20. Che spettacolo

Sua sorella maggiore aveva notato quel tratto fin da quando era piccolo, suo padre e perfino Red Auerbach lo capirono quando la sua carriera iniziò a decollare: Jordan amava intrattenere la folla. Il suo rapporto con il pubblico si evolveva in modi che anche chi gli era vicino aveva difficoltà a decifrare, compresi i ricercatori universitari che avevano cominciato a studiarlo come elemento trascinante della cultura popolare americana.

Eppure, nonostante avesse reso la propria esistenza di pubblico dominio, Jordan riusciva a tenere nascosta una parte di sé. Lo faceva caparbiamente, seguendo un sempre più raffinato istinto di conservazione, convinto che esistessero aspetti della vita che erano solo suoi. Johnny Bach ne fu testimone e ne rimase meravigliato. Attento studioso sia del gioco che della natura umana, Bach era un grande filosofo, dotato di carisma e sincerità. Chissà in che direzioni sarebbe andata la storia di Jordan – e dell’intera Nba – se non fosse stato per Bach e per le conversazioni che intretteneva con Michael.

«Se i suoi occhi si accendevano quando mi ascoltava, allora ero fortunato che mi ascoltasse» ha detto Bach della loro relazione e dell’opportunità di poter lavorare con il più grande giocatore basket.

Jordan combatté per confinare alla sfera privata la propria autoindulgenza, così come i tanti pesi che si caricava sulle spalle al di fuori dello sport. «All’inizio pensavo che fosse incredibile quello che riusciva a fare» ricorda Bach. «Andava sempre a trovare qualcuno, persone o bambini che avevano un ultimo desiderio. Non si è mai rifiutato. Aveva un impegno ogni sera, e non ho mai capito dove trovasse la forza per affrontarli. Bambini ustionati, brutalizzati o in fin di vita per una qualche malattia. Ricordo ancora un bambino che era venuto a trovarlo, a cui il padre aveva bruciato la faccia. Lo portarono dentro e Michael gli parlò, nel vecchio spogliatoio che avevamo al Chicago Stadium, prima della partita. Si mise a parlargli. Non potete immaginare: un ragazzino orrendamente sfigurato. Michael gli parlava, semplicemente. Poi se lo portò in panchina e durante la partita gli passava accanto e gli chiedeva: «Ti è piaciuto quel tiro in sospensione?». Uno degli arbitri si avvicinò e gli disse: «Michael, non puoi tenere quel bambino in panchina, è contro le regole della lega». Michael lo guardò e disse: «Lui sta in panchina». Lasciava i time out per andare a parlare con quel ragazzino. Ricordo che io e John Paxson guardavamo quella scena, con le lacrime agli occhi, perché il ragazzino era sfigurato in modo orribile. E c’era Michael che gli parlava. Ecco qual era la sua grandezza. Riusciva a fare cose del genere. Quella fu solo una delle tante. Era un uomo prodigioso».

Jordan sembrava attingere alla stessa riserva di emozioni che alimentava il suo agonismo, ricorda Bach. «Avevo la sensazione che abusassero di lui. Gli chiedevano di fare mille cose, per così tanta gente, che avrebbe dovuto sentirsi logorato da tutte quelle richieste. E invece riusciva sempre ad accontentare chi aveva più bisogno di lui. La sua statura morale crebbe, non solo come giocatore, ma come individuo: un uomo in grado di sopportare quella vista e di rendere felice quel bambino. Io non ce l’avrei fatta, ve lo dico. Io sarei stato annientato, e per poco non successe. Lui invece reggeva la pressione in modo eccezionale, che fossero le richieste della stampa, della società o della Nba, del basket. Scendeva in campo e lo faceva, più spesso di chiunque altro. Passava qualche notte senza dormire. Ma quella che per lui era una notte insonne, per qualcun altro diventava una notte indimenticabile. Ancora adesso lo ammiro per questo. Come riuscisse ad accontentare così tante persone non lo capirò mai, davvero».

Anche Jerry Krause ammirava l’innata capacità di Jordan di interagire con le persone meno fortunate. Ricorda il dg che le uniche volte in cui la giovane stella si irritava era quando qualcuno provava a trasformare quei momenti in eventi pubblici. Jordan pretendeva di occuparsene senza clamore e rigorosamente lontano dai riflettori. «Faceva di continuo cose di questo genere» ricorda Tim Hallam. «Ma a una sola condizione. Non lo faceva per pubblicità, perciò voleva il massimo riserbo. Niente stampa».

In realtà, l’ultima cosa di cui Jordan sembrava avere bisogno erano pubbliche relazioni. Bastavano le sue performance in campo. Anzi, in privato si lamentava della perfezione associata alla sua immagine. La gente aveva da sempre un debole per i campioni e desiderava credere a qualsiasi cosa si raccontava al loro riguardo. Nel «secolo dello sport», com’era stato definito, una serie di atleti erano stati elevati al rango di miti. E nessuno si era ancora accorto che l’adorazione di Jordan era solo agli inizi.

