4. L’avversario

Bastava una parola sbagliata a farlo infuriare, a volte solo l’accenno di un sorriso. Ed era capace di inventarsi le cose, trasformando un nonnulla in un’offesa. Gli altri lo avrebbero capito a posteriori: coglieva gesti o battute all’apparenza insignificanti e li custodiva in fondo al cuore, finché non iniziavano a brillare di una luce radioattiva – erano le barre di uranio e plutonio che alimentavano il suo fuoco interiore.

Solo molto tempo dopo il pubblico avrebbe compreso quanto fosse incapace di passare sopra anche al minimo dettaglio. Diversi opinionisti pensarono, sbagliando, che gli «affronti» su cui si fissava fossero solo sciocchezze montate ad arte dallo stesso Michael: piccoli stratagemmi che usava per stuzzicare la propria natura competitiva, per poi metterli da parte con allegria quando non servivano più, ovvero appena avesse ottenuto l’ennesima sudata vittoria. E invece lui non poteva liberarsene, come non avrebbe potuto disfarsi del proprio braccio destro. Erano organici al suo essere al pari della celeberrima lingua. Quasi mai le cose che toccavano nel vivo Michael Jordan appartenevano davvero alla categoria delle critiche brucianti, tranne forse la prima in assoluto che, si scoprì in seguito, era la più importante di tutte.

«Torna dentro con le donne».

Tra le mille frasi che James Jordan disse al minore dei suoi figli maschi, questa avrebbe lampeggiato come un neon per anni e anni.

«Mio padre era appassionato di motori» avrebbe ricordato Jordan in seguito «e cercava sempre di mettere qualche soldo da parte, aggiustando le macchine di chiunque. I miei fratelli maggiori andavano ad aiutarlo. Lui diceva di passargli una chiave da 15 e loro eseguivano. Se fossi uscito io lì fuori, e avesse chiesto a me di passargli una chiave da 15, non avrei capito di cosa diavolo stesse parlando. Di solito si spazientiva e mi diceva: “Non sai cosa stai facendo! Torna dentro con le donne”».

Le parole del padre mettevano in discussione la sua virilità adolescenziale. E nemmeno le prime tempeste ormonali, che iniziarono a marcargli i lineamenti, riuscirono a intaccare quel volto da angioletto che i fratelli adoravano e che la madre amava stringere e abbracciare. Ma era solo una maschera.

Le parole spietate del padre avevano attivato nel profondo di Michael un’elica vagante del suo Dna, provocando una mutazione della sua natura competitiva, dura come il titanio. Le parole davano voce al disprezzo che trapelava quasi ogni giorno dalle maniere e dagli atteggiamenti della famiglia Jordan, durante l’età più tenera di Michael.

«Anni dopo,» ricorda sua sorella Deloris «all’inizio della sua carriera nella Nba, mi ha confessato come a motivarlo davvero fosse stato il modo in cui lo trattava papà, che lo definiva davanti a tutti un buono a nulla… Ogni traguardo che raggiungeva era il suo urlo di battaglia per aver sconfitto l’opinione negativa che nostro padre aveva di lui».

Lo stesso Michael avrebbe rivelato, più tardi, che da bambino era perfettamente consapevole della predilezione di suo padre per il fratello Larry.

James Jordan aveva subìto lo stesso trattamento da parte di suo padre. Il disprezzo di Medward nei suoi confronti era diventato un luogo comune delle leggende familiari. Lo stesso James confermava come quella mancanza di stima fosse stata la molla che lo aveva portato a lasciare Teachey per dimostrare di essere all’altezza dell’Aeronautica militare. I membri della famiglia sostengono che Medward fosse in realtà orgoglioso del figlio, ma che non avesse mai trovato il modo di esprimere quel sentimento in sua presenza.

James invece lo ripagò in più occasioni, raggiungendo un successo a cui suo padre non avrebbe mai potuto ambire.

