32. In ritiro
Il tanto annunciato ritorno di Michael Jordan era servito a rivelare al giocatore, soprattutto, un fatto nuovo: Air Jordan non aveva mai conosciuto la vulnerabilità, almeno non su un campo da basket. «Lo sport mi ha impartito una lezione, nella deludente serie dell’anno scorso,» ammise in autunno «e mi ha spinto di nuovo in palestra a imparare il gioco da capo».
I tifosi e la stampa, ovviamente, puntarono il dito altrove: sul sistema offensivo di Chicago. Dopo la sconfitta, le trasmissioni sportive iniziarono a discutere la possibilità che il triangolo non andasse più bene per i Bulls. Perfino Tex Winter nutriva dei dubbi e voleva a tutti i costi sapere cosa ne pensasse Jordan.
Ricorda Jackson: «Impulsivo com’era, Tex mi ha detto: “Phil, voglio che tu gli chieda se pensa che dobbiamo cambiare sistema. Se possiamo ancora giocare con il triplo post, se è il caso di continuare a usarlo l’anno prossimo. Voglio che tu glielo chieda per me”. Così l’ho fatto, e Michael mi ha risposto: “Il triangolo è la spina dorsale di questa squadra. È il nostro sistema, il nostro punto fermo, che permette a tutti di sapere dove andare e cosa fare”».
«A quel tempo Michael aveva già vinto tre campionati giocando con il triangolo e aveva quindi completa fiducia nel sistema, e in Phil» spiega Steve Kerr. «Phil ci ripeteva di continuo, in allenamento: “Non faccio il triangolo per Michael o per Scottie, loro segnerebbero comunque in qualsiasi sistema di gioco. Lo faccio per voi altri”. E lo diceva di fronte a Michael, che secondo me era una scelta intelligente perché tutti invece sapevano che, in qualche modo, quell’attacco limitava le potenzialità di Michael. Se l’obiettivo fosse stato fargli fare 40 punti, bastava imparare qualche schema per dargli palla e poi toglierci di mezzo, e lui avrebbe segnato i suoi 40 punti. Ma in quel modo non avremmo vinto, e Michael lo sapeva bene».
Più che allo schema di gioco, il futuro della squadra era appeso a una domanda angosciante, che riguardava Jordan: E se prende e smette di nuovo? Sembrava abbastanza chiaro, per alcuni commentatori, che il suo tempo da sovrano assoluto del basket fosse finito. C’era anche chi, nello staff dei Bulls, ipotizzava che Jordan si sarebbe ritirato una seconda volta per non dover affrontare le mille scocciature della vita da giocatore Nba.
Tali congetture si intensificarono durante l’estate, quando Jordan venne coinvolto nella battaglia per la contrattazione collettiva tra i giocatori e la lega. Lui non aveva mai mostrato il minimo interesse verso le questioni contrattuali e aveva scelto di non provare mai a rinegoziare il proprio contratto con i Bulls. Eppure era lì, su richiesta di David Falk, ad assumere la leadership dei «fuorilegge» che cercavano di delegittimare il sindacato dei giocatori e costringere la Nba a concedere contratti migliori ai giocatori, con maggiori margini di negoziazione. La questione alla fine si risolse, lasciando tutti con l’immagine di un nuovo Jordan: più aggressivo verso le questioni che andavano al di là del parquet. Nonostante l’ansia dei tifosi riguardo al futuro, lo staff tecnico dei Bulls era invece piuttosto ottimista sulle prospettive della squadra. Avevano capito che i principali rivali nella Eastern Conference sarebbero stati i giovani e talentuosi Orlando Magic, e che se volevano sperare di vincere un altro campionato era con loro che avrebbero dovuto battagliare. Chicago doveva trovare un’ala forte per rafforzare il gioco sotto canestro, ma anche guardie più massicce per contrastare il trio di Orlando formato da Anfernee Hardaway, Nick Anderson e Brian Shaw. La prima mossa di Krause fu di rinunciare a esercitare l’opzione su B.J. Armstrong, amatissimo dai tifosi, nel draft dovuto all’allargamento della Nba. D’altronde, una guardia più robusta pronta a sostituire Armstrong era già in rosa: era l’ex All-Star Ron Harper, che Krause aveva ingaggiato nel 1994 per riempire il vuoto lasciato da Jordan. Una serie di infortuni al ginocchio aveva fatto crollare l’atletismo di Harper, rispetto a quand’era la giovane stella dei Cleveland Cavaliers, e il triangolo lo aveva demoralizzato; ma Phil Jackson cercava di convincerlo che, se avesse ritrovato la condizione fisica, sarebbe diventato un fattore importante nella stagione successiva.
