6. L’esclusione
Il quindicenne che nel 1978 desiderava entrare nella squadra di basket della Laney High School non somigliava affatto a Michael Jordan, il giocatore dalla volontà di ferro che il mondo avrebbe imparato a conoscere. Quel giovane era assillato dai dubbi. Non andava male a scuola – aveva quasi tutte B e C – ma niente lasciava supporre per lui una carriera scolastica brillante. Inoltre detestava lavorare, ed evitava di impegnarsi per racimolare qualche soldo extra. L’esempio di suo fratello Ronnie, che aveva svolto due lavori mentre studiava alle superiori, non faceva breccia su di lui, e suo padre si era ormai convinto che Michael avrebbe fatto di tutto pur di sfuggire a qualsiasi cosa si avvicinasse alla fatica.
James Jordan non la smetteva di ripetere che suo figlio era il ragazzo più pigro che avesse mai visto: «Se avesse dovuto lavorare in fabbrica e timbrare il cartellino ogni giorno, sarebbe morto di fame. Era capace di dare fino all’ultimo centesimo della paghetta ai fratelli e alle sorelle – ma anche ai ragazzini del quartiere – affinché sbrigassero le faccende al posto suo. E quindi era sempre al verde».
Eppure, quella pigrizia evaporava magicamente quando si trattava di fare sport. Se c’era una palla che volava in aria o una sfida da raccogliere, l’interruttore scattava. Nella sua mente di adolescente Michael fantasticava di diventare un atleta professionista. Era letteralmente l’unica cosa che gli interessasse, al pari di altri milioni di suoi coetanei che sognavano a occhi aperti. Non aveva idea di come riuscirci, ma è raro trovare un percorso chiaro, o sensato, che porti a diventare professionisti in una qualsiasi disciplina sportiva.
Il passare del tempo aveva ristretto le sue opzioni. Aveva visto svanire la sua superiorità nel baseball, e sua madre voleva che lasciasse perdere il football americano. Le sue prospettive erano così cupe che Deloris arrivò perfino a suggerirgli di seguire un corso di economia domestica, in modo che imparasse almeno a cucire e a cucinarsi da solo. Pur contribuendo a intaccare l’autostima del figlio, la proposta della madre era ispirata dalla saggezza: non le sembrava infatti il tipo di ragazzo che avrebbe facilmente trovato una compagna. Era insomma il suo modo di dirgli: «Torna dentro con le donne».
Invece che lasciarsi abbattere, Jordan accettò il consiglio e si iscrisse al corso – e scoprì che gli piaceva. «Ricordo che una volta a scuola ha sfornato una torta così buona che non potevamo credere che l’avesse fatta lui» racconta la madre. «Abbiamo addirittura chiamato l’insegnante per averne conferma».
Ciononostante, a quindici anni Jordan tendeva a essere malinconico come tanti altri adolescenti. La verità è che non aveva molti amici. L’unico punto di riferimento, l’unico aspetto positivo della sua vita era il basket.
Dopo il primo anno alla Virgo, Jordan e il suo amico allampanato Leroy Smith parteciparono a un camp di basket tenuto da Pop Herring, il coach della Laney High School. La scuola aveva solo tre anni di vita e una palestra nuova fiammante. Con il suo quaranta percento di studenti neri, Laney era un simbolo delle faticose conquiste sul piano dell’integrazione. La città soffriva ancora per le diseguaglianze razziali, che evocavano vicende di un passato non troppo lontano, come le rivolte del 1898, quando i cittadini bianchi di Wilmington avevano scortato i neri alla stazione ferroviaria, obbligandoli ad andarsene. «Per molti afroamericani l’unico modo di tirare avanti era ancora quello di levare le tende» spiega Bill Billingsley, che ha preso un dottorato in Storia e ha pubblicato diversi articoli sui conflitti razziali della città.
