15. Black Power
La prima volta che i legali della Nike incontrarono Sonny Vaccaro si domandarono se fosse un esponente della mafia. Di sicuro il look poteva trarre in inganno, così come il nome, l’accento, i modi stravaganti e soprattutto quell’aria di uno che sembrava conoscere segreti e cose che le persone normali non possono sapere. Michael Jordan ebbe la stessa impressione quando si sedette per la prima volta al tavolo insieme a quell’italiano tracagnotto con gli occhi da cane bastonato. «Non sono sicuro di voler avere a che fare con un tipo così losco» ammise di aver pensato Jordan.
Vaccaro, in privato, rideva dell’imbarazzo che creava. I suoi amici più stretti erano piuttosto sicuri che non ci fosse la minima traccia di criminalità nella sua vita, ma Vaccaro non faceva granché per contrastare l’impressione di essere un mafioso. In qualche modo gli piaceva l’idea che la gente potesse pensare che aveva degli «agganci»: in affari, tutto può tornare utile.
Inoltre, Vaccaro aveva davvero legami con una quantità di uomini d’onore in completi pacchiani. Ma erano allenatori di basket, non gangster. E a loro era sufficiente sapere che i suoi corposi assegni erano coperti. Nel basket del 1978, con il denaro era possibile entrare nelle grazie di molti. Sonny Vaccaro avrebbe trasformato la Nike nella prova vivente di questo assioma.
A Billy Packer bastava dare un’occhiata a Vaccaro, nel suo abito sgualcito, con un’ombra di barba sul viso, per mettersi a ridere: «Sarebbe stata tutta un’altra cosa se si fosse trattato di un dirigente di Wall Street o di un pubblicitario di Madison Avenue» racconta Packer. «Ma non era di quella cerchia. Era uno che veniva dalla strada e il mondo del basket faceva fatica ad ammetterlo tra la sua élite. Così lui iniziò a darsi da fare ai margini e raggiunse un incredibile successo per sé e per la sua azienda».
Vaccaro rivoluzionò lo sport senza neanche mai provare a mascherare chi fosse: quel simpaticone di Pittsburgh. Almeno per metà dell’anno. Nell’altra metà invece veniva da Las Vegas. Quando l’aria da picciotto non bastava a far tremare i suoi interlocutori, erano le sue frequentazioni a Las Vegas a completare l’opera. Circa sei mesi l’anno, infatti, si poteva incontrare Vaccaro mentre bazzicava gli squallidi allibratori di eventi sportivi, all’interno di strutture come Aladdin o Barbary Coast, dove si poteva scommettere su qualsiasi cosa. E lì realizzava una fetta dei suoi guadagni, grazie alle «commissioni» ricavate piazzando giocate sul football americano da parte di alcuni «clienti». Sentire Vaccaro che spiegava quell’attività la faceva apparire ancora più losca. Si diceva che scommettesse anche per proprio conto: sembrava un personaggio uscito fuori da un racconto di Damon Runyon, capace di emergere anche a Las Vegas, un luogo che abbondava di personaggi simili.
Si diceva che più si avvicinava il momento del calcio d’inizio, più il suo nome risuonava negli altoparlanti degli allibratori.
Come Sonny Vaccaro potesse essere finito a lavorare per un’azienda come la Nike si capisce meglio però considerando gli altri sei mesi dell’anno, quelli che trascorreva a Pittsburgh. Aveva appena ventiquattro anni nel 1964 quando, insieme al compagno di stanza dell’università, Pat DiCesare, aveva fondato il Dapper Dan Roundball Classic, uno dei primi e più prestigiosi tornei riservati alle stelle del basket scolastico. Era stato inizialmente progettato come evento di beneficenza a Pittsburgh, ma in breve tempo Vaccaro si era reso conto che il suo torneo rispondeva all’esigenza crescente di offrire una vetrina ai talenti delle superiori, a beneficio delle università che li dovevano reclutare. Così il Dapper Dan cominciò ben presto ad accogliere i migliori giocatori e i migliori allenatori del paese, da John Wooden a Dean Smith.