D’altronde, spesso è così che si comporta il figlio di un padre ipercritico: senza rendersene conto, si attacca a una risposta e la ripete all’infinito per convincersi che il suo posto non è dentro casa. E continua a farlo anche quando il padre è diventato cenere, come volesse inconsciamente gridare le proprie ragioni attraverso il Tempo, in un’eterna lite col proprio vecchio.

Nello stesso periodo in cui diceva a Michael di rintanarsi tra le donne di casa, James Jordan costruì un canestro per i figli nel giardino sul retro. Fino ad allora le attenzioni sportive della famiglia si erano concentrate sulle palle che James lanciava in giardino, insegnando ai figli a colpirle e ad amare il baseball. Avevano iniziato tra i cinque e i sei anni, giocando a teeball. Un paio d’anni dopo, i ragazzi erano passati a misurarsi con una macchina sparapalle, per affrontare poi i primi lanci dal vivo intorno ai nove o dieci anni, quando cominciò a emergere anche la dicotomia: Larry cercava di raggiungere la prima base, Michael invece batteva per fare home run.

Ma fu Larry, il fratello maggiore, a innamorarsi per primo della pallacanestro. Michael stava già cogliendo i suoi primi successi nella Little League di baseball, quando in giardino comparve il campo da basket. E improvvisamente le cose virarono in tutt’altra direzione.

Forse era stato l’istinto a guidare James, suggerendogli di costruire un canestro per Larry visto che Michael sembrava destinato a diventare un campione di baseball. Ma anche il fratello minore era già piuttosto preso dal basket. A nove anni Michael aveva visto in tv gli Stati Uniti, guidati da una giovane e frenetica guardia di nome Doug Collins, lottare fino all’ultimo punto contro l’Unione Sovietica alle Olimpiadi del 1972. Quando gli americani persero, tra mille polemiche, Michael andò in cucina per dire una cosa a sua madre. «Mi ha detto: “Un giorno parteciperò alle Olimpiadi, e riuscirò a farci vincere!”» avrebbe ricordato in seguito Deloris. «Io ho sorriso e gli ho risposto: “Tesoro, non sai quanto bisogna lavorare per vincere una medaglia d’oro”».

La trama era stata avviata. Da quel momento in poi fu solo questione di assorbire tutto il basket che la tv poteva offrire, e che in realtà non era molto. A quei tempi, prima della tv via cavo e del dilagare del basket professionistico sul piccolo schermo, il futuro «Re dei canestri» non aveva modo di vedere nemmeno una partita della Nba. Le reti locali gli garantivano però una razione settimanale di sfide della Acc (Atlantic Coast Conference) permettendo a Michael di seguire le acrobazie aeree di David Thompson e di ammirare i North Carolina State Wolfpack contro i rivali della University of North Carolina. La Nbc invece trasmetteva le partite nazionali della Ncaa, in cui giocava un’altra delle sue squadre preferite, gli Ucla Bruins. Anni dopo, Marques Johnson, un grande ex di Ucla, sarebbe rimasto di stucco vedendo il proprio poster appeso nella stanza di Jordan alla University of North Carolina – ma durante l’adolescenza di Jordan era stato una star televisiva.

James Jordan comprò la prima palla da basket quando Michael aveva undici anni, e in breve tempo aggiunse gli ultimi ritocchi al campo. Il loro giardino iniziò così ad attirare giocatori da tutto il quartiere, anche se lì vigevano le ferree regole della famiglia Jordan: prima che chiunque potesse giocare i compiti dovevano essere finiti, e l’ora di andare a letto rimaneva fissata per le otto in punto. Ciononostante, i grandiosi uno contro uno tra Michael e Larry divennero presto l’attrazione quotidiana.

Anche se Michael era quasi un anno più giovane ed era meno robusto di Larry, aveva già superato in altezza il fratello maggiore. Tra i due, Michael era anche il più chiacchierone, ma entrambi si provocavano, si insultavano e facevano di tutto per darsi fastidio. Le sfide presto si trasferirono sul piano fisico, animandosi parecchio. Quando le grida e le discussioni superavano il limite, Deloris si affacciava dalla porta posteriore e imponeva una tregua. A volte era costretta a farli rientrare in casa. Si scontravano ogni giorno, con Larry che usava la forza fisica per dominare il fratello minore, nonostante lo svantaggio in altezza.

