7. Il numero 23
Nella primavera del 1979 Earvin «Magic» Johnson, studente del secondo anno a Michigan State, trascinò i suoi Spartans alla vittoria del campionato Ncaa contro gli Indiana State Sycamores di Larry Bird, di tre anni più grande. Quello scontro – tra una stella emergente di colore, proveniente dalla storica Big Ten Conference, e un astro nascente bianco che vestiva i colori di una semisconosciuta università dell’Indiana – accese la curiosità di tutta la nazione, finendo per stabilire il record assoluto di share televisivo registrato da una finale Ncaa.
In mezzo alla folla di telespettatori in estasi c’era anche il giovane Mike Jordan di Wilmington, North Carolina. E avrebbe seguito anche la stagione successiva, quella in cui Bird si unì ai Boston Celtics e Johnson mise il suo talento al servizio dei Los Angeles Lakers – due delle franchigie più blasonate nella storia della pallacanestro professionistica. La primavera seguente, quando Johnson guidò i Lakers al titolo Nba con una «magica» dimostrazione di talento, l’incantesimo lanciato sul giovane Mike fu completo. L’adolescente di Wilmington si era innamorato dei Lakers. Erano diventati la «sua» squadra, e Magic Johnson il suo mito.
Quello stesso anno, i genitori gli regalarono la sua prima automobile. La sua fidanzata, Laquetta Robinson, che evidentemente sapeva bene quali corde toccare, gli regalò invece una vanitosa targa personalizzata, che il ragazzo ostentava con orgoglio sul paraurti anteriore del suo bolide nuovo di zecca. Sulla targa c’era scritto: MAGI MIKE.
In seguito gli addetti ai lavori, e più di un allenatore, avrebbero sorriso con amarezza a una rivelazione del genere. Bird e Johnson erano due omoni di due metri e zero cinque che trattavano la palla da basket in modo meraviglioso e giocavano in campo aperto con una verve che avrebbe ispirato milioni di nuovi tifosi della Nba. Sapevano entrambi far girare la palla, soprattutto Johnson, ed erano in grado di servire assist mozzafiato ai compagni. Nel basket non si era mai visto niente di paragonabile allo spettacolo di Johnson che partiva in contropiede.
Durante l’estate e l’autunno del 1979, mentre Magic Johnson si godeva il trionfo nel campionato Ncaa e il ruolo di prima scelta assoluta dei Lakers al draft Nba, Michael Jordan era a Wilmington e stava per dare fuoco alle polveri della sua turbolenta leggenda. In autunno Jordan avrebbe finalmente iniziato a giocare per i Buccaneers della Laney High School. Se la tecnica lasciava ancora a desiderare, il suo impegno nelle prime partite era invece ammirevole. Le preghiere sull’altezza erano state esaudite: aveva superato il metro e novanta e non accennava a fermarsi. Le mani erano più grandi, le braccia più lunghe, la falcata più ampia. Aveva a disposizione nuovi strumenti con cui migliorare il suo gioco. Nella squadra cadetta era stato un playmaker molto aggressivo in attacco, ma si era anche preoccupato di distribuire la palla ai compagni. Il coach della Laney, Pop Herring, e i suoi assistenti, mentre si gustavano l’emergere del loro nuovo talento, si resero presto conto che Jordan era fin troppo altruista. Herring provò a spiegargli che, se voleva davvero contribuire a portare in alto quella squadra priva di esperienza, doveva segnare di più e smettere di delegare agli altri. Jordan ascoltò con attenzione le parole del coach, ma era restio a cambiare atteggiamento in campo. Era ancora convinto che il basket fosse un gioco di squadra e in partita avrebbe continuato a cercare i suoi compagni.
Come ultima spiaggia, Pop Herring si rivolse a James Jordan, chiedendogli di aiutarlo. Il padre si mostrò inizialmente riluttante, perché non gli piacevano i genitori che interferivano nel lavoro degli allenatori: lasciarsi coinvolgere avrebbe violato tale principio. Alla fine però cedette e spinse il figlio a fare ciò che gli chiedeva l’allenatore.
Seguendo queste indicazioni, Michael iniziò a giocare in modo più individualista, rivelando il proprio talento con ancora maggiore brillantezza. Fu allora che si consolidò lo schema di base: più faceva e più allenatori e pubblico pretendevano da lui. E più faceva, più scopriva di cosa era realmente capace. Il suo gioco e la sua immagine pubblica cominciarono a nutrirsi di loro stessi, anche se in maniera ancora impalpabile in quei primi giorni della sua carriera agonistica. Ma ben presto fu chiaro a tutti che qualunque cosa lo riguardasse sarebbe stata ingigantita. A chi gli stava vicino – compresi i suoi genitori – gli sviluppi iniziali non sembravano arrecare problemi. Ma più tardi si sarebbe capito che il successo si accompagnava a un enorme fardello. Maggiore il successo, maggiore il peso. Dal quale non si sarebbe mai più liberato, a prescindere dalla leva che avrebbe usato per provarci.
IN PRIMA SQUADRA
Bobby Cremins, trentun anni, head coach di Appalachian State, nel 1979 era sia felice sia stanco di gestire i ritiri estivi. Ex playmaker della University of South Carolina sotto Frank McGuire, Cremins aveva tribolato quattro anni per mettere a punto questo programma per la Appalachian, un gioiellino di università pubblica incastonato tra le montagne della Carolina. Gli sforzi erano stati premiati, nel 1979, dalla prima partecipazione della squadra nel campionato Ncaa, dove i suoi Mountaineers – nome quanto mai appropriato – furono rapidamente eliminati dalla Louisiana State University. L’entusiasmo aveva appena iniziato a scemare a giugno, quando Cremins inaugurò un camp dedicato ai giocatori delle scuole superiori. Il centro estivo permetteva alle squadre di allontanarsi dalla città e godersi il fresco sulle alture del North Carolina; ma al tempo stesso offriva a un giovane coach come Cremins l’opportunità di valutare le qualità di ragazzi che non avrebbe altrimenti avuto modo di osservare.