Fu quella la chiave che gli permise di acquisire influenza e autorevolezza, diceva Vaccaro a chiunque volesse ascoltarlo. Era tutta una questione di relazioni: «È stato il Dapper Dan ad aprirmi le porte» avrebbe spiegato nel 2012.
Il torneo di per sé non arrivò mai a superare i tremila dollari di guadagni, ma fu una miniera d’oro in termini di contatti. Vaccaro strinse amicizia con tutti i più importanti allenatori di basket. Il suo potere giunse al livello di Howard Garfinkel del Five Star, con la differenza che mentre a Garfinkel interessava valutare i giovani talenti, Vaccaro puntava sul marketing. Riuscire a portare celebrità a un evento significava attrarre le attenzioni dei media più importanti. Nel 1970 «Sports Illustrated» pubblicò un reportage sull’attività di Vaccaro: «È impossibile aggirarsi per il William Penn Hotel senza imbattersi in allenatori alla ricerca di giocatori delle superiori: nella hall, nei corridoi, al bar, in ascensore e a volte perfino sotto una palma in vaso» scrisse Curry Kirkpatrick. «Il gruppo si è ritrovato a Pittsburgh per assistere al Dapper Dan Roundball Classic, una sorta di All-Star per i giocatori delle superiori, che nei primi sei anni di vita si è distinto come il migliore evento di questo tipo».
Secondo lo scout Tom Konchalski, era molto spassoso guardare Vaccaro al lavoro nella hall dell’albergo: «Aveva conversazioni in corso con otto persone diverse, in differenti angoli della sala. C’era John Thompson, appena assunto a Georgetown, e Jerry Tarkanian, che era ancora a Long Beach State. Sonny Vaccaro conosceva tutti. Era una sorta di giocoliere, con i coach al posto delle palline. Ce ne saranno stati una trentina nella sala: lui riusciva a trattare ognuno con grande rispetto, nonostante stesse parlando con tutti e trenta contemporaneamente».
Nel 1977 Vaccaro era diventato abbastanza spavaldo da fare una telefonata agli uffici della Nike di Portland, in Oregon, e proporgli la sua idea per una nuova scarpa. La Nike non era interessata, ma Rob Strasser – uno dei massimi dirigenti dell’azienda – era affascinato dai legami di Vaccaro con tutti quegli allenatori. Altri boss della Nike avrebbero preferito prima vedere un dossier dell’Fbi su di lui, ma Strasser no.
Assunse Vaccaro con la paga di cinquecento dollari al mese, gli mise trentamila dollari a disposizione su un conto, e gli chiese di far diventare i coach testimonial della Nike. «Bisogna ricordare che all’epoca la Nike era un’azienda da venticinque milioni di dollari» sottolinea Vaccaro.
Per lui fu un gioco da ragazzi: propose agli allenatori semplici contratti con la Nike, firmò assegni e spedì loro scarpe gratis da far indossare ai giocatori. Iniziò così ad assumere un coach dopo l’altro, compresi John Thompson di Georgetown, Jerry Tarkanian, che era appena passato alla Unlv, Jim Valvano di Iona e George Raveling di Washington State.
«A quel tempo cinquemila dollari erano un sacco di soldi per un coach» ricorda Packer. «Io riuscii a dare appena una sbirciata a quei traffici. Solo Sonny sapeva davvero quanto li pagava».
Ai coach sembrava quasi troppo bello per essere vero. Si dice che Jim Valvano gli avesse risposto: «Allora, fammi capire: Tu mi dai scarpe gratis e mi paghi anche? È legale?».
Si trattava, di fatto, dell’equivalente della payola nella pallacanestro. Era legale, ma dal punto di vista etico faceva storcere il naso a molti. L’idea di base era semplice: far indossare a dei dilettanti i materiali tecnici della Nike in modo da mandare un messaggio forte sia ai tifosi sia ai consumatori. Quando un giocatore di Indiana State, Larry Bird, apparve sulla copertina di «Sports Illustrated» con un paio di Nike ai piedi, la credibilità di Vaccaro ricevette la spinta decisiva. Aveva ripagato in pieno l’investimento del suo nuovo «cliente».