E quei colpi assestati dal fratello più basso agivano anche sulla psiche del piccolo Jordan: la striscia di sconfitte si sarebbe protratta per oltre un anno e mezzo.

«Penso che Michael sia diventato così bravo perché Larry lo batteva sempre» avrebbe spiegato in seguito James Jordan. «E la cosa non gli andava per niente giù».

«Siamo cresciuti così, a furia di sfide uno contro uno» ricorda Larry.

«Ho sempre giocato duro,» racconta Jordan «io e mio fratello giocavamo ogni giorno, fino a quando nostra madre non ci obbligava a rientrare in casa… ci scordavamo quasi di essere fratelli e a volte finivamo per picchiarci».

Michael era un fuscello, gli mancava ancora la forza, ma gradualmente imparò a sfruttare il vantaggio dell’altezza. Per quasi tutta la giovinezza giocarono così alla pari da diventare due immagini speculari. «Quando mi vedi giocare, vedi giocare Larry» avrebbe detto Jordan in seguito.

«Vincevo quasi sempre io,» precisa Larry «finché non iniziò a sovrastarmi in altezza, e quella fu la fine».

Quando Dick Neher, l’allenatore di Michael nelle giovanili di baseball, si presentò nel giardino dei Jordan, Michael era ancora un teenager, ma il canestro era già scassato e tutto storto da un lato, probabilmente a causa delle schiacciate di Larry: una sorta di monumento alle sconfitte che la psiche di Michael aveva dovuto subire per mano del fratello maggiore.

Queste battaglie in giardino avrebbero determinato la natura della loro relazione da adulti: un’intimità temprata dalla rivalità tra fratelli. Ma stabilirono anche il modo in cui Michael si sarebbe comportato con i compagni di squadra per tutta la sua carriera. James Worthy si ricorda di Jordan quando era ancora una matricola nella squadra della University of North Carolina, e di come lo tormentasse per giocare uno contro uno: «Il suo obiettivo era individuare il giocatore più forte della squadra, e quello del terzo anno ero io: era un bullo, mi perseguitava».

Ma già prima di allora aveva dimostrato quale fosse il suo modus operandi all’Empie Park di Wilmington e al Martin Luther King Community Center della città. «Ad un certo punto dovetti chiedergli di non venire più a giocare» ricorda William Murphy, il direttore del centro ricreativo.

«Non volevo che si facesse male,» spiega Murphy «avevo paura che gli potessero staccare la testa, era diventato una minaccia per tutti». Le sue provocazioni potevano infatti dare luogo a reazioni altrettanto viscerali.

Accadeva lo stesso ovunque andasse, spiega George Mumford, lo psicologo che ha lavorato con Jordan da professionista. Ogni avversario incombeva su di lui come una minaccia, come fosse un nuovo Larry da sconfiggere. Anni dopo, la mitologia di quegli uno contro uno avrebbe regalato a suo fratello una certa fama tra i seguaci di Michael, prima all’università e poi a Chicago.

«Era ovvio che Michael e Larry avessero gareggiato come selvaggi quando erano ragazzi, e Larry era una presenza ingombrante nella sua vita» spiega David Hart, compagno di stanza di Michael e team manager di North Carolina. «Michael voleva molto bene a Larry e parlava di lui tutto il tempo, lo ammirava davvero. Come atleta Michael aveva fatto molta più strada di Larry, ma non lasciò mai che la sua fama in ascesa influenzasse i sentimenti verso il fratello: il legame emotivo e il rispetto rimanevano molto forti. Quando arrivava Larry, Michael si spogliava di onori e successi e tornava a essere un affettuoso e adorante fratello minore».