Cremins stava studiando la squadra della Laney quando notò un giocatore con le gambe affusolate la cui energia e il cui atletismo trasmettevano una carica incredibile sia durante le partite sia in allenamento. Più Cremins lo guardava, più lo stupore aumentava. Alla fine Cremins compose il numero di Bob Gibbons, redattore di un bollettino sui giovani talenti locali, e gli disse con voce eccitata, nel suo pesante accento newyorchese: «Bob, c’è un ragazzino qui su da non credere!».
Solo pochi anni dopo Gibbons sarebbe diventato famoso come il guru dei talenti cestistici delle high school, ma all’epoca la sua rivista aveva un pubblico piuttosto limitato. L’entusiasmo di Cremins per un ragazzo sconosciuto – uno che non aveva giocato nemmeno una partita in prima squadra – aveva stimolato l’interesse di Gibbons, che salì in macchina e guidò fino al ritiro di Appalachian State per dare un’occhiata di persona.
«Quello che vidi fu un giocatore di uno e novanta con una capacità atletica esplosiva,» ha raccontato Gibbons al giornalista Al Featherston «ma a impressionarmi davvero fu quello che mi disse, quando Bobby me lo presentò: “Signor Gibbons, su cosa devo lavorare per diventare più forte?”».
Cremins e Gibbons non erano gli unici spettatori sorpresi. Gli stessi compagni di Jordan avrebbero in seguito ricordato di aver assistito a un’incredibile trasformazione. «Quando tornò per il terzo anno, era un altro: non era più il piccolo, secco Mike» racconta Todd Parker, suo compagno alla Laney. «Saltava quasi fuori dalla palestra. E io lì a pensare: “Cosa?!”».
«Notai una differenza evidente, reale,» concorda Mike Bragg, sempre della Laney «era molto più determinato e aveva sviluppato nuove capacità».
Gibbons non conosceva i precedenti per valutare la portata della trasformazione, ma segnalò il potenziale di Jordan nel numero successivo del bollettino: «Scrissi che era una promessa da tenere d’occhio, ma all’epoca avevo solo poche centinaia di lettori e un piccolo pubblico locale».
«Di sicuro non ero sulla bocca di tutti, nessuno mi conosceva bene» ha detto Jordan ripensando a quell’estate alla Appalachian State.
Pop Herring, a ogni modo, prese atto e si rallegrò dell’interesse per Jordan. Vide confermata la sua convinzione che stesse per allenare un giocatore speciale. Herring non era il tipo che amava millantare i propri successi, ma i fatti ribadiscono la bontà delle sue decisioni, nonostante l’ossessione di Jordan per la famosa esclusione. Niente lascia infatti supporre che Herring volesse tramare nell’ombra per trarre vantaggio da quel talento eccezionale, come invece spesso capita agli allenatori in situazioni analoghe. Gli eventi sembrano piuttosto dimostrare che Herring abbia sfruttato ogni opportunità a sua disposizione per ampliare il ventaglio di opzioni del giovane Jordan. Il coach gestì con astuzia la selezione del suo giocatore da parte delle università, partita con lentezza e poi deflagrata nell’arco di una sola notte.
Prima della tempesta, nell’autunno del 1979, Herring si mise alla scrivania e scrisse una lettera, cercando di attirare l’interesse della University of North Carolina nei confronti di Jordan. Non tutti gli allenatori delle superiori hanno a cuore il futuro dei propri giocatori: è ancora più raro che un coach si metta a scrivere una lettera del genere, soprattutto se il ragazzo non ha ancora giocato una sola partita in prima squadra. Ma è quello che fece Herring, oltre ad alzarsi presto ogni mattina della settimana solo per passare a prendere Jordan alle sei e trenta e portarlo ad allenarsi con lui, in palestra, prima della scuola.
«Era debole con la mano sinistra,» ha raccontato Herring «gli dicevo di migliorare il controllo con la sinistra e di lavorare sul tiro dal palleggio».
Gli allenamenti mattutini si concentravano su questi aspetti, oltre che sul modo di crearsi il maggior numero possibile di tiri. Gran parte del futuro successo di Jordan affonda le sue radici proprio nello straordinario impegno di questo giovane allenatore. Secondo numerose testimonianze, Herring e Jordan diventarono piuttosto intimi, benché non così tanto da permettere a Jordan di dimenticare l’esclusione del secondo anno. Ripensando a quelle mattine nella palestra della Laney, Jordan ha detto: «Ogni volta che facevo un esercizio e mi sentivo stanco, e magari pensavo di fermarmi, chiudevo gli occhi e visualizzavo quell’elenco appeso negli spogliatoi senza il mio nome sopra. Di solito bastava questo a farmi andare avanti».
In autunno Herring convocò Jordan nel suo ufficio per chiedergli quale numero di maglia volesse indossare per la stagione alle porte. Gli diede due possibilità: il 23 di James Beatty o il 33 di Dave McGhee, i due giocatori che si erano diplomati l’ultimo anno.