Le vendite dell’azienda schizzarono alle stelle e Strasser trasferì altri novantamila dollari sul conto di Vaccaro, con il mandato di trovare nuovi allenatori che facessero da testimonial. Quando il «Washington Post» scrisse un articolo che metteva in dubbio l’etica del sistema Nike, i dirigenti dell’azienda si preoccuparono della possibile pubblicità negativa. Al contrario, invece, ricevettero molte nuove richieste da parte di allenatori che volevano una fetta della torta. Vaccaro aveva fatto piovere una marea di contanti sul basket amatoriale americano. Ben presto le aziende di scarpe non si limitarono più a mettere sotto contratto i coach universitari e le loro squadre, ma si rivolsero al basket giovanile. «Ha cambiato questo sport per sempre» ha detto Tom Konchalski del sistema di marchette di cui Vaccaro fu il pioniere. «Oggi ci sono ragazzini di dodici anni, o anche meno, che giocano nella pallacanestro della Aau e pensano già di essere arrivati».
LA VISIONE
Nel 1982 Vaccaro aveva già versato milioni di dollari – tutti soldi della Nike – ai coach universitari. Quell’anno fu invitato da John Thompson alle Final Four di New Orleans, ed è lì che venne folgorato da una nuova idea. Aveva notato che nonostante James Worthy avesse vinto il premio come miglior giocatore, Michael Jordan gli aveva rubato la scena. «È successo qualcosa» disse Vaccaro dopo il tiro vincente contro Georgetown «davanti al mondo intero». Era nata una stella.
Vaccaro non conosceva Michael Jordan. Dean Smith aveva firmato come testimonial della Converse, che i Tar Heels indossavano in partita. Jordan in realtà amava tutto ciò che era Adidas, soprattutto le scarpe, perché appena le tiravi fuori dalla scatola erano già pronte per giocarci. Non era necessario usarle per ammorbidirle. Così Jordan indossava le Adidas in allenamento e poi, diligentemente, le cambiava con le Converse per la partita. Vaccaro era convinto che il carisma avrebbe potuto rendere quel ragazzo una potenza di marketing. Desiderava che la Nike facesse firmare Jordan e realizzasse una linea di prodotti dedicati in esclusiva a lui. Vaccaro ne parlò con Rob Strasser e altri funzionari della Nike in una riunione del gennaio 1984. Jordan era al terzo anno e non aveva ancora deciso di saltare l’ultimo anno di università.
I dirigenti dell’azienda avevano stanziato un budget di due milioni e mezzo di dollari per reclutare testimonial nella Nba e stavano pensando di includere anche dei giovani, tra cui Charles Barkley – a cui lo stile di gioco e il carisma anticonformistico avevano dato una certa notorietà – e Sam Bowie, che sarebbe stato scelto al draft da Portland ed era quindi vicino al cuore della Nike, in Oregon. L’idea di distribuire il budget su una serie di giovani, nel pieno del draft del 1984, aveva la sua logica: «Non lo fate!» disse Vaccaro a Strasser. «Date tutto a quel ragazzo. Date tutto a Jordan».
Fece una filippica sull’appeal di Jordan e su come fosse il personaggio ideale per portare il marketing delle scarpe da ginnastica a un nuovo livello. Ma la cosa più importante, proseguì Vaccaro, era che Jordan fosse il giocatore più forte che avesse mai visto.
Jordan può volare, spiegò Vaccaro a Strasser.
All’epoca, molti testimonial della Nba prendevano meno di diecimila dollari per indossare le scarpe di una certa marca. Solo un giocatore, Kareem Abdul-Jabbar, si diceva che raggiungesse i centomila dollari l’anno come testimonial di calzature sportive.
Ma a rendere ancora più curioso l’interesse di Vaccaro è che il pubblico non aveva ancora adottato Jordan come icona. «A quel tempo Michael non era stato ancora incensato, non era glamour» sottolinea Vaccaro. «Era molto bravo, sì, ma era considerato solo uno dei tanti ragazzi di Dean». Vaccaro sosteneva che Jordan stesse per decollare verso una celebrità inimmaginabile, verso una dimensione che nessun giocatore di basket aveva mai raggiunto. E che la Nike doveva agganciare il proprio destino a quello dell’astro nascente. «La mia posizione era: tutti i soldi che abbiamo diamoli a lui» ricorda Vaccaro. «Rob mi stava ascoltando e a quel punto mi chiese: “Ci scommetteresti il lavoro?”».