In seguito, a Chicago, Larry Jordan avrebbe partecipato a un campionato professionistico riservato a giocatori di altezza inferiore a un metro e novantacinque; ma dopo poco si infortunò alla spalla e si ritirò, preoccupato anche che qualcuno volesse sfruttare il suo cognome. «Non mi sono mai sentito davvero eclissato, perché ho osservato la sua etica del lavoro da vicino» ha detto Larry in un’intervista del 2012. «Ho sempre fatto sport ma non ho mai avuto la passione di Michael per il basket. Ero più un tuttofare, un appassionato di motori, come mio papà».

«Come atleta, Larry era un animale raro» ha detto Doug Collins, uno degli allenatori di Michael a Chicago. «Ricordo la prima volta che l’ho visto: un uomo piuttosto basso – poco più di uno e settanta – e incredibilmente muscoloso, con un fisico formidabile: più da football americano che da pallacanestro. Nel momento in cui l’ho osservato, ho capito da dove veniva l’energia di Michael».

Pop Herring allenò entrambi i fratelli alla Laney High School di Wilmington, dove Michael era una stella e Larry faceva la riserva. «Larry» ha detto una volta Herring «era un atleta così ambizioso e competitivo che se fosse stato alto anche solo uno e novanta invece che uno e settantatré, sono sicuro che tutti conoscerebbero Michael come il fratello di Larry, anziché il contrario».

Complimenti forse esagerati, e dovuti all’affetto che sia la famiglia sia gli amici nutrivano per Larry Jordan. Tutti lo descrivono come una persona sincera, dimessa, cortese, quasi fosse il risultato di una lezione inflitta dal destino. Da adolescente Larry aveva più o meno le stesse abilità del fratello, ma gli sarebbe toccato vivere sempre all’ombra di Michael. Una situazione che negli anni avrebbe dato più di un pensiero alla madre, Deloris. E che si frapponeva anche nei momenti di relax tra fratelli, ormai adulti. Un giorno, quando Michael era già diventato una stella della Nba, i due ripresero la loro vecchia sfida uno contro uno, ma a un tratto Michael si fermò, guardò i piedi di Larry e gli disse: «Ricordati di chi è il nome sulle tue scarpe».

Bill Billingsley ha osservato i primi passi dei fratelli Jordan nel mondo del basket ufficiale. Era l’inizio del 1975, nella vecchia palestra della Chestnut Street School di Wilmington, dove si disputava il campionato giovanile cittadino. Billingsley, che all’epoca aveva ventiquattro anni, allenava gli avversari dei Jordan. «Guardandoli,» racconta «veniva da pensare che Larry fosse il più giovane, perché Michael era molto più alto. Ma giocava anche a un altro livello, già allora la differenza era notevole».

Larry ricorda che in realtà fu il loro allenatore di baseball a spingerli verso la pallacanestro. Dick Neher stava cercando di formare una squadra di basket giovanile e chiamò Ned Parrish, che era stato il coach di Michael nella Little League. E Parrish gli suggerì subito i fratelli Jordan.

In un’intervista del 2012 Neher si è fatto una risata ripensando al più giovane dei due: «Era un cecchino micidiale,» ha detto «ma non aveva mai giocato in una squadra organizzata. Era stato il suo allenatore di baseball a metterlo nella squadra di basket. Era un buon palleggiatore, sapeva portare palla, era rapido. Ma se gli passavi la palla non la vedevi più: tirava solo lui. Uno spasso».

La squadra di Billinglsey giocò tre partite contro questa prima versione dei «Jordanaires», e vinse due volte, principalmente perché i suoi ragazzi difendevano a uomo mentre il resto delle squadre del campionato si schierava con pigre e legnose difese a zona, tipiche della pallacanestro giovanile.

Billingsley assegnò la marcatura di Jordan alla sua stella, Reggie Williams – che in seguito avrebbe giocato a livello universitario. «Michael era il loro miglior giocatore. Per farvi capire quanto fosse intelligente già a quell’età, mentre Reggie non lo mollava un attimo Michael ricevette palla in post basso, spalle al canestro, e segnò in sospensione da dentro l’area» ricorda l’allenatore. «Anche se aveva solo dodici anni mostrava già abilità e furbizie da giocatore consumato». Billingsley è convinto che un’azione simile fosse istintiva: nessun allenatore poteva aver avuto il tempo o la voglia di insegnargli qualcosa del genere.