Con piglio da numerologo, Jordan scelse di indossare il 23 di Beatty. Anni dopo spiegò che fece quella scelta perché 23 era quasi la metà di 45, il numero che aveva utilizzato suo fratello Larry. Prima che appendesse le scarpe al chiodo, gli allenatori di tutto il mondo avrebbero imparato a interpretare quel numero come un segnale: che si trattasse di partite della Aau, di tornei scolastici o magari di una partitella tra bambini di dieci anni, i coach avrebbero intuito che qualunque ragazzo abbastanza spavaldo da indossare il numero 23 meritava attenzioni speciali in difesa.
Allo stesso modo, future generazioni di giovani campioni avrebbero combattuto per poter indossare il numero 23, e accettare la pressione e le aspettative che ne seguivano. Per Jordan quel numero sarebbe diventato ben presto una firma con cui marchiare ogni cosa: dalla sua linea di abbigliamento al jet privato blu, con cui era solito saltare da un punto all’altro del pianeta, da un resort esclusivo a un altro, alla ricerca del perfetto campo da golf.
La prima, sensazionale dimostrazione di classe in prima squadra arrivò – fra tutte le possibili località – durante la trasferta nella contea di Pender. Lì, di fronte a una schiera di familiari, amici e cugini lontani, Jordan realizzò trentacinque punti, trascinando la Laney alla vittoria nell’esordio stagionale: 81-79 ai tempi supplementari. La famiglia, i compagni, i suoi allenatori – lo stesso Jordan – rimasero spiazzati dal punteggio sul tabellone elettronico.
Da quel momento in poi, le emozioni e le frustrazioni accumulate negli anni eruppero di partita in partita, proiettandolo in un viaggio vertiginoso attraverso tutto quello che aveva sempre sognato. La sua ferocia iniziale lasciò tutti ipnotizzati. Di continuo, quando attaccava il ferro, la sua bocca si spalancava in volo come il bocchettone di un dragster e risucchiava aria lungo il tragitto con un’accelerazione sufficiente a spingere le labbra sopra le gengive, mostrando una dentatura scintillante come quella di un vampiro, quasi fosse intenzionato a divorare l’anello del canestro. La lingua scattava fuori solo per togliersi di mezzo. Capitava sempre quando puntava il canestro. Bastava il suo volto a paralizzare i difensori. Anche quando si trattava di prendere i rimbalzi, si ergeva ad arpionare la palla con la stessa ferocia: la sua rapidità in aria lasciava compagni e avversari a bocca aperta. Jordan rappresentava una minaccia sul piano fisico, il che lo portò a distinguersi in fretta dai ragazzi che aveva intorno. Solo un gruppo molto selezionato raccolse quella sfida aerea, mentre la maggior parte si appellava al principio di verticalità della postura, stendendo le braccia verso il cielo e sperando di cavarsela in qualche modo.
Tra i tanti che si accorsero di lui c’era anche Mike Brown, responsabile tecnico delle scuole della contea di New Hanover. Brown si era così entusiasmato assistendo al debutto strepitoso di Jordan in prima squadra, che aveva chiamato Bill Guthridge, viceallenatore di Dean Smith alla University of North Carolina, e gli aveva detto che a Wilmington c’era una giovane guardia eccezionale, uno che bisognava andare a vedere. È così che fu piantato il primo seme.
La formazione titolare di Laney comprendeva anche Leroy Smith in post e Mike Bragg come guardia. Un’altra guardia/ala era Adolph Shiver, anche lui come Bragg all’ultimo anno. Jordan aveva conosciuto Shiver qualche tempo prima sui campetti dello Wilmington Empie Park. Shiver era un tipo aggressivo, un provocatore, sempre con uno stuzzicadenti all’angolo della bocca. Se agli altri il suo atteggiamento dava fastidio, Jordan trovava invece spassose le sue chiacchiere continue e il trash talk, un po’ come un re si diverte con un giullare di corte. Un giorno Jordan attaccò Shiver al muro per aver insultato la fidanzatina di David Bridgers, ma c’era qualcosa nel suo nervosismo che glielo rendeva simpatico. È inoltre probabile che la presenza e i modi di Shiver accrescessero la popolarità di Jordan tra i compagni di scuola. In cambio Shiver si nutriva della smisurata energia di Michael, proprio come facevano tutti nella squadra di Laney, allenatori compresi.
I due strinsero un’amicizia destinata a durare anche da adulti. Il legame iniziale si basava sul fatto che Jordan riteneva Shiver affidabile come compagno di squadra. Il tempo avrebbe dimostrato quanto fosse leale Jordan verso i pochi amici che ammetteva intorno a sé. Shiver fu il primo a superare il provino. Jordan accettava anche comportamenti discutibili da parte degli amici, ma mai l’infedeltà. La fiducia era un bene prezioso per Jordan, e sulla fiducia si fondava il legame che instaurò con Shiver durante quella prima stagione. In seguito, nell’èra dei Bulls, Shiver sarebbe stato presente nelle suite d’albergo, la sera prima delle gare importanti, per giocare a tonk con Jordan e aiutare il vecchio amico a rilassarsi.
I Buccaneers vinsero anche la seconda partita, stavolta in casa, con un’altra brillante prestazione di Jordan che mise a referto ventinove punti. Ma poi giunse inevitabile la sveglia. Southern Wayne schierava due futuri compagni di Jordan all’università, il lungo Cecil Exum e il playmaker Lynwood Robinson, entrambi considerati all’epoca giocatori di prim’ordine. Contro Laney, Exum segnò ventiquattro punti e Robinson ventisette. I ventotto di Jordan destarono di nuovo meraviglia, ma la sua smagliante esibizione non bastò a evitare la sconfitta: Southern Wayne umiliò i Buccaneers 83-58.