Il boom di vendite delle sue scarpe rispecchiava il prorompente business della squadra stessa. Nelle prime tre stagioni di Jordan, il valore della franchigia era più che triplicato, e continuava a crescere a ogni palla a due. Jerry Reinsdorf era così felice della piega presa dagli eventi, che rinnovò per un anno il contratto di Doug Collins e studiò un piano per prolungare l’accordo con Jordan.

L’affluenza annuale al Chicago Stadium era aumentata di circa duecentomila spettatori, arrivando a 650.718, un incremento pari a circa un terzo rispetto all’anno precedente, in cui Jordan aveva saltato ben trentaquattro partite casalinghe. Anche in trasferta i Bulls fecero registrare i migliori numeri della lega, attirando 276.996 tifosi in più, e generando così un’entrata ulteriore di 3,71 milioni di dollari. Gli altri proprietari capirono che la nuova gallina dalle uova d’oro non avrebbe arricchito solo Reinsdorf. L’aumento di popolarità e incassi alimentò la fiducia intorno a tutta la squadra. «Ora abbiamo il rispetto di questa città,» disse Collins ai cronisti «non siamo più considerati quelli che portano “cattive notizie”».

WOOLY BULLY

Tutti queste novità erano già avvenute e la dirigenza non aveva ancora scelto Phil Jackson come allenatore né aggiunto Scottie Pippen alla rosa. Nella primavera del 1987, Michael Jordan ancora non conosceva né l’uno né l’altro, ma ben presto quei due sarebbero diventati i partner principali della sua carriera professionistica. Pippen sarebbe arrivato grazie al draft del 1987 mentre Jackson avrebbe accettato il ruolo di assistente allenatore presso i Bulls durante l’estate, con l’incarico di osservare le squadre avversarie e svolgere altri compiti di minore importanza. Più che altro Krause voleva Jackson perché tutelasse Tex Winter.

In qualche modo Krause riuscì a convincere Collins ad assumere Jackson, che rimaneva un tipo stravagante nel mondo del basket, una sorta di intellettuale che portava piume sul cappello e aveva la reputazione di usare Lsd, come aveva rivelato nella sua autobiografia. Stavolta, però, l’hippie del basket americano si presentò al colloquio ben rasato e con la cravatta al collo, seguendo le indicazioni di Krause. Jordan non aveva mai sentito parlare di Jackson quando arrivò in squadra, e lo guardò con sospetto, pensando a una nuova invenzione di Krause, ma l’impressione iniziale fu abbastanza forte da cancellare le sensazioni negative.

Nessuno aveva detto a chiare lettere che Jackson era stato chiamato per rimpiazzare Collins, ma verità del genere affioravano in fretta nell’isolato mondo della Nba, dove le congiure di palazzo erano piuttosto frequenti. Nella Nba la figura dell’assistente allenatore era comparsa tra la fine degli Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, perché prima la maggior parte delle franchigie non poteva permetterseli, o non voleva pagare per averli. Perché mai Collins avrebbe dovuto fidarsi di Krause, che aveva licenziato due coach in due anni? Ad ogni modo la soluzione funzionò, dal momento che Jackson, nonostante l’ego, adottò un profilo basso e fu piuttosto riservato.

I Bulls erano diventati un ensemble di forti personalità: Jordan, Jackson, Collins, Bach e Winter, messi insieme da quello strano ometto di nome Krause, e tutti ora in stato di all’erta per la crescente frustrazione e il progressivo cinismo di Jordan. Michael aveva poca fiducia nelle capacità di Krause di trovare una qualunque soluzione per la squadra. Inoltre era ancora arrabbiato per come aveva gestito il suo ritorno dopo l’infortunio al piede – una dimostrazione di incompetenza da parte del dg. Però Jordan era stato educato al rispetto, sia dai genitori sia da Dean Smith. Conosceva come funzionava la catena di comando. Magari a volte si toglieva lo sfizio di una battuta divertente con la stampa, ma se i giornalisti gli chiedevano direttamente cosa pensasse dei membri dello staff, Jordan si rimetteva alla società, affermando che nel suo lavoro non rientrava occuparsi di questioni del genere.

Lontano dai microfoni, però, nutriva molti dubbi. E il draft del 1987 li avrebbe portati in primo piano, visto che Krause aveva lavorato per dare alla squadra due scelte al primo round. Pippen, preso come quinta scelta assoluta grazie a un accordo con i Seattle SuperSonics, non fu oggetto di eccessive discussioni.

La decima scelta, invece, diventò un problema: Dean Smith e Jordan avevano infatti esercitato forti pressioni su Krause affinché scegliesse Joe Wolf oppure Kenny Smith di North Carolina. Ma il direttore generale era sempre più scettico sui giocatori di Carolina, perché il sistema di gioco di Smith rendeva difficile giudicare il loro reale talento. Inoltre, l’allenatore era molto persuasivo e voleva che i suoi giocatori fossero sempre selezionati tra le prime scelte: un dg della Nba poteva finire nei guai se si lasciava annebbiare da Smith.