«Quando avevo dodici anni, io e mio fratello Larry eravamo le guardie titolari nel campionato giovanile,» ha ricordato Jordan «lui era quello che difendeva, io quello che segnava. Un giorno ho realizzato il canestro della vittoria, e mentre tornavamo a casa mio padre ha detto: “Larry, hai difeso in modo eccezionale”. Voglio dire: “Cristo! Ho rubato palla e segnato il layup decisivo!”. Nella mia mente ho iniziato a pensare che mio padre si era perso la mia giocata e quindi dovevo fargliela vedere di nuovo. È buffo quando guardi indietro a queste situazioni e vedi tutti i passi che ti hanno portato a essere sempre più competitivo».

Col baseball accadeva lo stesso, ricorda Michael. Lui cercava sempre di battere un home run, mentre l’obiettivo di Larry era riuscire ad arrivare in prima base. E suo padre gli diceva sempre: «Larry, cercare di battere una valida è l’atteggiamento giusto».

Questa prima esperienza cestistica amatoriale giunse in un’èra precedente a quella in cui la Aau (Amateur Athletic Union) iniziò a reclutare giocatori di età ben inferiore. Racconta Billingsley che nello stesso periodo, a Wilmington, il baseball – sport praticato prevalentemente dai bianchi – aveva un sostegno maggiore, mentre i fondi per la pallacanestro erano scarsi.

A fine stagione Michael fu inserito nell’All-Star Team, la selezione dei migliori giocatori del campionato, nonostante fosse uno dei più giovani in assoluto. Mentre Billingsley, che aveva guidato la sua squadra al primo posto in classifica, fu designato come coach. Iniziò così a preparare il gruppo per il torneo statale, e incontrò per la prima volta James e Deloris Jordan.

«I suoi genitori assistevano a ogni partita» ricorda il coach. «Parliamo di genitori devoti: i figli erano tutto per loro. Il signor Jordan era un uomo tranquillo, mentre la signora Jordan era l’elemento energico della coppia. Chiunque passasse del tempo in loro compagnia rimaneva colpito dalla feroce determinazione di Deloris Jordan. Era molto protettiva con i figli. Alcuni genitori si limitavano ad accompagnare i ragazzi. Loro no: rimanevano tutto il tempo. Ma non erano invadenti, non cercavano di influenzare le mie scelte». Di fatto, non gli dissero mai una sola parola su come gestiva la squadra.

Gli All-Star di Wilmington arrivarono in macchina a Shelby, vicino Charlotte, per disputare il torneo statale, nella primavera del 1975. James Jordan era tra i genitori che avevano preso parte al viaggio. Billingsley ricorda che la squadra giocò quattro partite in due giorni, guadagnandosi l’accesso alle semifinali, dove fu eliminata da Chapel Hill che schierava sotto canestro dei lunghi enormi e dominanti.

«L’ultima notte eravamo in albergo,» racconta ancora il coach «i ragazzi erano nelle loro stanze. Alcuni papà giocavano a carte insieme a qualche allenatore. Niente di serio, solo per divertirsi. Poi qualcuno ha detto: “Prendiamo delle birre”».

Billingsley rimase colpito dalla reazione di James Jordan, che fece subito notare che si trovavano in una contea in cui l’alcol era proibito.

«Il signor Jordan sapeva esattamente dove andare a comprare la birra. Ha guidato fino al confine dello Stato ed è tornato con un paio di confezioni da sei» ricorda Billingsley. «Siamo rimasti in piedi fino a tardi, divertendoci a giocare senza soldi. Il signor Jordan era proprio un brav’uomo».

Quella fu la prima di molte trasferte che padre e figlio avrebbero affrontato negli anni a venire. Chiunque li incontrava era sopraffatto dall’affabile personalità di James Jordan. «Che bella persona» dicevano tutti, di continuo: un uomo alla mano, amichevole, sempre disponibile a regalarti un sorriso e a darti una pacca sulla spalla; generoso e cordiale, emanava un calore avvolgente, anche quando aveva a che fare con uomini come Jerry Krause, il dirigente dei Bulls che sarebbe entrato più di una volta in conflitto con Michael.