Alla Laney High School – almeno negli anni di Jordan – si respirava però un’aria serena, grazie anche al modo in cui bianchi e neri univano le proprie forze sui campi da gioco. Oltre ai vantaggi delle classi miste, furono proprio le competizioni sportive il luogo dove le diverse razze impararono a coesistere, sulla base di un rispetto reciproco che iniziò allora a svilupparsi. Ma tutto ciò acquista importanza solo in prospettiva. Nel 1978, Jordan era solo uno dei tanti ragazzi che cercava di entrare in prima squadra al liceo.
Il primo anno, Jordan era considerato all’unanimità il miglior giocatore tra i suoi coetanei, e durante il ritiro estivo con Herring aveva giocato in modo altrettanto eccezionale. Naturale dunque che iniziasse a fantasticare sui numeri che avrebbe fatto sul parquet, in inverno, con la maglia dei Laney Buccaneers: era convinto che la stagione successiva sarebbe entrato in prima squadra. D’altronde anche Leroy Smith e gli altri compagni erano d’accordo sul fatto che fosse lui il numero uno tra le matricole.
Ed ecco il momento in cui la mitologia di Jordan si incrocia con la tragedia che sarebbe diventata la vita del coach Pop Herring, creando un malinteso destinato a ingigantirsi nei decenni successivi. La storia è stata analizzata in una serie infinita di reportage, articoli, servizi televisivi, trasmissioni radiofoniche – in tutti i modi in cui era possibile raccontare come la superstar Michael Jordan fosse stata esclusa dalla squadra di basket delle superiori.
Pop Herring, l’allenatore, fu seppellito da una valanga, provocata dalla nascita di una leggenda. Herring era un orgoglioso figlio di Wilmington: aveva studiato alla New Hanover High School, dove era stato allenato dal leggendario coach Leon Brogden, l’uomo che era riuscito a portare otto squadre diverse alla conquista del campionato statale. Herring aveva giocato nell’ultima formazione vincente di Brogden, prima di diventare il quarterback della squadra di football americano della North Carolina Central, proprio lì dove John McLendon aveva istituito il corso per allenatori nel 1930. Herring, probabilmente, avrebbe potuto giocare a basket a buon livello, ma all’università scelse il football americano per garantirsi il diploma. In seguito tornò a Wilmington e lavorò per un periodo come assistente di Brogden. Quando aprì i battenti la Laney, a metà degli anni Settanta, Herring aveva il curriculum giusto per essere assunto come allenatore di basket. Un head coach afroamericano era ancora una rarità all’epoca. Quando Michael Jordan arrivò alla Laney nel 1978, Herring era un giovane istruttore, una persona intelligente e piacevole con un futuro brillante davanti a sé. E dal momento che viveva vicino ai Jordan, Herring prese l’abitudine di passare da loro la mattina presto per portare Michael in palestra ad allenarsi. Si faceva in quattro per i suoi giocatori, li aiutava perfino a scrivere le lettere di presentazione alle università, per sondare quali possibilità avessero di giocare dopo il diploma. Come dimostrato dal modo in cui gestì Jordan, vincere non era la cosa più importante nel mondo di Pop Herring: lo erano i suoi giocatori.
Dick Neher, che aveva l’abitudine di osservare i coach da vicino, aveva un figlio nella squadra di Herring. «Era un grande» ricorda Neher «ma aveva avuto un esaurimento nervoso. Era divertente e buono con i ragazzi, era un tipo simpatico. Però arrivò davvero a toccare il fondo».
Purtroppo, tre anni dopo il diploma di Jordan, la lotta contro la schizofrenia avrebbe messo fine alla carriera di Herring. Affiorando in superficie, la malattia mentale causò l’improvvisa e immediata disintegrazione della sua personalità. Quel giovane allenatore energico e premuroso si trasformò, da un giorno all’altro, in uno zombie trasandato che vagava per la città inseguendo i suoi demoni, spesso parlando da solo. Uno spettacolo terribile e doloroso per i suoi vecchi amici. «Come è potuto succedere?» continuavano a domandarsi. «Come è possibile che un essere umano così brillante, così speciale, si sia ridotto in questo modo?». I farmaci aiutarono a migliorare per un po’ le condizioni dell’ex coach, ma la sua vita finì per incanalarsi in uno schema sempre più familiare, caratterizzato da comportamenti violenti e repentini cambi di umore, mentre il suo status sociale precipitava nel baratro.