Krause era agitato per la decima scelta, la sera del draft, ma Reinsdorf gli disse di seguire il proprio istinto. Così Krause scelse Horace Grant di Clemson al posto di Joe Wolf, mandando su tutte le furie Dean Smith. Che un giocatore di Clemson fosse preferito a uno di Carolina era insopportabile per Smith, perché era un argomento che poteva essere usato contro di lui nelle selezioni.

«Dean Smith mi chiamò» ricorda Krause «e mi prese letteralmente a calci nel sedere. “Come hai potuto fare ciò, brutto idiota?”. Letteralmente. E Michael disse: “Ma che cavolo! Hai preso quel pupazzo?”. E per anni chiamò Horace così: il Pupazzo. Glielo diceva in faccia: Pupazzo. Dritto in faccia».

Krause non aveva consultato Jordan prima del draft, ma sapeva bene cosa gli avrebbe fatto piacere. «Parlai con alcuni giocatori, ma non con Michael, perché non era abbastanza adulto per capire, al tempo» ricorda Krause. Ma, fatto ancora più strano, i giocatori che consultava per questioni personali erano di altre squadre. Parlava spesso per esempio con Robert Parish dei Celtics e con Brad Davis dei Mavericks. «Erano relazioni costruite negli anni,» avrebbe confidato Krause anni dopo «e loro avevano qualcosa da dirmi, visto che avevano giocato contro quelli che mi interessavano». Nel 1995 Krause ha detto: «Io e Michael non vediamo le cose nello stesso modo. Michael avrebbe voluto che io portassi qui Buzz Peterson, il suo compagno di stanza al college, per i primi due anni. Scherzavamo su questo tutto il tempo. Walter Davis era un altro: mi implorò di prendere Walter Davis. Io non lo avrei mai fatto».

La questione alimentò la crescente ostilità tra i due uomini. Un anno prima Krause aveva scelto Brad Sellers al posto dell’amico di Jordan Johnny Dawkins di Duke. E adesso snobbava un solido giocatore di North Carolina. Anni dopo, Krause ammise che forse Joe Wolf sarebbe stato adatto per i Bulls e che l’ala di North Carolina non riuscì ad affermarsi forse proprio perché finì nei modesti Los Angeles Clippers. All’epoca, però, nella percezione di Jordan nessuno sapeva giudicare i giocatori meglio di Dean Smith e nessuna garanzia era migliore del logo dei Tar Heels. Questa era la ragione per cui indossava sempre gli shorts da allenamento di Carolina: sotto la divisa dei Bulls, quando scendeva in campo, e sotto i vestiti normali nella vita di ogni giorno. Credeva ciecamente in tutto ciò che veniva da North Carolina. Lì aveva vinto un campionato, mentre i Bulls fino ad allora si erano dimostrati un’operazione pretenzioasa, organizzata dal caotico e insicuro Krause che aveva messo in panchina tre coach in meno di tre stagioni.

Ma al di là di tutto, Jordan detestava avere a che fare con Krause, come ha ricordato Lacy Banks del «Sun-Times»: «Krause rendeva ogni cosa più difficile del necessario, per questo Michael lo odiava». Ormai era di pubblico dominio che Jordan avesse soprannominato il vicepresidente della squadra «il Briciola», dato che ogni cosa che mangiava – e mangiava parecchio – rimaneva in bella vista, sopra di lui.

«Io e il Briciola manteniamo le distanze» disse a «Sports Illustrated» quell’estate.

Col tempo Jordan avrebbe usato meno cautele nel disprezzare il suo dg, peraltro privo di senso dell’umorismo. Nelle stagioni successive, quando Krause scendeva negli spogliatoi, Jordan guidava i suoi compagni a mormorare o canticchiare la sigla della sitcom La fattoria dei giorni felici, ma Krause perlopiù ignorava lo scherzo o forse non lo comprendeva nemmeno. Quando in autunno partì la preparazione, Jordan fece quello che faceva sempre: riversò tutta la sua feroce competitività sulle matricole e sui nuovi giocatori presi da Krause, per valutare se fossero abbastanza forti mentalmente per competere nella Nba. Stava diventando una sorta di prova rituale, per Jordan: doveva capire per conto suo se confermare in modo indipendente il lavoro del dg. L’insistenza e la rabbia di Jordan contro il personale della società avrebbero costituito un tema che anni dopo lo avrebbe perseguitato come dirigente di basket.

La verità era che molti giocatori della Nba semplicemente non erano pronti a giocare al fianco di Michael Jordan, a prescindere da quale scuola avessero frequentato o da chi fossero stati scelti. Chiunque avesse composto la rosa, era consapevole della sfida mentale che Jordan avrebbe lanciato ai compagno di squadra; sembrava scontato che lui riponesse poca fiducia in chi gli stava intorno: «All’inizio Michael pensava di poter prendere il comando del gioco e vincere sempre da solo,» osservò Jim Stack, lo scout dei Bulls «e ovviamente un sacco di volte riusciva, soprattutto nei momenti chiave della partita, ad aiutarci a vincere. Ma finché non ha accettato davvero i suoi compagni di squadra e l’idea che potesse aiutare noi, per un certo periodo siamo stati come bloccati, credo».