In sette anni con la Nike Vaccaro aveva ottenuto alcuni aumenti, ma nonostante facesse guadagnare centinaia di migliaia di dollari ai coach universitari, i suoi sforzi erano premiati con una paga base di soli ventiquattromila dollari l’anno. Perciò sorrise e disse: «Certo».
Strasser aveva imparato a fidarsi dell’istinto di Vaccaro, ma nutriva dei dubbi su quella scommessa: per far funzionare l’investimento su un singolo giocatore, la Nike avrebbe dovuto mettere insieme cose diverse, per esempio scarpe e abbigliamento, in un’unica linea produttiva da sostenere con pubblicità e branding.
Rob Strasser contattò David Falk e gli disse che la Nike stava pensando di offrire un contratto a Jordan. Falk e Strasser avevano già reclutato altri atleti, ed erano d’accordo sul fatto che Jordan dovesse essere «venduto» come un tennista, cioè come uno sportivo singolo, più che come un giocatore di basket – per il quale le strategie di marketing erano di solito legate alla squadra. Strasser suggerì a Falk di sottoporre l’idea a Jordan e di farlo firmare. Falk gli rispose che avrebbe iniziato a fargli annusare la possibilità, ma lo avvertì che era piuttosto raro che i giocatori di Carolina saltassero l’ultimo anno, il che non era del tutto vero. La parte semplice del piano era coinvolgere Dean Smith, visto che il partner di David Falk, Donald Dell, aveva già un accordo con il coach di Carolina.
In primavera Dean Smith fu visto molte volte a colloquio, in privato, con Falk e altri agenti della ProServ, quindi è probabile che avesse valutato anche la prospettiva che il ragazzo diventasse un testimonial della Nike quando spinse Jordan a passare tra i professionisti. Smith non ammise mai tali contatti ma, come ha osservato Billy Packer, Smith non ammetteva mai nulla. Perlopiù cercava di capire quale fosse l’appeal di Jordan per le squadre della Nba, tra cui i Philadelphia 76ers che all’epoca erano allenati da Billy Cunningham, una delle ex stelle di Smith.
I Sixers dissero a Smith che se avessero ottenuto la seconda o la terza scelta al draft avrebbero preso Jordan. Ma se Cunningham amava Jordan, il proprietario Harold Katz sembrava invece più orientato verso Charles Barkley, come rivelò nel 2012 l’ex allenatore dei Sixers, Matt Guokas.
Ad ogni modo, la decisione di Jordan di lasciare l’università favorì il piano di Vaccaro di realizzare una linea di prodotti Nike dedicata in esclusiva a lui. Rob Strasser e Peter Moore – il designer creativo della Nike – si incontrarono con Falk a Washington Dc nell’agosto 1984. Nel frattempo Falk aveva buttato giù una lista di idee per il nome delle scarpe e dell’abbigliamento di Jordan. Sulla lista c’era anche «Air Jordan». Strasser e Moore si fissarono subito su quelle due parole.
«Trovato» disse Moore. «Air Jordan».
Alla fine della riunione, Moore aveva già realizzato uno schizzo del logo, uno stemma con ali che cingeva un pallone da basket e le parole AIR JORDAN.
Nel frattempo Vaccaro doveva ancora convincere Phil Knight, il solitario presidente della Nike, che formulare quella offerta esorbitante per un giovane esordiente semisconosciuto, ancora mai messo alla prova tra i grandi, fosse davvero una buona idea. Vaccaro organizzò una cena con Knight durante le Olimpiadi di Los Angeles e invitò anche Billy Packer, probabilmente perché lo aiutasse a far accettare l’idea a Knight.