Allo stesso modo, Jordan aveva bisogno di riorganizzare sia il proprio atteggiamento mentale sia il tipo di esercizi fisici, per sostituire quello che Reinsdorf chiamava «il corpo da baseball» con un più slanciato fisico da giocatore di pallacanestro. L’agenda di Jordan prevedeva di passare l’estate a Hollywood per girare un film di animazione della Warner Bros in compagnia di Bugs Bunny: Space Jam. Sorprendentemente però, gli allenatori dei Bulls non erano preoccupati che il loro giocatore più importante si sovraccaricasse di impegni in un momento così vulnerabile.
«Non ci preoccupavamo di Michael» racconta Winter. «Sapevamo che Michael avrebbe pensato a sé stesso».
Per la maggior parte del tempo, la sua «palestra» fu il campetto provvisorio, montato all’interno degli studi di Hollywood, dove girava il film: lì poteva lavorare sul proprio gioco rimanendo a portata della troupe quando c’era bisogno di lui in una scena. Per anni Krause aveva spronato Jordan a impegnarsi di più nel sollevamento pesi ma Dean Smith era sempre stato contrario a far mettere su massa muscolare ai giocatori, influenzando Jordan.
Più Krause parlava di sollevamento pesi, più sembrava che Jordan scrutasse l’orizzonte alla ricerca di campi da golf. Ma Orlando aveva catturato la sua attenzione. Krause, da tempo, insisteva affinché Jordan lavorasse con il responsabile del sollevamento pesi della squadra, Al Vermeil, fratello dell’ex allenatore dei Philadelphia Eagles, Dick Vermeil, ma Jordan guardava con sospetto qualsiasi proposta venisse dal suo dg. Così decise di rivolgersi a Tim Grover, il personal trainer di Juanita. Jordan, Harper e Pippen si allenarono tutte le mattine con Grover, tanto che il gruppo venne ribattezzato «Breakfast Club». Negli anni successivi, i Bulls sarebbero stati considerati una delle squadre meglio preparate in tutta la storia del basket. E Grover sarebbe presto diventato l’uomo più richiesto, identificato come il guru che aveva rimodellato il corpo di MJ.
«Non ho mai visto nessuno lavorare più duramente di Michael Jordan» disse Grover quell’autunno. «Ha onorato tutti i suoi impegni estivi – girare pubblicità, presenziare a eventi – e ha pure recitato in un film; ma il programma di allenamento è sempre stato il suo obiettivo primario».
Per Jordan quel massacrante programma estivo era solo l’inizio di uno sforzo che si sarebbe protratto per tutto l’anno, se voleva riprendersi il dominio sulla Nba. Mentre si avvicinava al suo trentatreesimo compleanno, cercò di prepararsi ad affrontare non solo i giovani talenti di quello sport ma anche il fantasma della sua stessa giovinezza.
«Sono il tipo di persona che vive di sfide» spiegava Jordan a quei tempi. «E sono orgoglioso che la gente abbia detto di me che ero il miglior giocatore di basket. Ma quando mi sono ritirato sono crollato in classifica. Sento di essere finito dietro a gente come Shaquille O’Neal, Hakeem Olajuwon, Scottie Pippen, David Robinson e Charles Barkley. Ecco perché ho giurato a me stesso che avrei fatto tutta la preparazione, che avrei giocato ogni singola amichevole e tutte le partite di regular season: alla mia età ho bisogno di lavorare di più. Non posso permettermi scorciatoie. Quindi questa volta ho previsto di arrivare ai playoff con un’intera stagione di allenamenti alle spalle».
Aveva bisogno di continuare a giocare, quell’estate, nonostante dovesse passare giornate intere sul set di Space Jam. Jordan riuscì a farsi costruire un campetto e invitò un gruppo di giocatori Nba a giocare con lui una serie di partitelle, tra una scena e l’altra del film. Si divertì moltissimo in quella competizione estiva, ma finite le riprese, fatte le valigie e tornato a Chicago per il ritiro, la sua concentrazione raggiunse una furia indefinibile. Che rivolse contro chiunque gli si parasse davanti.