Gran parte dell’aiuto, nella precedente stagione, era venuto da Charles Oakley, che aveva segnato 14,5 punti di media e preso 13,7 rimbalzi a partita, e da John Paxson, con i suoi 11,3 punti di media e quasi il 49 percento al tiro. «L’unica cosa da fare, con Michael Jordan, era guadagnarti il suo rispetto in campo» ha spiegato Paxson. «Dovevi fare qualcosa che gli permettesse di avere fiducia in te come giocatore. Era duro con i compagni di squadra, pretendeva che giocassimo forte e che svolgessimo i nostri compiti. Perciò era necessario fare qualcosa, in campo, per guadagnarti la sua fiducia. Questa era la cosa più difficile per gli ultimi arrivati, e alcuni di loro non riuscivano a gestirla. C’era chi non riusciva a giocare abbastanza bene o a essere costante, chi si rifiutava di fare il lavoro sporco, o di svolgere compiti minori. Questa è una delle ragioni per cui Michael amava Charles Oakley: perché Charles giocava forte. Faceva piccole cose in campo che Michael apprezzava, ma molti non lo capivano».

PIPPEN

La prima volta che incontrò Pippen, Jordan lo guardò e disse: «Ah bene, un altro ragazzo di campagna». Era un riferimento a Pete Myers della University of Arkansas, la sesta scelta di Krause al draft del 1986. Pippen veniva da un’università vicina, Central Arkansas.

«Non avevo mai sentito parlare di lui,» racconta Jordan «veniva da un’università della Naia».

Pippen era di Hamburg, Arkansas, una piccola cittadina ferroviaria di circa tremila persone, patria di Charles Portis, autore del romanzo Il Grinta. Pippen era il più piccolo dei dodici figli di Pres-ton e Ethel Pippen. Preston Pippen lavorava in una filanda. Ma la salute gli venne a mancare durante gli anni della scuola superiore di Scottie, limitando così le opportunità del minore dei suoi figli. Scottie, al terzo anno alla Hamburg High, fece più che altro panchina, ma l’anno seguente cominciò a giocare playmaker, era alto 1,85 e pesava 68 chili. Come seconda tappa del suo improbabile itinerario nel basket, l’allenatore lo spedì a Central Arkansas come team manager, un ruolo che Pippen aveva già ricoperto alle superiori.

«Dovevo prendermi cura del materiale sportivo, delle divise, cose così,» racconta Pippen «mi è sempre piaciuto farlo, essere solo un semplice team manager».

Il suo talento grezzo colpì l’allenatore Don Dyer: «Non era stato preso da nessuno, era solo una comparsa, una comparsa di 1,85 per 68 chili. Il suo primo coach, Donald Wayne, aveva giocato per me al college e così avevo preso Pippen per fargli un piacere. Ero già pronto ad aiutarlo, all’università: lo avrei fatto diventare team manager e lo avrei sostenuto finanziariamente tramite la facoltà. Quando Scottie è arrivato era diventato 1,90 e io avevo un paio di giocatori che se andavano. Vedevo del potenziale in lui, era come un giovane puledro».

L’idea di giocare nella Nba non aveva mai attraversato la mente di Pippen, nemmeno nei suoi sogni. Ma alla fine dell’anno da rookie era cresciuto fino a 1,96 e aveva dimostrato di essere uno dei migliori giocatori della squadra. «Aveva una mentalità da playmaker,» raccontò Dyer al «Chicago Tribune» per spiegare l’evoluzione di Pippen «e lo utilizzavamo per portare palla contro il pressing. Ma lo facevo giocare anche come ala, come centro, in ogni ruolo».

Scottie Pippen cominciò a capire che in campo le cose erano diverse: «Potevo essere bravo quanto volevo. Ho cominciato ad avere fiducia nelle mie capacità». Fiorì al punto di essere selezionato due volte nella squadra All-America della Naia (National Association of Intercollegiate Athletics). All’ultimo anno di università le sue prestazioni attirarono l’attenzione di Marty Blake, il direttore dello scouting per l’Nba. Pippen fece registrare una media a partita di 23,6 punti, 10 rimbalzi e 4,3 assist, tirando con il 59 percento dal campo e il 58 percento da tre. Blake passò l’informazione su Pippen ai Bulls e ad altre squadre. Pippen venne così invitato a uno dei camp in Virginia, il Portsmouth Invitational, dove Krause si innamorò di lui, come spesso capita agli osservatori. Perché nel frattempo Pippen aveva superato i due metri e aveva due braccia incredibilmente lunghe, che per Krause erano da sempre un parametro chiave per valutare i giocatori.

«Lo abbiamo visto giocare,» ha ricordato Krause in seguito «e io mi sono entusiasmato. Mi aveva colpito di brutto».