Knight, ex mezzofondista, aveva fondato la Nike insieme a Bill Bowerman, il leggendario allenatore di atletica leggera della University of Oregon. Knight lasciava che persone estroverse come Rob Strasser gestissero gran parte delle operazioni quotidiane, ma le grandi decisioni e le strategie generali richiedevano sempre la sua benedizione. Knight era perfettamente consapevole che Vaccaro avesse messo in piedi una serie di relazioni che avevano aumentato di molto il fatturato della Nike. Non a caso «Sporting News» avrebbe presto incluso Knight e Vaccaro nella lista delle cento personalità più influenti nel mondo dello sport. Dopo cena Vaccaro parlò a lungo di quel giovane di nome Jordan, ricorda Packer. «Knight rimaneva evasivo. Faceva molte domande, ma non si sbilanciava. Non ci fu un: “Sonny, ragazzo mio, spero che tu riesca a prenderlo”. Non so se quello fosse il comportamento tipico di Phil Knight o se ci fosse dell’altro sotto. Però non sembrava che smaniasse per quell’idea né che fosse sul punto di dire: “Accidenti! Come posso aiutarti? Dobbiamo prenderlo a tutti costi!”. Niente del genere. Era molto professionale, e calmissimo. Sonny continuava a spiegargli perché pensava che Michael rappresentasse una grande occasione commerciale. Ma sembrava evidente, anche durante le Olimpiadi, che c’era ancora molto lavoro da fare prima che Michael potesse diventare un “prodotto” Nike».
E comunque Strasser e Vaccaro dovevano ancora convincere i Jordan. Michael avrebbe ammesso in seguito che a ventun anni era ancora immaturo e non gli importava granché del mercato delle scarpe. Ma Vaccaro si rivolse al suo vecchio amico George Raveling, assistente di Bobby Knight alle Olimpiadi, per colmare la distanza con Jordan. Raveling fece conoscere Jordan e Vaccaro a Los Angeles, durante i Giochi. «Ci vedemmo da Tony Roma, George portò Michael da me e mi presentò» ricorda Vaccaro. «Era la prima volta che incontravo Michael in vita mia. Ci sedemmo e parlammo di lui e della Nike. Non sapeva nemmeno cosa fosse, la Nike. Dovete credermi. Io gli dissi: “Michael, tu non mi conosci, ma costruiremo una scarpa solo per te. Nessuno ha ancora una scarpa tutta sua”».
Non fu amore a prima vista, né da una parte né dall’altra. Jordan pensò che Vaccaro fosse un tipo losco e Vaccaro considerò Jordan un moccioso viziato. La cosa si palesò quando Jordan, ignorando tutti i discorsi sulla linea dedicata, chiese a Vaccaro un’automobile: «Se firmi questo contratto puoi comprarti qualsiasi macchina desideri» gli rispose Vaccaro.
«Voglio una macchina» rimarcò Jordan.
«Michael era una rottura di palle, altroché» ricorda Vaccaro. «Innanzitutto non era in grado di fare i conti. E poi era ancora un bambino, appena uscito da North Carolina. Ok, un contratto per le scarpe non significava niente negli anni Ottanta, e lui rimase completamente indifferente. Non voleva venire con noi, voleva l’Adidas, perché in quegli anni facevano le tute più belle».
Jordan non parlò di denaro e Vaccaro gli disse che non doveva preoccuparsene: se l’accordo andava in porto sarebbe diventato milionario. Ma il principale interesse di Jordan continuava a essere l’automobile nuova. Vaccaro comprese che se era una macchina a catturare la fantasia di Jordan, allora avrebbe dovuto dargli una macchina.
«Ti faremo avere una macchina» gli promise.
Jordan sorrise, ma non fece nulla per rassicurare il suo interlocutore. «Sai, Michael ha quel sorriso…» disse Vaccaro. «Ti guarda. E fa quel sorriso ambiguo, che non sai mai cosa significa».
La Nike sapeva che Falk stava parlando anche con Adidas e Converse, ma il legame tra Strasser e Falk li rendeva fiduciosi. A settembre l’agente stava chiudendo il contratto con i Bulls, e la Nike sapeva che la propria offerta andava bel oltre quelle di Adidas o Converse. Vaccaro e Strasser erano convinti che Jordan a un certo punto avrebbe compreso che si trattava di una proposta incredibile.
