sollecitarla a farlo, equivaleva a innescare una bomba nucleare e a darla in custodia all’Isis, con la promessa che sarebbe stata usata con moderazione. Come prevedibile la ragazza non si era fatta pregare: sorridendo aveva seraficamente asserito che, siccome le avevano detto di compiacere gli ospiti e assolvere a ogni loro desiderio, non aveva saputo dire di no a quel simpatico giovanotto tatuato che sembrava così contento di esplorare il territorio sotto la sua gonna. Che sì, era felice di essere stata fotografata e coglieva l’occasione per salutare amici e parenti. E che soprattutto era fiera di poter dire a un giornalista così volenteroso di conoscere la sua storia che mandava un bacio al suo fidanzato, di cui faceva nome e cognome.

Il mio nome e il mio cognome, per la precisione.

Cominciò a girarmi l’aula attorno con la velocità di un simulatore di volo. Devo essere impallidito e arrossito con una certa spettacolare alternanza, perché Vanievo e i suoi vagazzi si scambiarono sguardi preoccupati. Lo stesso leader, mostrandosi munifico e gentile, mi appoggiò una poderosa mano allenata da anni di tennis e masturbazione e mi strinse la spalla con mascolina solidarietà. Tutte tvoie, disse. Pvopvio tutte tvoie.

Ritenni di annuire. Avevo bisogno di tempo per pensare: sul momento negare con forza di essere fidanzato con Nancy non avrebbe che incrementato la convinzione di tutti. Ero cornuto. Naturale che negassi.

Tornai a casa furibondo: ero determinato a cercare il modo di chiarire con tutti, di far capire che la verità era un’altra. Davanti al portone c’era un assembramento di perdigiorno incuriositi, al centro del quale l’orgoglioso papà di Nancy, il portiere del palazzo, ripeteva per la centesima volta al pubblico in estasi che la sua ragazza era così, bella e angelica; che era caduta nella rete del Centravanti che avrebbe risposto ai suoi avvocati (quanti?, mi chiesi incuriosito; in queste circostanze non c’è mai un solo avvocato, ma sempre una pluralità di professionisti, chissà perché). Quando arrivai io, cadde un vibrante silenzio. Con amarezza riconobbi tutte le facce degli abitanti dei dintorni. Esci in ultima pagina su un giornale sportivo, riflettei, e ti vede più gente che sulla prima pagina del «Corriere della Sera». Che tristezza.

Fendetti la folla che si aprì davanti a me come il mar Rosso davanti a Mosè. La parola “cornuto” venne bisbigliata decine di volte, e le mie sensibili e rosse orecchie ne percepirono con chiarezza ogni singola sillaba. Il papà di Nancy fece un passo avanti, mi mise la mano sulla spalla (un nuovo sport nazionale, a quanto pareva) e mi disse: faremo le vie legali. Così, come fosse una specie di pellegrinaggio.

Lo scostai e salii a casa, avevo bisogno di un po’ di pace. Mia madre mi venne incontro, comunicandomi che erano arrivate decine di telefonate: giornalisti, radio e tv locali; ma anche una serie di ex compagni di scuola e marginali conoscenze che, chissà come, si erano procurati il mio numero di telefono. Tutti volevano sapere come stavo, e salutarmi. Ma che era successo?

Spiegai le cose a mia madre e a mio padre, sopraggiunto nel frattempo. Lui era indignato, ed espresse con veemenza l’opinione che andasse indetta una conferenza stampa per comunicare al mondo che il suo nobile figliolo non avrebbe mai potuto fidanzarsi con la figlia del portiere, ancorché molto bona. La concessione non fu rilevata da mia madre, una donna pratica che sembrava distratta. Quando le chiedemmo che ne pensava, disse che mai in ventidue anni erano arrivate telefonate per me. Che tra i telefonanti c’era anche Marta Lovati di Mastrocola, una divina bionda fanciulla che, ricordò, io avevo sempre osservato con distante e frustrata devozione senza mai riuscire a farmi rivolgere la parola in cinque anni di costosissimo liceo. Che forse valeva la pena di attendere un po’, per vedere che altro sarebbe successo.

Mio padre e io la guardammo sconcertati. Mia madre è una donna equilibrata e taciturna, che non parla mai a vanvera. Se aveva proposto di aspettare, la proposta andava pesata nella corretta maniera.