«Era un tipo molto espansivo» ha affermato Billingsley.

Ma la gente non poteva fare a meno di notare anche un’altra cosa: Michael Jordan aveva conquistato fino in fondo, senza riserve, l’affetto del padre. Chiaramente, a un certo livello anche Michael doveva esserne consapevole. Ma a un altro livello, quello per lui più importante, è probabile che l’informazione non fosse mai stata registrata – non all’interno del nucleo più impenetrabile della psiche di un uomo competitivo quant’altri mai. L’immutabile agenda di Jordan era fissata, e al minimo innesco avrebbe liberato un impeto e una passione tali da lasciare tutti a bocca aperta per lo stupore.

Nessuno, ovviamente, era più sconvolto dello stesso Jordan. E di fronte a simili momenti, anche negli anni successivi si sarebbe manifestata sempre la stessa sorpresa. Seguita da un’immancabile domanda: E adesso cos’altro farò?

L’OSCURITÀ

Nonostante le apparenze, a metà degli anni Settanta il matrimonio tra James e Deloris vacillò fino all’orlo dell’autodistruzione. Da fuori sembravano l’immagine della felicità, ma la loro relazione era tormentata da diverbi, che a volte si trasformavano in violente litigate. Nella peggiore di tutte, iniziata su Calico Bay Road, James e Deloris si scontrarono davanti ai bambini, che corsero subito dall’altra parte della strada alla ricerca di uno dei nonni, nella speranza che dividesse i genitori. Il trasferimento a Wilmington non aveva cambiato la situazione. Non è che litigassero ogni giorno, ma quando cominciavano le cose degeneravano in fretta. La figlia Sis si ricorda un battibecco in cui la madre saltò addosso al padre e lui la stese con un pugno. I bambini temevano che fosse morta ma il mattino seguente la videro emergere come sempre dalla camera da letto, pronta ad affrontare un nuovo giorno. Un altro incidente si concluse con uno spaventoso inseguimento in macchina lungo una strada del quartiere, con i ragazzi seduti a bordo di una delle due automobili. Questi episodi rompevano di colpo quel senso di pace generale che consentiva alla famiglia di andare avanti, benché accompagnata sempre da una paura latente.

Il lavoro di James alla General Electric permise ai Jordan di condurre una vita agiata e fornì diverse opportunità ai loro figli. Tutti i ragazzi erano impegnati in attività extrascolastiche e i più grandi facevano addirittura lavoretti part-time. Ma nonostante il discreto stipendio di James, anche a loro capitò di incontrare difficoltà finanziarie. Quando anche Roslyn cominciò la scuola, Deloris trovò lavoro alla catena di montaggio dello stabilimento Corning, e i suoi turni crearono lo scompiglio nella routine familiare, finché Deloris non si licenziò. Fu una decisione improvvisa, presa quando raggiunse il limite di sopportazione: non ne aveva discusso con James, ma lui non fece storie. Alcuni mesi dopo Deloris iniziò invece a lavorare come cassiera presso una filiale della United Carolina Bank.

Come se non fosse già abbastanza impegnata, la coppia pensò anche di aprire un locale notturno, il Club Eleganza, che per qualche motivo doveva sembrare un’impresa vantaggiosa. Entrambi avevano più di trent’anni e avevano passato gran parte della loro adolescenza – e tutta la loro vita da adulti – a crescere bambini. Nessuno dei due avrebbe mai nominato il nightclub nelle successive interviste sulla infanzia di Michael. È probabile però che il Club Eleganza abbia giocato un ruolo chiave nei loro problemi di coppia: un investimento del genere assorbe tempo e denaro, e James e Deloris erano già provati dalla convulsa organizzazione a cui erano costretti dai cinque figli.