Da lì Pippen passò al successivo camp Nba, alle Hawaii. Krause comunicò a Collins che avevano trovato un candidato bollente. «Quando abbiamo parlato a Collins di Scottie, è rimasto perplesso» racconta Krause. «Allora ho messo insieme un filmato di tutti i giocatori presenti al torneo delle Hawaii e l’ho dato agli allenatori. Gli ho dato nomi e formazioni, ma nessun’altra informazione sui giocatori. In modo che giudicasseroo da soli. Quando sono usciti dalla sala video, gli ho chiesto se avessero domande e la prima è stata: “Chi diavolo è Scottie Pippen?”». A quel punto Krause si mise a lavorare su un accordo piuttosto complesso con Seattle, che lasciò Pippen ai Bulls dopo averlo preso come quinta scelta assoluta al draft del 1987. In cambio, a Seattle andò Olden Polynice, un centro della University of Virginia. Venendo da una piccola città e da una piccola università, e trovandosi all’improvviso sotto i riflettori di Chicago, Pippen era comprensibilmente spaesato.

«Era un talento eccezionale, ma era davvero inesperto» ricorda Jim Stack. «Inoltre, quando lo abbiamo preso, Scottie aveva problemi alla schiena e ha saltato gran parte della preparazione».

I problemi alla schiena furono davvero un bel problema nella crescita di Pippen e nel suo rapporto con la società. Ma la rapida amicizia con l’altra prima scelta dei Bulls, Horace Grant, lo aiutò ad ambientarsi.

«Entrambi arrivarono a Chicago il giorno dopo il draft e andarono a vedere una partita dei White Sox» ricorda Cheryl Raye-Stout. «Erano seduti in panchina con i cappellini dei Bulls in testa. Diventarono subito amici. Un’amicizia che proseguì in campo, perché si piacevano davvero molto. Entrambi dovevano maturare parecchio, però. Scottie faceva più fatica, venendo da una scuola della Naia e non essendo abituato ad avere sempre la stampa tra i piedi, cosa che per lui fu uno shock».

L’amicizia tra le due reclute diventò una sorta di infatuazione: «Scottie è il mio fratello gemello» affermava Grant, che aveva davvero un fratello gemello, Harvey, anche lui giocatore Nba. Pippen diventò il sostituto del suo gemello. Andavano a fare acquisti insieme, uscivano con le ragazze insieme, guidavano lo stesso tipo di automobile ed erano vicini di casa nel sobborgo di Northbrook. Si sposarono perfino a una settimana di distanza l’uno dall’altro e l’uno fece da testimone all’altro. Un rapporto curioso che aggiunse un tocco ulteriore alla già bizzarra alchimia dei Bulls: «Un giorno Scottie telefonò per dire che non veniva all’allenamento, perché il suo gatto era morto» ricorda l’ex preparatore Mark Pfeil. «Quindici minuti dopo chiamò Horace e disse che sarebbe rimasto con Scottie per consolarlo. Johnny Bach, il nostro viceallenatore, andò su tutte le furie. Chiamò Horace e gli disse: “Tu vieni qui. E faresti meglio a buttare quel gatto nel secchio della spazzatura”. Quando la squadra si riunì, Horace chiese un minuto di silenzio per il gatto di Scottie».

Tali assurdità irritavano Jordan. Krause ricorda che gli allenamenti ben presto divennero più divertenti delle partite, a Chicago, con Jordan accovacciato che urlava a Pippen: «Sto per venire a prenderti a calci nel culo!».

All’inizio, con quegli scontri in allenamento, l’obiettivo di Jordan era temprare Pippen. Bach ricorda che la giovane ala imparò molto da quell’esperienza, anche se tra i due non si instaurò una relazione molto calorosa.

«Quando in squadra sono arrivati Scottie e Horace, Michael ha avuto la sensazione che poteva esserci una svolta,» ricorda Mark Pfeil «ma lo frustrava il fatto che non avessero le stesse attitudini. Erano ancora abbastanza giovani da dire “che diamine, siamo pagati sia se vinciamo sia se perdiamo”. E per loro arrivarci vicino era già abbastanza».

A Jordan invece importava solo trovare un compagno che lo aiutasse a far diventare i Bulls competitivi. Anche Collins adottò una linea dura, come spiega Bach: «Doug Collins aveva grandi aspettative sui giovani, e qualche volta li fraintendeva. Grandi aspettative e un forte coinvolgimento emotivo. Doug li costringeva a competere ogni sera ad alto livello. Li guidava. Si lasciava coinvolgere emotivamente e gli faceva capire quanto fosse importante ogni partita e ogni allenamento. Così li guidava. Alcune persone dirigono i giovani giocatori, lui li guidava».

Pippen continuò ad avere problemi alla schiena durante la prima stagione, e qualcuno in società sospettò addirittura che fingesse, finché non gli fu diagnosticata un’ernia del disco e dovette subire un intervento chirurgico durante l’estate del 1988.

«Il primo e il secondo anno, lo ammetto, cazzeggiavo parecchio,» ha ammesso una volta Pippen «andavo alle feste, mi godevo i soldi e non prendevo il basket sul serio come avrei dovuto. Sono sicuro che molte matricole si comportavano come me. Non sei abituato alle luci della ribalta o a trovarti in una situazione economicamente favolosa».