Herring la prese con filosofia: «Aver giocato contro una squadra così forte ci aiuterà in futuro» disse il coach, cercando di trovare un aspetto positivo nella batosta subita. «Jordan è ancora giovane e tutti miglioreremo nel corso della stagione. Dobbiamo solo riorganizzarci. Stasera ci hanno preso a schiaffi».
In effetti, Laney si presentò in condizioni migliori tre giorni più tardi, con Jordan e Leroy Smith che strappavano rimbalzi e alimentavano le ripartenze. I ventiquattro punti di Michael condussero la squadra alla vittoria contro i rivali cittadini di Hoggard, grazie anche all’aiuto di suo fratello Larry che, partendo dalla panchina, contribuì alla causa segnando sei punti. Larry avrebbe vissuto qualche momento di gloria durante la stagione, ma avrebbe passato la maggior parte del tempo seduto ad ammirare la trasformazione del fratellino in un piccolo campione: «Abbiamo giocato un anno insieme in prima squadra, alle superiori, quando io ero all’ultimo anno e lui al terzo. È stato quello il momento in cui il suo gioco ha raggiunto un altro livello» racconta Larry. «C’erano cinque giocatori in campo, ma di fatto lui copriva tutti e cinque i ruoli. Il suo livello tecnico era troppo superiore al nostro. La gente mi chiede sempre se mi dava fastidio, ma posso onestamente dire di no. Ho avuto la possibilità di vederlo crescere e so quanto abbia lavorato duro».
Nonostante l’accesa rivalità che li divideva, Larry si dimostrò un elemento fondamentale per la fortuna di Michael. La sua pazienza e la sua correttezza sono confermate dall’armonia che regnava nella squadra di Laney: non molti ragazzi dell’ultimo anno avrebbero tollerato di rimanere in panchina, partita dopo partita, a guardare il fratello minore conquistare le attenzioni del pubblico.
In realtà, l’intera famiglia Jordan venne presa alla sprovvista dal repentino prestigio sociale raggiunto da Michael, compresi James e Deloris. «Mi ricordo che un venerdì sera, quando Michael era al terzo anno, siamo andati a vederlo giocare alla Laney e ci siamo resi conto di quanto fosse cresciuto» avrebbe raccontato in seguito Gene Jordan, il fratello minore di James. «Prima della partita mi aveva detto: “Guardami, perché stasera farò tre schiacciate! Vedrai, ne farò tre”. E io ero lì che gli dicevo: “Ragazzo, ma chi vuoi prendere in giro? Neanche ci arrivi a schiacciare”. Beh, non ne ha fatte tre. Ma sicuro come la morte ne ha inchiodate due alla grande. Quella sera ho detto a mio fratello: “Ehi, quel ragazzo è davvero devastante!”».
Altri osservatori attenti erano d’accordo con lo zio di Michael: «Il miglior giocatore di Laney è stato Mike Jordan» scrisse Chuck Carree sul quotidiano di Wilmington, il 18 dicembre. La sera successiva, Jordan segnò trentuno punti strapazzando Kinston e guadagnandosi il suo primo titolo sui giornali: JORDAN TRASCINA I BUCS ALLA VITTORIA SU KINSTON. A quel punto, per Laney il bilancio tra vittorie e sconfitte era salito a 4-1, e Herring diventava sempre più ottimista.
«Da quando alleno qui, questa è la squadra con la miglior difesa» dichiarò Herring. E il segreto di quella difesa dipendeva in parte dall’abilità di Jordan nello sporcare le linee di passaggio, oltre che dalla sua concentrazione a rimbalzo. In attacco giocava ala, ma in difesa scalava sempre su guardia e centro, grazie alla sua rapidità nei recuperi. Come il suo idolo Magic Johnson, era molto presente in difesa, soprattutto sotto canestro, cercando di impadronirsi dei rimbalzi e riportare subito la palla in attacco.
Anni dopo, Jordan avrebbe ripensato con divertimento all’esplosione di potenza bruta a cui aveva dato vita alle superiori. La natura sfrenata di questa esperienza gli aveva mostrato di quali azioni fosse capace sul piano atletico – azioni che nemmeno i migliori allenatori avrebbero potuto concepire.
Con l’evoluzione del basket, un nuovo tema era iniziato a emergere: questo sport, più di ogni altro, accelerò il processo che portò i bianchi a capire e venire a patti con l’ascesa degli atleti neri. Il processo era cominciato con l’integrazione, quando Jordan non aveva ancora fatto la sua entrata in scena. Ma in quei primi anni di cooperazione razziale nel mondo del basket, la maggior parte degli allenatori bianchi aveva ancora una comprensione limitata del gioco atletico che si era sviluppato tra le comunità nere. L’unico modo per imparare era vederlo in azione, dal vivo.
Negli anni Cinquanta, prima alle superiori e poi alla University of San Francisco, i coach insegnavano a Bill Russell a non staccare i piedi da terra, quando doveva stoppare un tiro avversario. Russell per un po’ provò a fare come gli dicevano, ma poi seguì l’istinto e scelse di sollevarsi in aria per stoppare come nessuno aveva mai fatto prima.
«Siamo nati per giocare così» avrebbe osservato Jordan in seguito, durante una conversazione con lo scrittore John Edgar Wideman. «Non si può insegnare».
Fra tutti gli allenatori di Jordan, solo i primi due furono afro-americani. Durante gli anni del liceo, Fred Lynch e Pop Herring erano in grado di osservare tranquillamente Jordan esplorare tutta la gamma di giocate consentite dal suo straordinario atletismo, e non si preoccupavano più di tanto se nel farlo violava qualche fondamentale. Lynch e Herring lavorarono con lui sulle basi della pallacanestro, e lo aiutarono a indirizzare nel verso giusto le sue impareggiabili capacità atletiche. Herring gli insegnò come massimizzare la sua rapidità nel primo passo, con una mossa che avrebbe indotto gli arbitri universitari a fischiargli diverse infrazioni di passi ai tempi della North Carolina, almeno fino a quando Dean Smith non fu in grado di dimostrare che Jordan, in realtà, non faceva alcun passo in più.