Amici e colleghi cercarono di proteggerlo con tutte le forze, ma proprio mentre la vita di Herring si frantumava in mille pezzi, nasceva il mito di Jordan, producendo di riflesso un interesse quasi morboso per uno dei misteri più curiosi nella carriera del giocatore. Se davvero era stato estromesso dalla squadra del liceo, era logico domandarsi: Chi è l’idiota che ha fatto la scelta?
Negli anni successivi la comunità di Wilmington provò a nascondere la dura verità su Herring, riuscendo a gestirla al meglio nonostante l’insistenza dei media che tentavano di ricostruire l’ascesa di Jordan. Il primo giornalista a fare luce sulla vicenda fu Kevin Sherrington di Dallas. Parecchio tempo dopo, «Sports Illustrated» avrebbe approfondito la questione con un meraviglioso pezzo dedicato a Herring. Questi e altri articoli suggerivano che le affermazioni di Jordan avessero alimentato un racconto distorto dei fatti, dovuto allo spirito fin troppo competitivo del campione.
Ma neppure questa sembra essere l’esatta verità, benché la versione di «Sports Illustrated» sia diventata uno dei punti fermi nella mitologia di Jordan. Il nocciolo della questione si trova al di sopra sia dei malintesi sia di qualsiasi revisionismo animato da buone intenzioni. È la semplice realtà, vecchia quanto il mondo, della competizione che regna nella scuola pubblica: giovani atleti che si contendono un posto in squadra. Alcuni ce la fanno, altri no.
Dopo anni trascorsi a rispondere alle domande sul passato di Jordan, gli allenatori precisarono che quell’autunno, alla Laney, non c’era stata una vera selezione per formare la prima squadra. Questo tentativo di rigirare le cose solleva però altre domande: se non c’era stata una selezione, perché pubblicare una lista dei giocatori ammessi? E invece Herring diffuse una lista in ordine alfabetico con i nomi dei ragazzi selezionati. Jordan aveva atteso la comunicazione contando i giorni, le ore e alla fine i secondi; e quando il foglio fu affisso lui era lì davanti, fu il primo a leggerlo. E poi a rileggerlo. Deve esserci un errore, pensò all’inizio. Anche se aveva quindici anni, Jordan sapeva benissimo di essere stato il miglior giocatore della squadra del primo anno, e di non avere rivali tra i suoi coetanei. Ma l’unico studente del secondo anno presente nella lista era il suo amico alto e lungagnone: Leroy Smith.
La cognizione del fallimento gli cadde addosso come un macigno, quel giorno. Tornò a casa a piedi, da solo, evitando chiunque lungo il cammino. «Sono andato in camera mia, ho chiuso la porta e ho pianto» avrebbe ricordato Jordan tempo dopo. «Per un po’ non riuscii a smettere. Anche se a casa non c’era nessuno, ho lasciato la porta chiusa. Era importante che nessuno mi sentisse, né mi vedesse».
L’attenuante di Herring risiede nella composizione della rosa: undici studenti senior e tre junior avrebbero fatto ritorno in squadra, e otto di loro erano guardie. Leroy Smith poteva dare alla squadra i centimetri di cui aveva bisogno, anche se poi avrebbe giocato di rado. Trascorso il tempo necessario per digerire la scelta del coach, Jordan giunse a un’inevitabile conclusione: la statura conta. «Ero incazzato» avrebbe raccontato allo scrittore John Edgar Wideman nel 1990 «perché il mio migliore amico, che era alto un metro e novantotto, era riuscito a entrare in squadra. Non era bravo, ma era uno e novantotto, che alle superiori è tanto. Lui ce l’aveva fatta, ma io sapevo di essere migliore di lui». Anni dopo, lo stesso Leroy Smith sottolineò la propria sorpresa davanti a quelle scelte «perché di sicuro non erano basate sul talento».