Il giorno successivo alla vittoria della medaglia d’oro alle Olimpiadi, Falk, Strasser e Vaccaro iniziarono la trattativa. E la Nike riversò il suo intero budget su Jordan: un pacchetto di due milioni e mezzo di dollari spalmati su cinque anni, tra premi, annualità e bonus alla firma. Nike accettò anche, formalmente, di impegnarsi in modo significativo a pubblicizzare i prodotti con il marchio Air Jordan. In termini di calzature sportive, per i professionisti della Nba, l’accordo era senza precedenti, soprattutto perché dava al giocatore il venticinque percento su ogni scarpa venduta. A dire il vero, Falk avrebbe forse potuto strappare fino al cinquanta, come raccontò Vaccaro nel 2012: «David invece volle più soldi subito. D’altronde nel 1984 non c’erano garanzie che quelle scarpe avrebbero venduto».
In ogni caso, quel contratto era una scommessa enorme. Dopotutto Jordan avrebbe giocato in una squadra mal gestita, in una lega ancora minacciata dall’ombra dei festini e della cocaina degli anni Settanta. Nei Bulls, che avevano messo sotto contratto Jordan, diversi giocatori erano convinti che le cose funzionassero meglio con la coca. Sarebbe bastata una valutazione formale dei rischi, da parte della Nike, per far saltare l’accordo. Ma in quel momento non si trattava di analizzare un business plan. Ruotava tutto intorno a un presentimento di Sonny Vaccaro.
La notte prima che Jordan e i genitori volassero in Oregon per scoprire quali fossero le prime idee partorite dalla Nike per la campagna Air Jordan, Michael chiamò i suoi e gli comunicò che non sarebbe andato. Era stanco di viaggiare, l’ultima cosa che voleva era attraversare di nuovo il paese per una scarpa che nemmeno gli piaceva. Deloris insistette perché il figlio si presentasse in aeroporto la mattina seguente e gli disse che non avrebbe accettato scuse. Così il giorno dopo, di buon’ora, Jordan arrivò all’aeroporto Raleigh-Durham.
Strasser, Vaccaro e tutta la gente della Nike erano presenti alla riunione. Tra loro c’era anche Howard White, l’ex cestista della University of Maryland, che avrebbe in futuro giocato un ruolo chiave nella relazione a lungo termine tra l’azienda e Jordan. Persino il presidente Phil Knight fece un salto all’incontro, evento che capitava di rado. Vaccaro e gli altri rappresentanti della Nike rimasero subito colpiti dalla professionalità e dalla lucidità di Deloris Jordan: «Posso dire che è una delle persone più straordinarie che abbia conosciuto in vita mia» ricorda Vaccaro. «È stata lei a negoziare, per il figlio, il genere di vita che poi Michael avrebbe vissuto».
Durante la presentazione Jordan rimase seduto impassibile, come se la cosa non lo toccasse affatto. Non voleva essere lì ed era determinato a non farsi suggestionare. Guardò le scarpe rosse e nere e commentò che il rosso era «il colore del diavolo». Peccato che non giocasse più a Carolina, aggiunse, perché in quel caso le scarpe sarebbero state avvolte da un «blu celestiale». Nonostante l’atteggiamento di Michael, Vaccaro non riusciva a staccare gli occhi da Deloris Jordan. E colse la sua espressione quando le spiegarono che suo figlio avrebbe ricevuto una percentuale per ogni scarpa venduta. Vaccaro disse ai Jordan che la Nike aveva fatto «all-in» riguardo al proprio coinvolgimento: «Dissi proprio così, e sono felice di averlo detto: “Abbiamo puntato tutto”. Io stesso mi stavo giocando il posto e la Nike stava scommettendo sul proprio futuro. Era incredibile. Si trattava di tutto il nostro budget. Per la madre di Michael era come entrare a far parte della famiglia, se eravamo pronti a metterci in gioco fino a quel punto. Era come se gli stessimo dicendo: “Ecco quanto ti vogliamo”. E lei ci avesse risposto: “Così farete di mio figlio il futuro di questa azienda”. Era come se avessimo detto: “Michael, falliremo se non sei con noi”. Ecco qual era il senso della proposta».