Herring trascorreva molto tempo a lavorare con Jordan e compagni sulle giuste scelte di tiro e sul ritmo da imprimere al gioco, almeno quanto ne passava a insistere sulla necessità di collaborare in difesa. Jordan rendeva le spiegazioni facili, ricorda l’assistente Ron Coley: «Nessuno aveva l’energia di quel ragazzo, già al liceo. La difesa per lui era una questione di orgoglio. Mike si infuriava se i compagni non difendevano bene in allenamento».
Pur ammirando la propria squadra, durante quei primi mesi Herring evitò di proposito di commentare pubblicamente il talento di Jordan. Come di accennare alle lettere che aveva scritto per lui o al tempo che aveva investito su quel giovane giocatore, quando si allenavano la mattina in palestra. Molti coach giudicano le squadre solo in relazione al curriculum personale, Herring invece serbava i propri sforzi per sé. Solo molto tempo dopo gli sarebbero stati riconosciuti, soprattutto grazie ai ricordi dello stesso Jordan. Herring non lo sapeva all’epoca, ma l’ascesa di Jordan avrebbe coinciso anche con il suo piccolo, breve successo. Le mosse dell’allenatore forse non si rivelarono sempre perfette ma, guardandole col senno di poi, furono davvero straordinarie. Nel corso della stagione, Herring si mostrò sempre entusiasta, ma fu accorto nel gestire quella squadra inesperta.
La maggior parte dei coach, considerata l’altezza e l’elevazione di Jordan, lo avrebbero schierato in area, vicino al canestro, o fatto lavorare lungo la linea di fondo. Jordan invece spaziava a tutto campo, e Herring lo faceva giocare spesso come guardia. «Pop gli diede l’opportunità di giocare nel ruolo che avrebbe poi ricoperto all’università e tra i professionisti» ha osservato il coach di New Hanover, Jim Hebron. «Se Pop lo avesse messo sotto canestro, o sulla linea di fondo, magari avrebbe potuto vincere il titolo statale».
LA VOCE GIRA
Due giorni dopo Natale, Laney inaugurò il torneo a inviti Star-News-New Hanover, che la squadra di Herring aveva vinto la stagione precedente e in cui le scuole locali si misuravano contro talenti che venivano da lontano, per esempio da New York. La prima avversaria di Laney fu Wadesboro-Bowman, una squadra dell’area centromeridionale del North Carolina. «Avevamo sentito parlare di loro,» ha ricordato il coach di Wadesboro, Bill Thacker, nel 2011 «alcuni dei nostri ragazzi pensavano di poter giocare come Michael Jordan. Ma non erano all’altezza del compito».
In particolare, nella sua squadra c’era un giocatore piuttosto atletico, Tim Sterling, che, come racconta Thacker, «credeva di poter tenere testa a MJ schiacciata su schiacciata. Fu una partita davvero molto bella, con continui rovesciamenti di fronte».
Le squadre si affrontarono a un ritmo indiavolato, dettato dal pressing e dai raddoppi di Laney. Con sei minuti da giocare e Laney in vantaggio 46-44, Herring chiamò un time out per far respirare i suoi e ricordargli di non forzare i tiri nel finale. A preoccuparlo era soprattutto la tendenza della squadra a perdere il controllo sulla gara, come era già accaduto nelle prime vittorie in campionato. La partita si fece più serrata e a 3’47” dalla fine il punteggio era sul quarantotto pari. Recuperata la calma, Jordan e compagni raddoppiarono i loro sforzi difensivi e fecero registrare un parziale di 18-2 che fissò il punteggio finale sul 66-50. «I nostri ragazzi hanno mostrato un grande impegno in difesa per tutta la serata, e ancora di più nel finale» disse Herring nel dopopartita. La considerazione valeva in particolar modo per Jordan.
«Aveva un sacco di energia, proprio un sacco» ricorda Thacker.
L’attesa per un finale di gara gestito con analogo sangue freddo fu però delusa durante la semifinale del giorno seguente, contro Holy Cross – una squadra che aveva guidato per quindici ore arrivando da Flushing, New York. Laney era sopra di sei punti a metà dell’ultimo quarto e conduceva ancora 51-47 a due minuti dalla fine. Ma Jordan, a quarantacinque secondi dallo scadere, sbagliò due tiri liberi, permettendo a Holy Cross di riportarsi in parità. Jordan ebbe un’altra occasione sulla sirena ma sbagliò di nuovo, e da quel momento in avanti Holy Cross prese il controllo andando a vincere 65-61 ai supplementari.
Nel dopopartita Herring era piuttosto arrabbiato: «Dovevano solo eseguire un compito,» si lamentò con un cronista «avevamo fatto una riunione proprio per questo».
La sua decisione successiva è forse un presagio dell’instabilità mentale che era sul punto di palesarsi. Benché sia anche possibile che volesse solo nascondere ai rivali di New Hanover il proprio quintetto base, o magari che fosse semplicemente infuriato con i suoi ragazzi – sta di fatto che Herring lasciò i cinque titolari in panchina per tutta la finale per il terzo posto contro New Hanover. Jordan, sconcertato e infuriato, guardò i suoi compagni giocare bene ma perdere 53-50.