Come ricorda Ron Coley, assistente di Herring: «Il problema era cosa fare con Leroy Smith». Coley, che sarebbe in seguito diventato head coach alla Pender County, sostiene di non ricordarsi il provino di Jordan, ma descrive il giovane Michael come un giocatore «timido».
Gli allenatori avrebbero ammesso in seguito che l’intera faccenda non era stata gestita bene. È possibile che Herring avesse parlato ai ragazzi del secondo anno del loro futuro ma, ammesso che sia vero, è chiaro che Jordan non recepì il messaggio. In ogni caso, nessuno se ne ricorda. È più probabile che sulla vicenda furono spese poche parole perché si trattava di una situazione molto comune, che aveva a che fare con un principio ben consolidato nello sport scolastico: gli allenatori allenano e fanno le loro scelte. Non c’è molto spazio per le discussioni. La parte più dolorosa della vicenda era proprio quella lista, che restò appesa per gran parte della stagione. «Rimase lì a lungo, molto a lungo, senza il mio nome sopra» avrebbe ricordato Jordan.
Anni dopo, i giornalisti si sarebbero spinti fino a Wilmington per risolvere il mistero della famosa esclusione. Ex allenatori e compagni di squadra sostengono che accadde per il suo bene, che Jordan non era ancora pronto, che era troppo basso, troppo magro, che non avrebbe potuto battere gli altri giocatori – più grandi e più grossi – nemmeno uno contro uno. «Ho sempre avuto la sensazione che fosse sicuro dei propri mezzi» ricorda il vecchio giornalista sportivo di Wilmington, Chuck Carree. «Solo che era basso, e non poteva fare quello di cui sarebbe stato capace poco dopo, appena ebbe uno scatto di crescita».
Forse era questa la verità, anche perché sarebbe duro mettere in discussione i risultati degli anni successivi. Fatto sta che queste risposte sembravano chiarissime per tutti i testimoni degli eventi del 1978 – tranne, ovviamente, per il più importante.
Jordan aveva il cuore spezzato. Voleva abbandonare lo sport, e avrebbe in seguito dato il merito a sua madre per averlo sfidato a combattere contro l’immensa delusione. Per fortuna, quell’inverno il suo spirito rimase intatto.
«Pensavamo che per lui sarebbe stato meglio giocare con la squadra juniores» disse Fred Lynch, allenatore dei piccoli e assistente sulla panchina dei senior. «Lui mise il broncio, e ci diede sotto con il lavoro. Sapevamo che Michael era bravo, volevamo che giocasse il più possibile».
Essere in prima squadra, secondo Lynch, avrebbe significato finire tra le riserve, con pochi minuti a disposizione e poche possibilità di crescere. Nella seconda squadra invece poteva dominare incontrastato. Ciononostante, lo status di giocatore juniores era accompagnato dalle tipiche offese adolescenziali. I giocatori della Laney notarono la forma della sua testa e presero a chiamarlo «Nocciolina» o «Nocciolina pelosa». Era dai tempi del baseball che ne aveva abbastanza della gente che gli affibbiava soprannomi.
«Però non reagì mai» osserva Michael Bragg, un suo compagno nella squadra cadetta. «Michael giudicava sé stesso in base a come se la cavava contro i ragazzi più grandi, e in realtà non riuscì a battere nessuno di loro uno contro uno, almeno fino alla fine del secondo anno».