Eppure, sul suo talento la franchigia contava molto, nonostante pesasse solo novantatré chili quell’anno. «Anche se il suo corpo ancora non c’era, potevi vedere dei segnali,» ricorda Jordan «in campo aperto assomigliava a Doctor J. Se prendeva la palla sulla ripartenza, con quelle lunghe falcate, un attimo dopo era a canestro. Credo che la gente è rimasta sorpresa nel vedere quanto velocemente progredì e come il suo corpo si adattò a quello stile di gioco».

IL LITIGIO

Alla ricerca di fisico e carisma sotto canestro, la squadra riprese il trentottenne Artis Gilmore per dare il cambio come centro a Dave Corzine. Oakley si era ben ambientato come ala forte e ora voleva avere la palla più spesso. Collins era d’accordo, ma era difficile rinunciare all’opzione Jordan.

«Dobbiamo arrivare al punto in cui Michael Jordan non sia l’unica fonte di energia della squadra» dichiarò Collins ai giornalisti. «Sia Michael che i Bulls sanno che non potrà sopravvivere a lungo con il fardello sovrumano che gli carichiamo sulle spalle. A volte, infatti, non sono del tutto sicuro che lui sia davvero umano».

Il piano ottimistico era che Pippen e Grant aumentassero il minutaggio e che Jordan potesse unire il suo talento eccezionale alle abilità che i compagni di squadra stavano sviluppando. «Non abbiamo ancora dimostrato niente,» disse Collins alla stampa «l’anno scorso abbiamo raccolto più di quanto meritavamo, giocando col cuore. Oakley con i rimbalzi, Jordan con i punti, Paxson con l’equilibrio, Corzine con il fisico – ogni cosa è andata al suo posto e questo ci ha permesso di tenerci a galla».

La stagione non era nemmeno cominciata, quando i problemi esplosero. Verso la fine di ottobre, Jordan accusò Collins di barare sul punteggio di una partitella e lasciò l’allenamento. I titoli sui giornali informarono la città che i due non si parlavano. Jordan venne multato e Collins si ritrovò sotto pressione mentre decideva la mossa successiva.

«Michael, nei primi tempi, era sia ambizioso che volitivo» ha riflettuto Bach «e anche Doug Collins viveva un momento critico. Con quella personalità sgargiante e impulsiva si capiva che qualche volta potesse irritare i giocatori, specialmente uno come Michael Jordan».

«Lui ha il suo orgoglio, io ho il mio» disse Jordan alla stampa. «Siamo due adulti. Al momento opportuno le parole arriveranno. Non voglio affrettare la situazione».

«Doug sapeva che doveva fare la pace, ed è quello che ha fatto,» ricorda John Paxson «doveva calmare la sua stella. Era un piccolo test che doveva superare. Se un altro giocatore si fosse comportato così, non so cosa sarebbe potuto succedere. I giocatori non lasciano mai un allenamento. Nessuno prende e se ne va».

Anche se i due si riappacificarono subito, in pubblico, la verità è che Jordan rispettava poco il coach. Negli anni Collins avrebbe dimostrato la sua bravura. «Ma a quel tempo era immaturo,» spiega Sonny Vaccaro «semplicemente non era pronto. Era evidente».

Jordan sfogò la sua frustrazione con Vaccaro. Alcune situazioni costrinsero Krause a mettere in guardia Collins riguardo il suo atteggiamento. Qualcuno sospettava che il dg prendesse nota delle indiscrezioni sul coach. Si erano scontrati con violenza in primavera e di nuovo a fine stagione in merito alla campagna acquisti. Il litigio in allenamento si aggiungeva alle già notevoli insicurezze di Collins.

Il coach era combattuto. Pensava che Jordan dominasse troppo il possesso palla, per una squadra che ambiva al titolo, ma Jordan continuava a mandare via i playmaker sulle rimesse e a farsi dare palla per controllare l’attacco. Ciò significava che l’allenatore non avrebbe mai potuto mettere in pratica con i Bulls alcuno schema legato a ripartenze e transizioni. La circostanza portò Krause a credere che Collins fosse incapace di dire no a Jordan.

«Deve essere molto difficile, per un head coach, stabilire una relazione con Michael e poi provare ad avere una relazione simile con gli altri giocatori» avrebbe osservato John Paxson circa dieci anni più tardi. «Non puoi proprio farlo. Devi dare a Michael libertà d’azione. E in campo non puoi essere troppo critico nei suoi confronti, come invece puoi esserlo con altri giocatori, visto quello che può fare e quello che rappresenta».

Impulsivo ed emotivo, Collins aveva la tendenza a dare la colpa ai suoi giocatori per le sconfitte, a volte usando termini spiacevoli e caustici, che servivano solo ad isolarli. I compagni di squadra incoraggiarono Jordan a parlare del problema, ma lui si rifiutò, ricordando il polverone che si era sollevato nel 1982, quando Magic Johnson aveva fatto cacciare il coach dei Lakers, Paul Westhead.

«Da allenatore, camminavi su una linea sottile, con Michael Jordan» sostiene Paxson. «Non che lui avrebbe mai fatto una cosa del genere, ma tutti conoscevamo la storia di Magic Johnson e Paul Westhead ai Lakers, quando Westhead fu licenziato perché era in disaccordo con Magic. Era un tipo di potere che Michael avrebbe potuto esercitare, se avesse voluto. Per questo Doug era in equilibrio precario. E per essere all’inizio della carriera, Doug gestì la situazione nel miglior modo che conosceva».