Qualunque fosse il suo intento, la mossa si ritorse contro Herring. Nelle tre settimane successive la squadra precipitò in una spirale di cinque sconfitte consecutive, pur punteggiate di momenti esaltanti. Jordan segnò quaranta punti contro la formidabile Goldsboro di Anthony Teachey, che in seguito sarebbe diventato la stella di Wake Forest. Teachey quella sera mise a referto ben diciassette stoppate contro Laney, lasciando Herring sconsolato davanti al 64-72 finale.
«Teachey è stato semplicemente incredibile» disse. «Diciassette stoppate, da non credere».
C’è forse un antefatto che può aiutare a spiegare i quaranta punti di Jordan. Michael a sedici anni frequentava Laquetta Robinson, una ragazza di Goldsboro – due ore di macchina da Wilmington, in direzione nordovest –, il che significava viaggi notturni per poterla vedere. Laquetta viveva nello stesso quartiere di Anthony Teachey e così era capitato ogni tanto che Jordan e la stella di Goldsboro si incrociassero per strada. Come ha ricordato Teachey in un’intervista del 2012: «Frequentava una ragazza della mia classe, quindi conosceva alcune persone qui a Goldsboro. Ci veniva spesso».
Già allora Jordan era un personaggio, racconta Teachey: «Era geloso delle sue cose e aveva quest’aura che lo circondava e che portava anche in campo. Se non ti conosceva non usciva con te dopo la partita, né veniva ad attaccare bottone».
Non che Jordan fosse scortese, anzi era piuttosto cordiale. «È solo che non si fidava molto della gente».
È chiaro che Jordan voleva destare sensazione contro la scuola della sua ragazza. La stella di una squadra che segna quaranta punti e quella avversaria che mette a referto diciassette stoppate sono la prova che in campo quella sera volarono scintille. Teachey non si ricorda quanti canestri negò a Jordan, ma ci tiene a precisare che lui «attaccava parecchio il ferro».
Il vecchio allenatore di Goldsboro, Norvell Lee, ne aveva già sentite tante su Jordan dai colleghi, nonostante il ragazzo avesse appena esordito in prima squadra. «L’allenatore» racconta Teachey con una risata «ci disse di iniziare a marcarlo… appena scendeva dal pullman! Il loro attacco era lui».
Teachey ricorda anche il trash talk di Jordan, anche se le provocazioni non erano dirette contro di lui: «Aveva già un sacco di talento» spiega Teachey «e ne era consapevole. Allora perché tutte quelle sbruffonate in campo? D’altronde c’era poco da dire: qualunque cosa dichiarasse, poi la faceva davvero».
Jordan aveva un’eleganza inusitata per un esordiente. «Già all’epoca non vedevo alcuna vera debolezza nel suo gioco» ricorda Teachey. «In qualche modo era stato capace di sviluppare un proprio stile già da giovanissimo. Non schiacciava troppo. Si faceva vedere più dalla media distanza. E aveva braccio. Non aveva un lato preferito: era dappertutto. Poteva arrestarsi e tirare o andarsene in palleggio. Aveva sempre luce verde».
Una versatilità che sarebbe diventata più evidente partita dopo partita. Jordan totalizzò ventisei punti due giorni dopo, nonostante l’ennesima sconfitta – la seconda contro i rivali di New Hanover. Anche in quella occasione fu l’unico ad andare in doppia cifra per Laney, che perse perfino contro la modesta Jacksonville con un tiro libero a tempo scaduto. Jordan segnò diciassette punti ma si limitò a 7 su 14 dalla lunetta, in una serata in cui tutta la squadra tirò col 36 percento a cronometro fermo.
Bill Guthridge – che Dean Smith apprezzava per il suo fiuto di talent scout – andò a Wilmington all’inizio del 1980 per vedere con i propri occhi se tanto clamore fosse giustificato, ma quando giunse per valutare Jordan, i Laney Buccaneers erano nel pieno della serie negativa e anche Jordan si era un po’ smarrito. Guthridge osservò Jordan scagliare da lontano una serie di tiri in sospensione, e riferì a Smith che si trattava di un candidato con un atletismo straripante e una rapidità eccezionale, e aggiunse che aveva dato il massimo per tutta la partita, ma aveva forzato troppi tiri difficili che ne avevano limitato l’efficacia. Guthridge disse a Smith che Jordan era ancora «da mungere». In ogni caso, era evidente che Jordan fosse un talento adatto alla Acc, da tenere quindi sotto osservazione. A Smith non piaceva che i suoi obiettivi diventassero di dominio pubblico, e questo valeva anche per Jordan, ma l’eccitazione per la loro scoperta iniziò comunque a trapelare.
Art Chansky seguiva la squadra di Carolina per un quotidiano locale, ed era amico intimo del viceallenatore Eddie Fogler. «Anche se lavoravo per il giornale, quello che mi dicevano lo tenevo per me» ricorda Chansky. «Sapevo che i loro radar lo avevano intercettato e pensavano che fosse perfino più bravo di quanto lui stesso pensasse. Michael, dal canto suo, sperava solo di riuscire a ottenere una borsa di studio da qualche parte. Stava addirittura accarezzando l’idea di entrare in Aeronautica: non si può dire che fosse precoce, da questo punto di vista! Volava ancora basso. Quando Carolina metteva gli occhi su qualcuno, non solo tutti gli altri si giravano a guardare, ma le quotazioni del giocatore schizzavano in ogni graduatoria. A volte questo si ritorceva contro il ragazzo, perché era trattato come un fenomeno anche se non lo era».
Roy Williams, un assistente a Carolina, ricevette l’incarico di seguire Jordan, ma non poté farlo a causa di un conflitto di interessi. Sembra infatti che Williams avesse immediatamente confidato a una sua fonte che i Tar Heels avevano messo gli occhi su Jordan – aveva fatto una telefonata a Brick Oettinger, un suo amico che seguiva i reclutamenti della Acc per un bollettino locale.