LA RABBIA
La prima volta che Jim Stack propose l’idea, Jerry Krause la ignorò. Sapeva che Jordan e Pippen avrebbero dato di matto se avesse portato Dennis Rodman anche solo nei pressi dei Bulls. E Jerry Reinsdorf? Tutti loro odiavano i Pistons, quei gangster che si facevano chiamare i bad boys.
Stack, invece, sembrava sicuro che avrebbe funzionato.
«Jim Stack venne da me all’inizio dell’estate e mi chiese di valutare Rodman» racconta Krause «e quando lo scoraggiai, arrivò a implorarmi. Mi convinse di provare a capire se tutte le brutte voci che giravano sul ragazzo fossero vere o no. Senza l’insistenza di Jim, non avremmo mai cercato la verità dietro i pettegolezzi».
Più Krause indagava su Rodman, più ne rimaneva affascinato. Amici, nemici, vecchi allenatori, ex compagni di squadra: i Bulls contattarono una quantità di persone per avere notizie su Rodman. Chuck Daly gli disse che sarebbe andato da loro, e che avrebbe giocato con intensità. Ma Krause esitava ancora.
«Tutti, nella Nba, erano spaventati a morte da Dennis» spiega Brendan Malone, l’ex assistente di Detroit.
Anche Reinsdorf era cauto: Andiamoci piano, diceva, un tipo come lui può distruggere la squadra in pochi giorni.
Rodman stesso non riusciva a crederci, quando fu contattato. Ma Krause realizzò, a metà del loro colloquio, che quel ragazzo gli piaceva. Soddisfatto, Krause mandò Rodman a parlare con Jackson. E Rodman permise addirittura ai Bulls di parlare con uno psichiatra che lo aveva seguito. Lo staff tecnico immaginava che Pippen e Jordan sarebbero stati difficili da convincere ma i due rifletterono attentamente: «Se è pronto e ha voglia di giocare, sarebbe un grande acquisto per la nostra squadra» disse Pippen. «Se invece viene con un atteggiamento negativo, non è quello di cui abbiamo bisogno. Anzi, potrebbe farci fare un enorme passo indietro».
Con il consenso di Jordan e Pippen, Krause realizzò a ottobre, pochi giorni prima del ritiro, lo scambio con San Antonio: il vecchio centro di riserva dei Bulls, Will Perdue, per Rodman.
E così Dennis «il Verme» Rodman, il trentaquattrenne adolescente della Nba, si unì alla rosa dei Chicago Bulls. Voleva un contratto da due o tre anni, intorno ai quindici milioni di dollari: «Metterò cinque milioni in banca, vivrò di interessi e mi sballerò di feste» disse ai giornalisti. E come il tempo avrebbe dimostrato, fu esattamente ciò che fece.
Nelle ultime stagioni, i Bulls si erano appoggiati su un trio di centri: Will Perdue, Bill Wennington e Luc Longley. Perdue era bravo nelle stoppate, Wennington aveva una mano dolce in attacco e Longley, con i suoi 218 centimetri e i suoi 132 chili, possedeva il fisico adatto a contrastare giganti come Shaquille O’Neal. Nessuno dei tre centri di Chicago era completo, ma insieme formavano quello che la stampa aveva preso a chiamare «il mostro a tre teste», un patchwork realizzato dagli allenatori. Perdue fu ceduto e Rodman sarebbe diventato l’ala forte che avrebbe aiutato le restanti due teste del mostro a sopravvivere, sotto canestro.
Come supporto nella gestione di Rodman, i Bulls presero anche il suo compagno di San Antonio Jack Haley e chiamarono anche un altro ex ragazzaccio, James Edwards, a dare una mano con i compiti dei lunghi. Più tardi avrebbero ingaggiato un ulteriore lungo dei Pistons, John Salley, sempre come parte del «piano Rodman». Gli allenatori dei Bulls immaginavano che con Jordan a tempo pieno e deciso a vincere il titolo, con Pippen, Longley e Kukoč maturati, con Harper rimesso a nuovo e con Rodman nei paraggi, ogni tassello fosse al suo posto. I Bulls avevano a lungo odiato i bad boys di Detroit, ma ora erano pronti a impiegarne più d’uno.