Jordan preferiva rispondere sul campo, ogni sera che entrava sul parquet, e ben presto i membri della prima squadra iniziarono a darsi appuntamento per non perdersi lo spettacolo, godendosi ogni dettaglio delle sue performance, finché non arrivava il momento di prepararsi per la loro partita, che iniziava subito dopo. Michael giocava come una furia, segnava un canestro dopo l’altro, arrivò due volte a totalizzare più di quaranta punti – una cifra assurda considerando che i quarti duravano sei minuti. Chiuse la stagione con una media di ventotto punti a partita, giocando playmaker.
A quel tempo Jordan era alto appena uno e settantasette, ma un giorno Kevin Edwards, una guardia di riserva in prima squadra, notò le sue mani e le volle confrontare con le proprie, unendo i palmi: «Erano il doppio delle mie» ricorda Edwards. Con delle mani così grandi un giocatore poteva controllare facilmente la palla una volta chiuso il palleggio, e questo gli consentiva inoltre stupende finalizzazioni, come stava dimostrando nel basket professionistico Julius Erving, alias Doctor J. E il giovane Michael aveva iniziato a prendere nota delle azioni che vedeva nelle partite dei professionisti in tv. Più tardi, grazie all’ascesa della Espn, le partite della Nba divennero onnipresenti sugli schermi televisivi, e le giocate di Jordan avrebbero creato una generazione di giovani che cercavano di imitare il suo gioco. Michael aveva fatto lo stesso, trovando in tv i suoi speciali maestri. Il primo fu David Thompson, seguito dall’acrobatico Doctor J.
«L’ultima partita del secondo anno la giocammo a Goldsboro. Mike rubò una palla e partì in contropiede, arrivò fino in fondo e schiacciò – voglio dire, inchiodò con forza la palla nel canestro, sul serio» ricorda il suo compagno Todd Parker. «Credo sia stata la prima schiacciata agonistica della sua vita. Rimanemmo tutti a bocca aperta: “Wow! E quella da dove è uscita fuori?”».
Jordan avrebbe invece ricordato come la sua prima schiacciata ufficiale, in partita, fosse in realtà avvenuta alla Virgo l’anno prima: «Fu una schiacciata da ragazzini, basilare. Non sapevo nemmeno che l’avrei fatta: rimasi sorpreso io stesso. Anche altri ragazzi erano arrivati a schiacciare, ma era comunque spettacolare vederlo fare a un ragazzino del primo anno. Mi sentivo orgoglioso di esserci riuscito». Fosse la prima o meno, la schiacciata autorevole con cui suggellò la seconda stagione fece scalpore, proprio nel momento in cui lo sport liceale aveva riammesso quel tipo di giocata, così spettacolare ed emozionante.
Mentre il baseball si allontanava da lui, Jordan stava scoprendo uno sport che si addiceva alle sue incredibili capacità atletiche. Ad ogni passo, lungo il cammino, altri avrebbero espresso ammirazione per l’intensità con cui giocava. E a ogni livello la spinta agonistica aumentava, come se stesse perseguendo degli obiettivi che gli altri non potevano vedere. Sembrava che ogni volta che metteva piede su un campo da basket, la sua essenza era trasfigurata da una specie di furore. La combinazione con il suo talento in costante evoluzione dava vita a uno spettacolo indimenticabile per chiunque abbia avuto la fortuna di ammirarlo.
«La prima volta che l’ho visto non avevo idea di chi fosse Michael Jordan. Davo una mano ad allenare la prima squadra della Laney» avrebbe raccontato Ron Coley in un’intervista nel 1999 «e siamo andati a Goldsboro per sfidare i nostri grandi rivali. Sono entrato in palestra mentre la partita dei ragazzi stava finendo. C’erano nove giocatori che trotterellavano e uno solo che ci dava dentro fino a farsi scoppiare il cuore. Dall’impegno che ci metteva, ho pensato che la sua squadra fosse un punto sotto, a due minuti dalla fine, così ho sollevato lo sguardo sul tabellone: erano in vantaggio di venti punti e mancava solo un minuto. Era Michael, e ho imparato presto che lui giocava sempre così».