Il risultato fu una frattura nel rapporto tra Jordan e Collins, che Jordan fece di tutto per mascherare. Alcuni pensavano che il giocatore e il coach fossero ragionevolmente vicini ma non lo erano, come racconta Vaccaro: «Erano come l’acqua e l’olio. Io lo sapevo». Jordan contestava anche le buffonate di Collins durante la partita, che contrastavano nettamente con la calma dignitosa che Michael apprezzava in Dean Smith. Molti, in società, adoravano la bizzarra energia di Collins. Jordan invece la trovava sgradevole, ma se lo tenne per sé, visto che molti tifosi la consideravano un elemento di spicco di quella squadra giovane ed emozionante.

«Doug era un tipo molto emotivo» ricorda John Ligmanowski, lo storico magazziniere dei Bulls. «Sembrava quasi che volesse scendere in campo. Dopo una partita arrivava negli spogliatoi fradicio di sudore, totalmente svuotato. Era divertente perché stavamo appena cominciando a diventare bravi. La squadra aveva ripreso conoscenza».

Qualunque fossero i suoi difetti giovanili, Collins ebbe l’energia per portare i Bulls al successivo stadio evolutivo. «Doug era un grand’uomo,» spiega Mark Pfeil «era interessato a ogni aspetto delle persone. E si preoccupava per loro».

Cheryl Raye-Stout ricorda che i giornalisti, in particolare quelli televisivi, amavano Collins: «Era sempre disponibile per loro. Doug gridava, urlava, strepitava, lanciava cose… era di sicuro plateale nelle sue manifestazioni, e gli uomini chiave della squadra erano giovanissimi. Horace e Scottie lo detestavano. Lui stava imparando insieme a loro. Era al suo primo incarico. Era uno che veniva dalla cabina dei commentatori tv. Stava imparando il mestiere anche lui».

Se Jordan aveva motivo di pentirsi per l’incidente di ottobre con Collins, era solo perché aveva cominciato – a volte perfino meglio di quanto già facesse sua madre – a valutare le cose che gli accadevano nei termini della sua immagine, che era diventata la sua fonte primaria di reddito. Si sbilanciò in questo senso con la giornalista Johnette Howard, durante un’intervista rilasciata qualche settimana dopo: «Mi sentivo male per essermi comportato in quel modo, ma sono contento perché la gente ha intuito di cosa si trattava realmente, e cioè che sono solo un tipo estremamente competitivo».

Questa stava diventando la sua scusa ufficiale per quasi tutti i comportamenti che potessero essere giudicati sconvenienti: «È successo perché lui è così competitivo…». Incolpare di tutto il suo agonismo era una scusa conveniente e, ancora più importante, il pubblico sembrava avere fame di accettarla. Ciononostante aveva molte ragioni per preoccuparsi della sua immagine, come confidò a Howard: «Mi hanno messo in una posizione difficile, con questa squadra. È difficile per me essere il leader esplicito, perché tutti pensano ai Chicago Bulls come alla “squadra di Michael Jordan” o a “Jordan & Co.”. Il mio nome è sempre sotto i riflettori, e ovviamente ci sono persone che stanno diventando gelose».

Si preoccupava che il modo di trattare i compagni durante gli allenamenti venisse giudicato troppo duro. Così provò a bilanciare le cose, come spiegò lui stesso: «Se mostri un po’ di dolcezza e di interessamento, la gente ti apprezza di più». Così prese l’abitudine di lodare i compagni di squadra a ogni intervista.

Collins era popolare a Chicago e Jordan si sforzò, dopo l’incidente in allenamento, di dimostrargli il dovuto rispetto. Il coach era stato premiato con il rinnovo del contratto, ma alcuni osservatori intuirono che lo stress lo stava a poco a poco schiacciando. Aveva perso peso, non mangiava correttamente e ogni tanto sembrava angustiato dai pensieri.

Anche Jordan era stressato, una circostanza paradossale, aggravata dal successo economico. I guadagni, infatti, insieme al suo status mediatico, continuavano a irritare gli altri giocatori della lega: tutti sapevano dei suoi contratti di sponsorizzazione e avevano notato gli abiti costosi e le collane d’oro. A quel tempo c’erano ventiquattro giocatori della Nba che guadagnavano più di un milione di dollari all’anno, mentre Jordan era inchiodato a un contratto da ottocentotrentamila dollari per la stagione 1987-88. Sonny Vaccaro ricorda che Magic Johnson non riuscì mai capire come fosse possibile che Jordan avesse firmato per le scarpe un contratto così ricco rispetto a quello di qualunque altra stella. Vaccaro ascoltava di continuo lamentele simili da parte dei giocatori. Era ormai noto come l’uomo che gestiva i soldi della Nike ed era suo compito ascoltare e parlare con tutti i giocatori della lega.