Sis ha suggerito che è stata l’infelicità che si respirava a casa a spingere Ronnie a partire per un periodo di addestramento nell’esercito, nel 1975, solo due giorni dopo aver finito le superiori. Altri sostengono invece che sognasse già da anni la vita sotto le armi, come dimostrerebbe l’impegno nella scuola ufficiali. Qualunque sia il vero motivo, la partenza di Ronnie accrebbe la tensione all’interno della famiglia. Deloris era in lacrime quando lo accompagnarono alla stazione dei pullman.

«Era come se qualcuno di casa fosse morto,» ha raccontato Deloris di quel giorno «e io non sono più entrata in camera sua per molti, molti anni. Ronnie è stato il primo ad andarsene».

Come molte donne alle prese con lo stress e le sfide della maternità, Deloris ingrassò notevolmente. E anche se in seguito riuscì a dimagrire, quel periodo si rivelò molto duro sul piano emotivo per una madre di cinque figli. Inoltre, memore dei propri guai adolescenziali, aveva iniziato a osservare con ansia crescente alcuni segnali che indicavano come sua figlia Sis stesse entrando in un’età sessualmente attiva. Madre e figlia non erano mai state troppo intime, e ora si trovavano a bisticciare quasi ogni giorno su una serie di temi sgradevoli. Una mattina d’estate del 1975, mentre Deloris accompagnava la figlia al lavoro, scoppiò un litigio. Lo scambio di accuse si accese in modo particolare quando l’auto si fermò di fronte al negozio dove lavorava Sis, il Gibson’s Discount Store. Pare che a quel punto Deloris abbia dato a sua figlia della puttana. «Se sono una puttana, perché non tieni tuo marito lontano dal mio letto?» ribatté Sis, come ha raccontato lei stessa nei dettagli in un libro autobiografico, pubblicato in modo autonomo, dal titolo In My Family’s Shadow. Deloris spalancò la bocca, spiazzata da quella frase. Ma prima che potesse raccogliere le idee e rispondere, sua figlia scese dalla macchina ed entrò nel negozio. Deloris si attaccò al clacson, cercando di far tornare indietro sua figlia. All’interno, Sis provò a ignorare lo strombazzare, ma alla fine il proprietario del negozio le disse di andare a sentire cosa volesse sua madre.

Quando rientrò in macchina, Deloris chiese spiegazioni alla figlia. E ascoltò in silenzio il racconto degli abusi che Sis sosteneva di aver subìto per otto anni. Anni in cui James Jordan le avrebbe fatto visita a notte fonda, nel letto che divideva con Roslyn, che era in età prescolare quando erano cominciati i presunti abusi. Sis disse che il padre all’inizio le aveva spiegato che le stava insegnando a baciare come gli adulti; poi raccontò di quanto lei fosse confusa e di come gli abusi fossero aumentati col passare del tempo.

Seguì una scena che Sis ha definito straziante. Guidarono fino al Club Eleganza, dove James era impegnato in alcuni lavori di manutenzione. La moglie gli ordinò di salire in macchina e si diressero verso una stradina secondaria. Lì Deloris accostò e chiese alla figlia di ripetere le accuse. A mano a mano che Sis snocciolava la sua versione, Deloris disse al marito di cominciare finalmente a capire alcuni aspetti del loro matrimonio. James diventò una furia e iniziò a strangolare la figlia, urlando: «Pensi di credere a questa puttanella invece che a me?». Sis ha dichiarato di essere rimasta sconvolta nel sentire suo padre che la chiamava puttanella. Quando Sis prese a rantolare, Deloris ordinò al marito di fermarsi, altrimenti sarebbe stata costretta a ucciderlo.

Così il momento di rabbia cessò, come ricorda Sis nel suo libro. Tutti si calmarono e tornarono in macchina verso casa, dove la figlia si rintanò subito in camera sua. Dopo circa un’ora la madre andò a dirle che, date le circostanze, era impossibile continuare a vivere tutti e tre insieme. E poiché Sis aveva ancora due anni di superiori da fare, avrebbe dovuto trasferirsi in una casa famiglia per ragazze problematiche. Disse alla figlia che James le aveva spiegato di aver solo «cercato di aiutarla», e che lei aveva frainteso in modo clamoroso le sue attenzioni.