L’unico problema era come farli convivere. Rodman si presentò a Chicago con i capelli tinti di un rosso-Bulls e un toro nero sulla nuca; le unghie erano smaltate con i colori sociali: «Capisco che siano tutti un po’ guardinghi e diffidenti per il fatto di avere qualcuno come me qui,» disse «e si chiedono come mi troverò con la squadra. Immagino che lo scopriranno in ritiro, e nelle amichevoli. Penso che Michael sa di poter contare su di me, che farò un buon lavoro. Spero che Scottie pensi lo stesso».
I toni epici del ritorno di Jordan si erano finalmente smorzati, a Chicago, ma adesso l’intera città si trovava invischiata nello scontro tra fazioni riguardo l’arrivo in città del Verme. Chi avrebbe potuto prevedere che i tifosi dei Bulls si sarebbero all’istante e perdutamente innamorati dell’uomo dai mille tatuaggi? Era arrivato in città sull’orlo della bancarotta, e aveva subito firmato una manciata di contratti di sponsorizzazione che gli avevano riempito le tasche di contanti da sperperare. In tutta la sua storia, quella città dalle spalle larghe aveva assistito a un’ininterrotta parata di gangster e signore bizzarre, di politici corrotti e avvocati senza scrupoli, ma Rodman era senza dubbio uno dei più pittoreschi clienti che Rush Street avesse mai conosciuto. Come avrebbe fatto notare Jackson, la sua nuova ala forte era un pagliaccio di prim’ordine. D’altronde, chi avrebbe potuto evitare di notare un giocatore che si presenta in conferenza stampa vestito da matrimonio?
Se non fosse stato per la sua grande entrata, i tifosi avrebbero forse potuto intuire che quell’autunno era in atto un ritiro stravagante, quasi infernale. Ci sarebbero voluti anni prima che la verità su quello che accadde realmente in quei lunghi, profetici giorni al Berto Center, venisse fuori. Quando tutto fu finito, i Bulls uscirono da lì come un carico di detenuti rilasciati con la condizionale: tanto spaventati quanto spaventosi.
«Ne ebbi un assaggio subito» ha raccontato Steve Kerr nel 2012. «Il ritiro era una follia di agonismo e intensità. Michael veniva dal grande ritorno e dai playoff giocati male, almeno per i suoi standard. Era deciso a dimostrare qualcosa e a riprendersi il suo gioco. E ogni allenamento diventava una guerra».
Se Dennis Rodman aveva avuto idea di fare le bizze, la abbandonò all’istante: Jordan era estremamente intimidatorio. In effetti Rodman nemmeno parlò con i nuovi compagni, preferì lavorare in un silenzio che diventava sempre più assurdo, ogni giorno che passava. «Fu un ritiro faticoso, perché tutti erano sospettosi» avrebbe spiegato più avanti nella stagione Jack Haley. «Sei Michael Jordan, sei Scottie Pippen, perché dovresti cambiare? Per Rodman? Michael Jordan aveva guadagnato cinquanta milioni di dollari, nell’ultimo anno: perché mai avrebbe dovuto cambiare atteggiamento e leccare i piedi a qualcuno, affinché parlasse con la squadra? Loro lo accolsero, gli strinsero la mano, gli diedero il benvenuto in squadra e gli spiegarono le cose principali. Tutto il resto fu un processo lento».
«Penso che tutti fossero preoccupati di quello che poteva succedere» ricorda John Paxson, che era diventato assistente allenatore. «Ma eravamo anche ottimisti. L’ottimismo aveva radici nella personalità di Phil. Sentivamo che se c’era qualcuno nella Nba in grado di andare d’accordo con Dennis e di farsi rispettare come allenatore, era Phil».
L’elemento centrale di disagio, rispetto all’alchimia di squadra, era il rapporto tra Rodman e Pippen: «No, non ho parlato con Dennis» riconobbe Pippen all’inizio dell’anno. «Non ho mai avuto una conversazione con Dennis in vita mia, quindi non c’è niente di nuovo».
Fu una benedizione, vista col senno di poi, che l’attrazione marginale costituita da Rodman servisse a mascherare quello che succedeva davvero durante il ritiro: Jordan era ancora più difficile, rispetto alla primavera precedente, era molto più aspro nelle relazioni con i compagni. «Quando tornò, dopo l’omicidio, era un nuovo animale» spiega Lacy Banks. La squadra, d’altronde, era stata smontata e ricostruita mentre Jordan era via. Non c’era dubbio che si trovasse a lavorare con un gruppo che non aveva idea di come vincere un campionato.