Anche Lacy Banks aveva sentito le lamentele. Il «Sun-Times» gli aveva assegnato il compito di seguire i Bulls, nell’autunno del 1987. Banks era anche un ministro battista e così era chiamato «il Reverendo» dai colleghi. Anche lui era colpito dallo strano rapporto di Jordan con il denaro: «Quando cominciai a seguire Michael, lui era ancora in evoluzione,» ricorda Banks «non aveva nemmeno un grande contratto, allora. Per lui valeva il principio che aveva firmato il contratto con Reinsdorf, e che si sentiva quindi vincolato. Certo, se Reinsdorf avesse voluto sciogliere quel contratto e aumentargli lo stipendio, non avrebbe rifiutato. Ma non pensava che stesse a lui dire: “Credo di valere di più ora, penso che dovreste pagarmi di più”».

Jordan guadagnava così tanto fuori dal campo che il suo stipendio Nba sarebbe stata più una questione di orgoglio che altro. E non voleva essere visto come uno che faceva casino per avere più soldi. Quello che guadagnava fuori dal campo gli permetteva di poter dire che non giocava per i soldi. Altri lo avevano detto prima di lui, ma Jordan fu il primo giocatore professionista a non doversi concentrare realmente sul proprio salario Nba.

Banks aveva seguito Muhammad Ali per la rivista «Ebony» ed era arrivato a conoscerlo, e spesso rifletteva su quanto fosse stato frainteso. Ali aveva mostrato un coraggio notevole a parlare contro la guerra del Vietnam, ben prima che diventasse normale, e aveva pagato cara la sua opposizione al conflitto. Il giovane principe del basket, che ora Banks aveva il compito di raccontare, non mostrava una simile attenzione verso la giustizia sociale. Eppure, come la maggior parte delle persone che scrivevano di Jordan, Banks scoprì di ammirare la stella dei Bulls. «Mi sono accorto che apprezzava il fatto che fosse un uomo di colore a seguire i Bulls,» ha ricordato Banks nel 2011 «e nei primi anni eravamo molto legati».

I due si sarebbero seduti spesso insieme a giocare a carte e a parlare, durante i voli di linea che la squadra ancora prendeva a quei tempi. E così, quando Jordan non aveva il suo entourage al seguito, Banks era lì per prendergli il succo di arancia e i biscotti di avena dopo la partita – visto che i tifosi impedivano a Jordan di farlo di persona. Rimanevano insieme fino a tardi, guardando film su SpectraVision o continuando a giocare a carte. Ed è grazie a quei momenti che Banks arrivò alla conclusione che Jordan aveva una memoria fotografica. Poteva citare intere sezioni di sceneggiature di film e riusciva a ricordarsi dettagli sorprendenti nel mare sterminato e confuso delle partite che aveva disputato.

«Mi convinsi che contava le carte, quando giocava con me» disse Banks delle loro grandiose partite a tonk o a qualche variante di poker. «Azzeccava ogni scommessa, o almeno il novanta percento. Io giocavo per cercare di vincere dei soldi. Lui giocava per rilassarsi ed entrare in competizione. Per molti aspetti, mi affascinava. Michael era un sogno e io avevo un bel rapporto con lui: significativo, arricchente e divertente».

Lui si comportava, infallibilmente, con educazione verso ogni donna che bussava alla sua stanza d’albergo, a notte fonda, in cerca di compagnia. «Questo accadeva prima di comprendere che aveva una sua vita segreta» ha spiegato Banks. «Passavamo così tanto tempo insieme che la gente iniziò a chiamarmi “l’uomo di Michael”. La cosa mi faceva sentire bene, era balsamo per il mio ego».

Soprattutto quando c’erano così tante belle donne che volevano incontrare Jordan. «Conosce Michael? Mi può presentare?» chiedevano a Banks, che rifiutava sempre con cortesia.

I giornalisti sportivi trovavano che Jordan avesse una pazienza incredibile, non solo con le donne ma anche con i molti estranei che incontrava negli aeroporti e negli alberghi. «Non era uno che liquidava la gente» racconta Banks.

L’approccio di Jordan doveva molto a quello dei genitori. «Erano tranquilli ma socievoli,» ricorda Banks « Michael e suo padre si somigliavano un sacco, nelle espressioni del volto e nel modo di parlare. La signora Jordan invece era una devota cristiana. Non ho mai sentito una parola contro suo padre o sua madre, o i suoi fratelli».

I giornalisti sportivi dicevano spesso che Jordan era incompreso, non tanto dal pubblico quanto dai colleghi della Nba. «Quando la gente invidiava il suo successo, non capiva» spiega Banks. «La gente lo riteneva arrogante, perché vestiva ostentando la sua ricchezza. E gli invidiavano non tanto il talento, ma il successo commerciale. Quel contratto multimilionario con la Nike era senza precedenti. Era chiaro a tutti che quel ragazzo era una calamita in termini di marketing, e che chiunque se ne fosse aggiudicato un pezzo avrebbe guadagnato una fortuna. I Bulls cominciarono a fare il tutto esaurito, balzando in vetta alle classifiche di affluenza. E Michael diventò il re del parquet».

Un’incoronazione che qualcuno, tra gli avversari e all’interno dei Bulls, osservava con disprezzo.