SCARPE SALATE
A quanto pare Jordan era incline a provare la stessa stravagante alternanza di gioie, confusioni e sofferenze di qualsiasi altro adolescente. Nonostante i problemi, sua madre e suo padre riuscirono nel compito delicato di guardare oltre sé stessi. Magari non avevano saputo gestire la questione delle molestie sessuali in famiglia, ma James e Deloris Jordan, in qualche modo, furono in grado di tenere a bada i loro figli. Deloris in particolare conservò sempre un vigile controllo, allontanando i suoi bambini dalle possibili insidie della vita. James, malgrado le pressioni che subiva sul lavoro e nella gestione del nightclub, riusciva a essere presente a ogni evento a cui partecipassero i figli, anche se lui e la moglie mantenevano sempre una certa distanza.
A livello superficiale, il modo in cui interpretavano il ruolo di genitori si palesava nei regali materiali e nel tempo che la coppia dedicava ai figli. Quando i tre più giovani iniziarono la scuola, i Jordan gli comprarono dei pony. Raggiunta l’adolescenza, James regalò a Michael e Larry una piccola motocicletta – esperimento che si concluse quando i due ragazzi andarono a schiantarsi dopo aver tentato un salto spericolato sopra una rampa. Per non parlare del grande sforzo per sostenere Larry e Michael nella Little League di baseball, che costringeva i genitori a viaggiare avanti e indietro tra allenamenti e partite, continuando nel frattempo a svolgere lavori impegnativi.
Oltre ai regali e alla dedizione, il più grande contributo come genitori si manifestava nel modo in cui plasmarono il carattere dei figli. Le loro prediche erano un ritornello costante: Lavora duro. Ottieni risultati. Fissa degli obiettivi. Pensa in prospettiva. Non farti respingere. Sii rispettoso. Non stare a rimuginare sul problema della razza.
«Per crescere, dovete lavorare duramente» ripeteva Deloris. «Datevi una disciplina e individuate i vostri obiettivi».
Parole che non furono mai così importanti come il giorno in cui, al secondo anno delle superiori, il figlio più giovane fu scartato dalla prima squadra. Come avrebbe detto Jordan a proposito della sua carriera e del suo sviluppo fisico: «Il tempismo è tutto». Un commento con cui sembra quasi riconoscere che la delusione dell’autunno del 1978 fu solo un passo falso che alla fine lo aiutò a progredire. E forse l’esclusione in sé non lo avrebbe ferito così a fondo, se non fosse stato per quello che accadde in seguito. Era tradizione infatti che gli allenatori del liceo, a fine stagione, portassero i migliori juniores ai playoff distrettuali della categoria superiore. E Jordan si aspettava di fare parte del gruppo. Sapeva bene che la gente aveva notato il suo modo di giocare. Ma per qualche misteriosa ragione, Herring e il suo staff decisero di non dire nulla ai ragazzi del secondo anno. A quanto pare, il pensiero non sfiorò nessuno degli allenatori.
«Non ne discutemmo nemmeno» ricorda Coley, all’epoca vice di Herring. Jordan rimase profondamente offeso.
Destino volle che il team manager della squadra si ammalasse poco prima dell’inizio dei playoff, un imprevisto che permise a Jordan di concepire un piano per accompagnare lo stesso la squadra, in qualità di team manager ufficioso e addetto alle statistiche. Non avrebbe però scordato l’onta di dover indossare la divisa di un altro giocatore per evitare di pagare il biglietto d’ingresso. Era così arrabbiato che aveva voglia di sputare invece che tifare per i Laney Buccaneers.
«Loro giocavano i playoff e io ero seduto in fondo alla panchina. Non riuscivo a tifare per loro, sentivo che avrei dovuto far parte anch’io di quella squadra» avrebbe in seguito ricordato Jordan.