«Molti di quei ragazzi vengono da realtà che non gli hanno mai permesso di salire sul palco destinato ai campioni» spiegò Jordan, ammettendo di aver avuto un approccio piuttosto ruvido con i nuovi compagni di squadra. «Io sto solo accelerando il processo».
Un altro fattore era stata la serrata estiva. Su richiesta di Falk, Jordan aveva guidato il fallito tentativo di delegittimare il sindacato, e Steve Kerr era schierato nella fazione opposta. Reinsdorf era contrario che Jordan fosse fuori dal coro sulla questione, ma lui vi prese parte ugualmente. «Era rimasta una spina sottopelle, dalla serrata» ricorda Kerr. «Io ero il rappresentante dei Bulls e Michael era uno dei ragazzi di Falk; loro non erano affatto contenti di come fosse gestito il sindacato, per cui c’era una sorta di corrente sotterranea. Così ogni esercizio, ogni allenamento diventò particolarmente intenso».
Kerr avvertiva un ulteriore livello di irritazione, forse anche di disprezzo da parte di Jordan. Ma non aveva niente a che fare con questioni razziali, come ricorda ridendo: «Non usò mai la questione razziale in nessuna dichiarazione, era ben al di sopra. Non faceva discriminazioni: ci massacrava tutti indistintamente. Penso che fosse una cosa calcolata, anzi ne sono certo. Metteva alla prova ogni ragazzo. Forse al tempo non lo capivi, ma ti stava testando e dovevi essere in grado di affrontarlo».
Il momento di Kerr arrivò il terzo giorno del ritiro: «Ecco cosa mi ricordo» ha raccontato nel 2012. «Stavamo facendo una partitella e i titolari ci stavano battendo. Noi eravamo i rossi e loro prendevano il largo grazie ai tanti falli. Michael la metteva troppo sul piano fisico e Phil aveva lasciato la palestra per andare nel suo ufficio e rispondere a una telefonata o qualcosa del genere; l’assenza di Phil ci aveva fatto andare un po’ fuori controllo. Michael diceva ogni genere di stronzata. Ho davvero un vuoto di memoria su cosa abbia detto esattamente ma io mi arrabbiai parecchio perché, insomma, ero convinto che stessero facendo sistematicamente fallo a ogni azione, e Michael in particolare faceva un sacco di falli. Gli assistenti arbitravano ma non volevano fischiare i falli a Michael. Lui provocava, allora io iniziai a rispondergli. Non sono sicuro che qualcuno l’avesse mai fatto prima» racconta ridendo.
Kerr prese la palla e Jordan, ancora una volta, gli fece fallo: «Difendeva su di me e credo di aver usato l’altra mano per assestargli una gomitata, o qualcosa del genere, per levarmelo di dosso, ma lui continuava a insultarmi. Allora sciolsi la lingua e alla giocata successiva, mentre attraverso l’area, lui mi rifila un mezzo cazzotto, e io glielo restituisco. Così, sostanzialmente, lui inizia a inseguirmi. Come disse Jud Buechler: “Era una specie di velociraptor”. E io ero il ragazzino di Jurassic Park che viene attaccato dal velociraptor, nel film: non avevo speranze. Fu un macello. Ci urlavamo addosso l’uno con l’altro, e tutti i compagni, grazie a Dio, si misero in mezzo e ci divisero. Ma io alla fine mi ritrovai con un occhio nero. Evidentemente avevo preso un cazzotto ma nemmeno mi ricordo di essere stato colpito».
Fu la prima e ultima scazzottata nella vita di Kerr: «Ci ringhiavamo contro, e la cosa ci sfuggì di mano» ricorda Kerr, che era figlio di un diplomatico. «Ma lui voleva solo farci capire cosa ci aspettava, come ci avrebbero presi a calci nel sedere. Però io lo sapevo che ci avrebbero presi a calci, non avevo bisogno che lui me lo spiegasse. Perché non avrebbe dovuto farmi incazzare la cosa? Era naturale. Anche altri erano incazzati. Solo che quella volta stava marcando me».