A non essere esplicitato fu però il pensiero che circolava tra i presenti. E cioè che non solo si trattava di un’offerta senza precedenti in termini economici. Ma che quella pignatta d’oro veniva messa a disposizione di un afroamericano di ventun anni che non aveva giocato nemmeno un minuto tra i professionisti. Gli Stati Uniti erano stati testimoni dell’ascesa di icone sportive di colore – da Jackie Robinson a Willie Mays, da Bill Russell a Wilt Chamberlain, da Jim Brown a Muhammad Ali, e tutti si erano fatti strada raccogliendo il guanto di sfida lanciato dalle lotte per i diritti civili. Ma in nessun momento a Madison Avenue qualcuno aveva pensato che uno di quegli uomini fosse un candidato credibile al ruolo di colonna portante di una campagna pubblicitaria come quella che Nike aveva in mente per il giovane Michael Jordan.
Il tempismo fu davvero tutto. Nonostante la questione fosse tutt’altro che sistemata, Vaccaro acquisì sicurezza dallo sguardo che illuminò il volto della signora Jordan: «Fu la reazione di Deloris» ricorda. «Qualcuno li stava facendo diventare soci, invece di pagargli uno stipendio. E a lei questo piaceva molto. Quella donna era tutto. Michael amava il padre, davvero. Ma era Deloris a mandare avanti lo show».
Non sarebbe stato immediatamente evidente, ma quella riunione segnò un momento cruciale per il Black Power, anche se non si trattava del potere nero scaturito dalle proteste contro le ingiustizie sociali o i pregiudizi razziali. Il potere nero rappresentato da Deloris Jordan proveniva direttamente dalla Pianure costiere del North Carolina, dove i neri erano stati violentemente esclusi dalla politica e dalla società. Il potere nero che lei conosceva arrivava da suo padre e si basava sulla concreta realtà della mezzadria. Era un potere nero di natura economica, e verosimilmente il potere più grande a cui i neri avessero la possibilità di accedere, come quello delle banche possedute dai neri o quello delle piccole imprese che prosperavano, negli anni della segregazione, in città come Atlanta o Durham. I profitti raggiunti dai professionisti e dagli imprenditori di colore – molto spesso anonimi – forse non godevano di molta pubblicità ma avevano accumulato ricchezze nel cuore dell’esperienza afroamericana.
La trattativa con la Nike avrebbe consegnato a Michael Jordan i primi strumenti di un potere economico in grado di trasformare le cose. Ma affinché potesse accadere, i dirigenti della Nike e Deloris Jordan dovevano convincere quel ragazzo petulante che l’accordo era tutto nel suo interesse. La sua risposta iniziale fu una faccia di gesso. Poi si girò verso Vaccaro chiedendogli di nuovo un’automobile. Vaccaro tirò fuori dalla tasca due macchinine giocattolo e le fece correre sul tavolo, verso Jordan. Vaccaro è sicuro che una delle due fosse una Lamborghini.
«Ecco le tue macchine, Michael» rispose Vaccaro. E ribadì che quel contratto gli avrebbe permesso di comprarsi qualunque macchina desiderasse. In effetti Jordan avrebbe guadagnato più soldi con la Nike che con i Bulls. Tutti nella stanza sembrarono sorridere, tranne Jordan. Phil Knight provò a scherzare, dicendo che la sua azienda aveva comprato delle automobili per Jordan prima ancora che avesse accettato il contratto. Poi si scusò e lasciò la riunione.
«“Michael, arriva un punto della vita in cui devi fidarti delle persone”» Vaccaro ricorda di aver detto a Jordan. «E con quelle parole quello che gli stavo dicendo – e che lui sapeva benissimo – era: “Stiamo scommettendo su di te, tanto quanto tu stai scommettendo su di noi”».