Già durante la stagione aveva fatto fatica a sostenerli, ma si era sforzato. Ai playoff però era diventato impossibile. «È l’unica volta che non sono riuscito a tifare per loro,» ha spiegato «volevo vederli sconfitti. Paradossalmente, volevo che perdessero per dimostrare che avrei potuto aiutarli. Ecco cosa pensavo: avete sbagliato a non mettermi in squadra, e adesso lo capirete, ora che state per essere battuti». I Buccaneers chiusero il torneo distrettuale con quindici vittorie e sette sconfitte. Mancarono i playoff dello Stato perché persero tre delle ultime quattro partite.
Quell’esperienza condusse Jordan per la prima volta a faccia a faccia con il proprio egoismo. Imparare a incanalare il proprio ego e l’incredibile energia agonistica all’interno di un gioco di squadra sarebbe diventato uno dei temi dominanti della sua carriera.
L’altra conseguenza diretta della delusione del secondo anno fu l’ossessione che Jordan sviluppò per la propria crescita fisica. Se l’altezza veniva prima del talento, beh, allora lui doveva diventare più alto. Passò ore appeso a una sbarra del cortile, o a qualunque altra cosa che gli garantisse una buona presa, convinto di potersi allungare.
Sua madre osservava tutto da vicino e discuteva di continuo con il figlio delle sue preoccupazioni. Pregarono insieme per la sua altezza. Poi Jordan iniziò a pregare da solo, la sera, e ancora quando si svegliava al mattino, e di nuovo durante la giornata. Ti prego, Signore, fammi diventare più alto. Fammi crescere.
Le prospettive non erano granché, dal momento che con i suoi centosettantotto centimetri aveva già superato tutti i maschi della famiglia. I genitori gli consigliarono di concentrarsi sulla crescita del cuore o della mente. «Ma io voglio essere più alto» insisteva lui, alimentando la stessa identica discussione, sera dopo sera. Alla fine sua madre gli disse: «Vai in camera, metti del sale nelle tue scarpe e prega».
«Poteva pure considerarmi una stupida, ma io volevo solo calmarlo per poter finire la cena» ricorda la signora Jordan. «Poi suo padre entrava in stanza e lui riattaccava con la storia che voleva diventare più alto. Noi gli dicevamo: “Ce l’hai nel cuore l’altezza: è dentro di te. Puoi essere alto quanto vuoi nei tuoi pensieri”».
Così, oltre ad appendersi alla sbarra, Jordan iniziò a mettere il sale nelle scarpe, prima di andare a letto e pregare di nuovo. Ogni notte sua madre gli portava il sale in camera, quando era ora di dormire. Non ebbe mai il cuore di dirgli che si era inventata tutto, che quel sale non era altro che sale.
Non molto tempo dopo, però, venne a stare dai Jordan un cugino più grande, alto due metri. Due metri! All’improvviso la speranza riprese vita. L’unica preoccupazione per Michael era il dolore costante alle ginocchia: facevano così male che certe notti non riusciva a dormire. Sua madre lo portò dal dottore, preoccupata dal dolore e dall’ossessione per l’altezza. Il medico guardò le lastre, osservò i nuclei di accrescimento osseo e disse a madre e figlio di stare tranquilli: il giovane Michael si sarebbe allungato ancora parecchio.
Proprio così. Entro l’estate fece uno scatto fino a un metro e novanta, e non si fermò lì: continuò a crescere per tutta l’università e poi ancora nei primi anni nella Nba, fino a raggiungere l’altezza di un metro e novantotto, da cui sovrastava di trenta centimetri qualunque altro membro della sua famiglia.
«Mike era circa un metro e settantotto alla fine del secondo anno delle superiori, comunque non più di uno e ottanta. Ha sempre avuto talento» ricorda Fred Lynch. «Era il nostro miglior elemento tra i ragazzi del biennio. Giocava con tutto il cuore, aveva abilità da guardia e ha sempre avuto queste mani, enormi e forti. L’ultimo anno è schizzato a uno e novanta… forse uno e novantatré. Tutt’a un tratto aveva la taglia adatta a quel talento e a quell’energia… Era semplicemente sbocciato».