Jackson ritenne l’incidente una seria e immediata minaccia all’alchimia di squadra.
«Michael lasciò l’allenamento infuriato» ricorda Kerr «e Phil venne giù e mi cercò per parlarmi. Disse: “Tu e Michael dovete fare pace. Devi parlargli e devi farci pace”. Tornai a casa e c’era un messaggio in segreteria, da parte di Michael, in cui si scusava. La cosa strana è che era come se il nostro rapporto, prima, fosse stato fantastico. Pochi giorni dopo tutto diventò ancora più strano, perché da quel momento in poi era come se mi avesse accettato. E fu meraviglioso».
Con quell’episodio, Jordan aveva assunto il pieno controllo della squadra. Se prima aveva usato la rabbia e le minacce psicologiche, ora aveva aggiunto anche la violenza. Aveva creato un’atmosfera che per le tre stagioni successive gli avrebbe permesso di guidare i Bulls al ritmo che voleva lui. Ma non era solo, in questa missione: era in combutta con Jackson, l’altra personalità dominante della squadra, per creare un gruppo ferocemente disciplinato.
Per quel motivo Jackson definiva Jordan il «maschio alfa». L’allenatore cercava di mitigare e indirizzare la ferocia di Jordan attraverso gli insegnamenti zen, l’autoconsapevolezza, la meditazione e altre pratiche. «Lui non verbalizzava molto, sulle cose personali,» racconta Kerr «ma verbalizzava molto sul basket. Voglio dire, aveva le sue opinioni al riguardo. Nelle sessioni video, parlava tutto il tempo, ed era lo stesso Phil a volte a chiedergli di intervenire; esercitava la sua influenza su di noi nel gioco, ma non tanto a livello personale».
Tale approccio senza precedenti toccò l’apice durante quel primo ritiro dopo il ritorno di Jordan, ma la dinamica si estese alle tre successive, vincenti e turbolente stagioni, come racconta Kerr.
«Lui sa di intimorire gli altri» disse Jackson quell’autunno. «E l’anno scorso, appena tornato, dovetti frenarlo. Si trovava a suo agio a giocare con Will Perdue… ma era duro con Longley. Gli passava certi palloni, a volte, che non credo nessuno sarebbe riuscito ad afferrare, poi lo fissava e gli dava quell’occhiataccia. Io gli facevo capire che Luc non era Will Perdue e che andava bene se lo metteva alla prova per vedere di che pasta fosse fatto; ma volevo che giocasse con lui, perché aveva un fisico pazzesco, non aveva paura, sapeva essere ruvido e se dovevamo avere a che fare con Orlando, avevamo bisogno di qualcuno che fosse in grado di affrontare Shaquille O’Neal».
Jackson, che aveva sempre fatto uno sforzo affinché la gerarchia della squadra fosse ben chiara a tutti, adesso aveva Jordan come tutore dell’ordine. E in più c’era anche il contributo di Tex Winter, che trattava in modo severo chi batteva la fiacca.
ZEN
Jackson aveva fatto assumere George Mumford, uno psicologo e esperto di autocoscienza che insegnò alla squadra la meditazione e gli esercizi di armonia di gruppo. Mumford offriva anche sostegno individuale ai giocatori per aiutarli a capire le dinamiche di squadra, che si riducevano soprattutto al bullismo di Jordan e all’influenza che Jackson usava per far remare tutti nella stessa direzione. La cosa sorprendente fu vedere Jordan adottare un approccio più tenero, simile a quello che Phil aveva con la squadra, come sottolinea Kerr: «Quella fu la chiave di tutto. Se Michael non si fosse fidato di Phil, la cosa non avrebbe mai funzionato, per nessuno di noi. Ma Michael nutriva un profondo rispetto per Phil, al punto da adeguarsi ai suoi metodi».
Spesso sembrava un’incongruenza che Jackson usasse ben trenta minuti del prezioso tempo di un allenamento per tenere i suoi giocatori seduti sul pavimento, al buio, a meditare, per poi accettare l’esplosione di furia di Jordan all’inizio del primo esercizio. Ma come racconta Kerr, Jackson aveva spiegato che l’attacco triangolo non era per Jordan, era per il resto della squadra. Vi si affidava nella speranza che Jordan non sbranasse un promettente compagno di squadra dopo l’altro.