Per nessun motivo, aggiunse Deloris, Sis avrebbe mai dovuto ripetere quelle accuse a qualcuno né fuori né dentro la famiglia. La figlia non disse alla madre che era troppo tardi, visto che già a dodici anni si era confidata con una cugina della sua età, la quale probabilmente aveva già raccontato tutto al fratello. Ma se la voce si era sparsa all’interno della famiglia allargata, lo aveva fatto solo sotto forma di sussurri. Nessun altro, a quanto pare, voleva confrontarsi con James Jordan, che era al tempo stesso ammirato e temuto nella cerchia dei parenti.

I Jordan non diedero mai seguito alla minaccia di mandare la figlia in una casa famiglia. I genitori, in qualche modo, riuscirono ad assorbire il colpo e ad andare avanti, mantenendo una facciata di allegria. In particolare, James Jordan avrebbe continuato a guadagnare encomi e affetto come il padre affabile di un atleta molto speciale.

Valutare la fondatezza delle accuse di Sis, quando queste furono rese pubbliche nel 2001, quindi decenni dopo, sarebbe stato praticamente impossibile, dal momento che non c’erano state denunce né indagini della polizia e dei servizi sociali al tempo dei presunti fatti. È probabile che Deloris Jordan abbia soppesato la versione della figlia per concludere che rivolgersi alle autorità avrebbe distrutto la propria famiglia, mettendo in pericolo anche il futuro degli altri figli. Un’accusa penale nei confronti di James avrebbe significato quasi di sicuro la perdita del lavoro e quindi del mezzo di sostentamento principale del nucleo familiare.

Dieci anni dopo la confessione alla madre, Sis contattò un avvocato di Charlotte per considerare la possibilità di fare causa ai propri genitori. Nel suo libro ricorda che l’avvocato la indirizzò alle autorità di Wilmington, dalle quali apprese che i termini per la prescrizione erano scaduti.

Michael all’epoca aveva dodici anni ed era ignaro di tutto: per parecchio tempo non avrebbe saputo nulla delle accuse della sorella. Sis andò via di casa nel 1977 per sposarsi e mettere su famiglia per conto suo, ma la sua vita sarebbe stata segnata dalla depressione e da comportamenti equivoci, che sarebbero stati poi usati da alcuni parenti per screditare le accuse. Gli esperti che aiutano le vittime di abusi sessuali asseriscono invece che comportamenti simili sono spesso proprio la classica conseguenza di un abuso subìto.

Le accuse di Sis gettarono il seme della discordia in casa Jordan, rimanendo un argomento tabù che col passare del tempo divise e turbò i membri della famiglia, nonostante tutti gli sforzi per lasciarsi la faccenda alle spalle. Michael Jordan distillò il proprio spirito competitivo dagli stessi intensi sentimenti di amore e lealtà che nutriva verso i genitori, ma le emozioni legate alla sua famiglia si collocano a un livello molto più profondo di quello che il pubblico poteva immaginare. Per molti anni, la sua infanzia sarebbe stata vista come una favola perfetta. Un’immagine avallata dal messaggio che la madre continuava a ripetere ossessivamente: i Jordan erano una normale famiglia del ceto medio.

Come per la storia della gravidanza precoce, dietro le apparenze si nascondeva il tentativo di mascherare una realtà ben lontana dall’essere normale. Chi la difende direbbe che la decisione presa quel giorno del 1975 era l’unica via per proteggere la famiglia.

La vera storia dei Jordan può però aiutare a spiegare come mai, molto tempo dopo, anche quando aveva superato i settant’anni, Deloris continuò a girare il mondo tenendo lezioni pubbliche in decine di nazioni sul tema dei problemi familiari. Non riuscì mai ad affrontare con sincerità i conflitti profondi che minacciarono la sua famiglia, ma parlava spesso di ciò che senz’altro conosceva meglio: l’arte della sopravvivenza.