A riunione conclusa, quelli della Nike non avevano idea di cosa pensasse Jordan della presentazione. In seguito lui confidò a Falk che non ne poteva più di queste riunioni, punto e basta. Fu solo più tardi, a cena con i genitori, che Strasser e gli altri funzionari della Nike iniziarono a rilassarsi. La giovane stella fece colpo quella sera: affascinante, gentile e a proprio agio tra la clientela di un ristorante di alto livello. L’immagine pubblica che fornì rassicurò i dirigenti della Nike sulla bontà della loro scelta. Quel ragazzo aveva qualcosa di speciale, una capacità unica di entrare in relazione con persone di ogni estrazione.
L’espressione «post-racial» non era ancora entrata nel vocabolario, ma avrebbe descritto bene le sensazioni che molti provavano nei confronti di Jordan. Dopo cena gli consegnarono un montato dei suoi momenti clou a North Carolina, da guardare nel videoregistratore della limousine, sulla via del ritorno verso l’albergo. Fu il tocco finale. A quel punto Michael diede anche una seconda occhiata al video della linea Air Jordan, che sarebbe potuta essere sua. L’accordo non era stato siglato, ma era stato stabilito un legame, e l’impressione era buona.
«Lui ascoltò la madre» sostiene Vaccaro. «Era lei ad avere l’ultima parola. Gli disse: “Ci vogliono come soci”. Lo convinse. Davvero. Non dimenticherò mai quel giorno».
Falk, diligentemente, andò a parlare anche con Converse e Adidas per ascoltare le loro offerte. Jordan arrivò persino a contattare un rappresentante della Converse che conosceva e gli disse che sarebbe bastato che la sua azienda «si avvicinasse» all’offerta della Nike. Ma né Converse né Adidas erano pronte ad offrire qualcosa di paragonabile al trattamento che Sonny Vaccaro aveva immaginato per Michael Jordan.
Si dice che Phil Knight non autorizzò mai ufficialmente il piano, né diede la sua approvazione formale. Ma nemmeno fece nulla per fermare Rob Strasser quando prese l’intuizione di Vaccaro e la trasformò in realtà. Il silenzio di Knight fu di fatto un tacito assenso.
«Phil Knight ascoltò un tipo come Sonny e ci puntò sopra» racconta Packer. «Qualunque cifra pagassero Sonny, era comunque meno di quanto lui faceva per loro. Aveva una grande capacità di immaginare il futuro e una delle sue migliori folgorazioni fu ovviamente quella che gli permise di capire che Michael non sarebbe solo diventato un certo tipo di giocatore, ma che la sua personalità magnetica avrebbe fatto vendere le scarpe da ginnastica e tutto il resto a corredo». I funzionari della Nike all’epoca non se ne resero conto, ma avevano appena compiuto il primo irreversibile passo verso la trasformazione di Michael Jordan in un socio a tutti gli effetti della loro azienda.
«È un’effigie, è un simbolo» disse David Falk quell’autunno, dopo aver rivelato l’accordo firmato con la Nike, la Wilson Sporting Goods, e la rete di concessionari Chicagoland Chevrolet. In particolare quel contratto Nike destò stupore – e scontento – tra molti giocatori nella Nba. Jordan se ne accorse subito, prima ancora di affrontare un solo avversario. Ma giovane com’era non aveva idea delle proporzioni di quanto era appena successo.
«So che gli occhi di tutti sono puntati su di me,» disse accingendosi a iniziare la stagione da rookie «ma di alcune cose sono io il primo a sorprendermi. Non sempre sono programmate: accadono e basta».
Nel frattempo Sonny Vaccaro gongolava nel vedere la sua più grande idea pronta sulla rampa di lancio. «Saremmo potuti andare sotto, se avessimo fallito» avrebbe dichiarato Vaccaro trent’anni più tardi, ripensando a quei giorni. «Puntammo tutto il denaro che avevamo su di lui. Cosa sarebbe successo se si fosse dimostrato un giocatore normale? Nessuno poteva averne la certezza, allora: sarebbe stata un’umiliazione. Però so per certo cosa non accadde: lui non si rivelò un giocatore normale. Era uno che, con un cambio di mano, guadagnava milioni di dollari».