«Roy mi disse di tenere la soffiata segreta, perché coach Smith non voleva che i media ne parlassero» avrebbe ricordato Oettinger anni dopo. «E mi rivelò: “C’è questo ragazzo a Laney, si chiama Mike Jordan. Guthridge è andato a vederlo già tre volte. Schiaccia un 360 come niente fosse”».
Jordan non aveva idea del passaparola che si era scatenato tra gli addetti ai lavori. Apprese dell’interesse di North Carolina solo dopo la visita di Guthridge. Herring non gli aveva detto nulla, probabilmente perché non voleva far agitare la sua stella. Quando Jordan venne a sapere di essere nel mirino dei Tar Heels rimase stupito ed emozionato. La notizia rafforzò la sua autostima, che era un po’ calata dopo i problemi al tiro incontrati a metà campionato.
«Non avevo mai pensato di poter giocare in Division I!» ha raccontato Jordan di quella fase della sua maturazione. «Ero davvero felice ed entusiasta per il solo fatto che avessero mostrato interesse. Ero contento che qualcuno mi apprezzasse».
Le difficoltà in campo vanno ascritte in parte agli allenatori avversari che avevano iniziato a escogitare strategie per contenerlo. Da quando la voce si era sparsa, Jordan aveva iniziato a ricevere molte più attenzioni difensive rispetto alla prima parte della stagione. Così si trovò a dover affrontare sfide sempre più ardue, a mano a mano che gli avversari si adattavano al suo gioco. Il modo in cui si sarebbe adattato agli adattamenti, per così dire, avrebbe decretato il valore reale del suo talento. E tra gennaio e febbraio, Jordan dimostrò di essersi adattato molto bene, ed era ancora in grado di fare grandi giocate alla faccia dei raddoppi difensivi.
Aveva appena superato il primo grande ostacolo della sua carriera. L’usanza di filmare gli atleti da tenere d’occhio non si era ancora diffusa nel basket, a nessun livello, così gli allenatori avversari della Division II della Pianura costiera potevano basarsi solo sulla memoria e sulle statistiche del campionato. Ad ogni buon conto, Jordan aveva fornito loro – e agli allenatori di North Carolina – molto materiale su cui ragionare. In seguito, quando entrò all’università e poi nella Nba, le sue prestazioni avrebbero costretto sempre più avversari a rinchiudersi in sala proiezioni per studiare il suo gioco e cercare un modo per contenerlo.
Su cosa pensasse lo staff di North Carolina dopo aver visto Jordan la prima volta esistono diverse versioni, che variano tra Dean Smith e Roy Williams. «Bill Guthridge sa riconoscere il talento a prima vista» avrebbe ricordato Smith in seguito. «E dopo aver visto Michael ci disse che era un giocatore da Acc. Ma noi non eravamo sicuri di volerlo prendere». Su una cosa invece le versioni di Smith e Williams concordano: volevano che l’estate successiva partecipasse al camp di Smith.
Il rendimento di Jordan nelle ultime settimane della stagione 1980 non autorizzarono ripensamenti. Con all’attivo sette vittorie e cinque sconfitte, Laney andò a far visita alla Southern Wayne di Exum e Robinson. Jordan era malato e se ne stava buono nel retro del pullman – un dettaglio che il viceallenatore Ron Coley avrebbe ricordato bene diciassette anni dopo, quando Jordan sconfisse un’influenza intestinale trascinando i Bulls alla vittoria contro Utah Jazz in gara cinque delle finali Nba. Nel 1980, invece, Michael stava sperimentando per la prima volta la sua straordinaria capacità di concentrazione, e intuendo come alcuni inconvenienti – una malattia oppure uno sgarbo subìto – potessero far aumentare a dismisura la sua intensità.
Herring quella sera scelse un attacco lento che per poco non permise ai Buccaneers di fare il colpaccio, prima di cedere 34-36. Jordan segnò solo sette punti (di cui due inutili allo scadere), visto che la maggior parte dei tiri li presero Shiver e Smith dentro l’area.
A seguire, Laney colse una vittoria contro Hoggard e disputò con Kinston una partita combattuta. Sul cinquantuno pari, con un minuto da giocare, Herring chiamò un time out e dispose la squadra nei quattro angoli, per allargare il campo. Ma questa volta c’era qualcosa di diverso: Larry Jordan non era in panchina, anzi avanzava in palleggio, e quando vide uno spiraglio andò in penetrazione centrale e segnò in sottomano. I FRATELLI JORDAN SI SBARAZZANO DI KINSTON titolava lo «Star-News» di Wilmington la mattina seguente.
«Quando è entrato, Larry Jordan ha dato il suo contributo» disse Herring al giornalista Chuck Carree. «Il suo unico problema è la poca esperienza in partita».
Il fratello minore di Larry contribuì invece alla causa segnando ventinove punti.
I Bucs persero la partita successiva contro New Bern, poi affrontarono di nuovo Anthony Teachey e la sua Goldsboro. Stavolta giocavano in casa, ma per Jordan non faceva differenza: combatteva contro la città della sua fidanzata. Nel primo tempo segnò solo due punti, ma rimediò aggiungendone quindici negli ultimi due periodi, propiziando la rimonta da uno svantaggio di quindici punti. Ai Buccaneers riuscì l’aggancio, ma non il sorpasso, lasciando Herring con l’amaro in bocca per l’ennesima disfatta contro Goldsboro. In classifica, il bilancio di Laney era in parità – nove vittorie e nove sconfitte – e metteva a rischio le loro chance di assicurarsi il primo round casalingo nei playoff.