Decidemmo quindi di aspettare, e l’attesa riservò in effetti molte incredibili sorprese. Il palazzo fu preso d’assalto da cronisti e reporter di ogni estrazione e di ogni testata. Il gossip fioriva cavalcando l’onda, anche perché per una fortunata e rara circostanza non arrivarono nuove gustose e piccanti notizie a rendere superata la questione dell’amore perverso del Centravanti sulla terrazza. Per di più la moglie, che non poteva più fare finta di niente per la pubblicità della vicenda, aveva preso il bambino ed era partita per il suo Paese con sdegnate minacce di onerosissimo divorzio.

Nancy fu intervistata migliaia di volte, a suo pieno agio di fronte alle telecamere. Si disse assolutamente innamorata di me, un uomo di ben altra sensibilità e di ben altro valore rispetto al pur simpatico giovanotto tatuato. Non parlò della mia potenza sessuale perché, in realtà, non la conosceva: ma tutti pensarono che si riferisse anche a questo aspetto. Era il modo di parlare di Nancy, talmente superficiale che si pensava sempre che nascondesse qualcosa, e invece non nascondeva proprio niente. Lo sapevo solo io, però; e mi guardavo bene dal suggerire questa interpretazione.

Tentarono di intervistare anche me, molte volte. Io dribblai abilmente, limitandomi a pronunciare una breve frase che da sempre sognavo di dire: «No comment».

Attorno alla mia persona si convogliò una curiosità pazzesca. Chi era l’uomo per il quale una donna bellissima aveva rifiutato la corte pressante di uno dei personaggi più desiderati del Paese? Si cominciò a scavare nella mia vita e nulla si trovò, perché nulla c’era da trovare. Un perfetto curriculum scolastico, una buona carriera universitaria. Mai una multa, mai un’evasione, mai una rissa: il prototipo del bravo ragazzo, per di più abitante in un quartiere popolare e quindi difficile. Cominciarono a mandare la mia fotografia (quella del passaporto in cui avevo un’aria così idiota da sembrare intelligente) nelle trasmissioni pomeridiane, contrapposta a quella del Centravanti che invece era il prototipo del rovinafamiglie, la propria come quella degli altri. Vennero fuori le sue ulteriori relazioni clandestine, una decina, e anche Nancy ridiventò pulita: nessun’altra aveva ritenuto di venire a galla, e tantomeno di dichiarare il proprio amore per il fidanzato.

Quando l’attenzione pruriginosa del pubblico finalmente virò altrove, grazie a un Terzino che aveva tolto la compagna a un Centrocampista con uno spettacolare duello rusticano tra un tempo e l’altro, tutto ormai era definitivamente orientato verso la nuova vita. Ero diventato l’ambìto ospite di molti salotti bene che fino al giorno prima non potevo ammirare nemmeno dal marciapiedi sottostante; ambienti in precedenza preclusi si aprirono ad accogliermi con partecipata tenerezza, e alcune spregiudicate investigatrici cominciarono a indagare sulle intime motivazioni che avevano spinto Nancy a preferirmi a quel maschio perfetto del Centravanti. Non mi sembrarono scontente dei risultati del sondaggio, forse per il potere della suggestione.

Uno dei miei nuovi vecchi amici era il proprietario di una televisione privata, ed ebbe l’idea di invitarmi come opinionista a una trasmissione sportiva. Feci una figura ottima, perché il mio basso livello di nozioni sull’argomento fu scambiato da tutti come un modo intelligente e ponderato di riflettere e di esprimere le idee. Nel mio piccolo diventai una presenza sempre più ricercata, e un importante studio legale mi propose di entrare da apprendista a far parte del team. L’intento iniziale era pubblicitario, ne ero perfettamente consapevole, ma mi feci apprezzare e mi offrirono un contratto. Dopo la laurea mi prenderanno, se ci saprò fare, tra gli associati.

Con Nancy facciamo coppia fissa. Glielo devo, in fondo. Peraltro, se indossa solo quello che le regalo e tiene la bocca chiusa, mi fa fare una figura straordinaria.

Il Centravanti è stato ceduto all’estero, e io lo seguo con simpatia e gli auguro le migliori fortune. In fondo abbiamo condiviso qualcosa. E non potrò mai ringraziarlo abbastanza.

Per che cosa?

Ma è ovvio.

Per le mie splendide, ramificate, auree corna.