A quel punto arrivò la resa dei conti contro i rivali di New Hanover, a Wilmington. Il coach Jim Hebron aveva studiato Jordan e organizzato di conseguenza la sua difesa. Ma gli ultimi quattro incontri della stagione avrebbero rivelato appieno la crescita della squadra di Herring. Il coach aveva riequilibrato l’attacco. Jordan segnò ventuno punti, mentre l’intera difesa di New Hanover si stringeva attorno a lui, ma poté contare sull’aiuto dei diciassette punti di Shiver e dei sedici di Mike Bragg.
«Gran parte del merito è di Pop» disse Hebron dopo la vittoria di Laney.
Due sere dopo, Shiver segnò ventiquattro punti, che insieme ai diciotto di Jordan valsero la vittoria su Jacksonville, ancora a Wilmington. Seguì un altro successo, nel giorno di San Valentino, contro Eastern Wayne, la partita in cui Jordan scoprì come scandire il gioco con quel ritmo che gli sarebbe diventato familiare nel corso degli anni, e che avrebbe chiamato «la matematica» dei grandi incontri. Segnò quindici dei ventidue punti della squadra nel secondo quarto, ne aggiunse sette nel terzo e undici nell’ultimo, finendo per stabilire il record della scuola totalizzando quarantadue punti. In quella prestazione c’era un po’ di tutto: tiri in sospensione, canestri in transizione, un paio di schiacciate. Ma la cosa più bella fu che riuscì a non ridurre i compagni a semplici spettatori. Shiver, che stava imparando a ritagliarsi le proprie opportunità di fianco al suo “horse”, finì con quattordici punti.
Seguendo la soffiata di Roy Williams, il giornalista sportivo Brick Oettinger era andato a vedere Laney trionfare su Eastern Wayne, in quel febbraio del 1980. «Jordan era semplicemente favoloso,» avrebbe ricordato «era fuori portata. Quando lo vedevi giocare ti chiedevi: “Ma come è possibile che questo ragazzo non sia riuscito a entrare prima in squadra?”». Oettinger si rivolse ai suoi amici, quella sera, e disse: «Il suo allenatore doveva essere un idiota». Il giornalista era chiaramente eccitato: «Scrissi nel numero seguente della rivista, febbraio 1980: “Forse non avete mai sentito il nome di Mike Jordan, ma il ragazzo ha la migliore combinazione di atletismo, tecnica e istinto che abbia mai visto in una guardia della sua età”».
La vittoria assicurò a Laney il terzo posto nel girone 4A della Division II, un record per lo Stato. «Goldsboro e Southern Wayne sono due delle migliori formazioni nel nostro Stato, non è una vergogna finire dietro di loro» dichiarò Herring allo «Star». Per Laney, quella classifica significava soprattutto la possibilità di iniziare in casa i playoff distrettuali. Jordan cominciò con grande aggressività e finì per avere presto problemi di falli, e fu costretto a sedersi in panchina a guardare i compagni, che dimostrarono ancora una volta un buon equilibrio: diciassette punti per Shiver, venti per Jordan, tredici per Leroy Smith e nove per Mike Bragg. Hoggard era battuta.
Laney viaggiò allora verso Dudley per incontrare, nella semifinale del District II, Southern Wayne: una delle squadre più forti del North Carolina, con un bilancio stagionale di ventuno vittorie e due sconfitte. Southern Wayne quell’anno avrebbe vinto il campionato, e Lynwood Robinson sarebbe stato nominato Mvp del torneo. Eppure i Buccaneers per poco non interruppero la marcia trionfale dei futuri campioni, giocando una zona aggressiva 1-2-2 con cui trascinarono l’incontro ai supplementari. L’allenatore di Southern Wayne, Marshall Hamilton, provò freneticamente diversi schemi difesivi per arginare Jordan: «triangolo e due», «diamond and one», a uomo, perfino una zone-press a tutto campo, qualsiasi cosa pur di metterlo in difficoltà. Jordan riuscì a liberarsi di tutte quelle attenzioni nei primi due quarti, e segnò dodici punti. Ma i continui cambi difensivi iniziarono a imbrigliarlo nel secondo tempo e nei supplementari, limitando Jordan a soli sei punti nel resto della gara. La strategia di Hamilton aveva funzionato e la sua squadra era sopravvissuta a un’intensa battaglia, finendo per prevalere 40-35. La classifica finale di Laney parlava di tredici vittorie e undici sconfitte, ma l’ultima partita era la prova decisiva della maturità di Jordan.
«Facciamo fatica a marcare Jordan, ma tutti fanno fatica» osservò Hamilton. «Quello che lo rende così forte è la sua pazienza. Possiamo disturbare giocatori di questo tipo solo se tutto quello che sanno fare è tirare – perché sappiamo come costringerli a prendere tiri difficili. Ma Jordan un brutto tiro non lo prende mai».
A fine stagione Jordan aveva una media di 24,6 punti e 11,9 rimbalzi a partita. «Cos’altro posso dire di Michael?» raccontò Herring allo «Star-News» a campionato concluso. «È il miglior giocatore che abbia visto dal titolo di New Hanover, nel 1968. Penso che diventerà un grande. È già un ottimo tiratore, un ottimo realizzatore, e non pensa che il mondo giri intorno a Michael Jordan».
Ma soprattutto l’allenatore aveva la netta sensazione che stesse aiutando Jordan a costruirsi un futuro. «Coach Guthridge è venuto a osservarlo,» sottolineò Herring «ciò significa che importanti università gli hanno messo gli occhi addosso».