In breve tempo, Jordan concesse un tale livello di fiducia a Mumford da arrivare a confidargli che se lo avesse incontrato prima, nella sua carriera, non avrebbe passato la vita come un prigioniero di una stanza d’albergo.
Anche Pippen contribuiva a far rispettare la gerarchia. A volte esplodeva di rabbia, ma era un leader comprensivo e pieno di compassione. Si era laureato alla scuola MJ di «avversità nella vita» e, nell’autunno del 1995, agiva come partner di Jordan nel cuore stesso della squadra. «Quando arrivai lì, avevano un rapporto eccezionale» aggiunge Kerr. «C’era il loro Breakfast Club: lui andava con Harper a casa di Michael a fare sollevamento pesi, la mattina. Andavano, facevano esercizi e poi arrivavano insieme all’allenamento: quei tre erano molto uniti. E, come sapevamo tutti, quello era il ruolo perfetto per Scottie, perché non doveva essere il leader assoluto ma poteva esprimere la superiorità a modo suo».
Jordan rimaneva sempre il maschio alfa del branco, ma l’accoppiata con Pippen aveva dato vita a un’entità a due teste, in cui il totale era molto più della somma delle singole parti. «Era una combinazione perfetta, sia in attacco che in difesa» spiega Kerr. «Dietro erano così versatili che potevano scambiarsi le marcature e creare scompiglio. Offensivamente parlando, invece, Scottie preferiva passare e Michael preferiva segnare. Alla fine, credo in uno dei nostri ultimi campionati vinti, Michael afferrò Scottie con il braccio e dichiarò alla folla che non sarebbe stato possibile farcela, senza di lui. Insomma, era un rapporto incredibile».
Fu in quell’atmosfera che l’elemento Dennis Rodman venne iniettato nell’alchimia di squadra, a Chicago. Tutti, in società, non vedevano l’ora di capire come si sarebbe collocato nella gerarchia, quell’autunno. «A stento si rivolgevano la parola» disse Kerr di Rodman e Jordan. «C’era questo rispetto, una sorta di stima sotterranea che si intuiva: Michael non se la prendeva mai con Dennis. Mai. E Dennis era come remissivo verso Michael, non in senso fisico, ma emotivo. Non fece mai niente per Michael che non facesse anche per il resto della squadra, ma c’era come la consapevolezza che Michael era “il più grande”, e che lui era un gradino sotto e quindi non lo faceva incazzare. E viceversa. Era davvero interessante».
Il bersaglio principale della furia di Jordan rimanevano le due stelle straniere della squadra: l’australiano Luc Longley e il croato Toni Kukoč. Secondo i racconti di tutti, compreso quello di Jordan, il trattamento a loro riservato fu durissimo per tutte le ultime tre stagioni a Chicago: «Quei ragazzi erano così talentuosi… Toni, in particolare, aveva un vero e proprio dono,» racconta Kerr «mentre Luc era un pezzo grosso, letteralmente e metaforicamente. Voglio dire che avevamo bisogno di lui per presidiare l’area, stabilizzare la difesa e prendere i rimbalzi; ma bisognava accendergli un fuoco sotto, per fargli tirare fuori tutto quello che aveva. Quindi credo ci fosse una ragione per cui Michael, Phil, Tex e Scottie, tutti insistevano con quei due ragazzi: ne avevamo bisogno. E loro avevano bisogno di una bella sveglia. Toni era troppo rilassato. Anch’io sono molto tranquillo, apparentemente, ma sono capace di arrabbiarmi. Ho certi tasti che se vengono toccati, specialmente quando giocavo… posso arrabbiarmi parecchio, come quel giorno che scattai con Jordan. Invece non ho mai visto Toni reagire male. E nemmeno Luc. Quindi era come se per Michael loro fossero due bersagli autorizzati».
Tex Winter aveva assistito a ogni possibile tipo di dinamica di squadra ma rimase pietrificato dall’evoluzione di Jordan, dopo il suo ritorno: «Ha trovato un nuovo modo per sfidare sé stesso» teorizzò l’anziano allenatore, rimarcando che se Jordan ci andava così duro con i suoi compagni, obbligava sé stesso a lasciare ben poco spazio all’errore.
Anche Kerr concorda: «Se guardi al suo passato, è pieno di momenti in cui lui, in qualche modo, si è creato delle sfide da solo per tenere alta la tensione. La cosa che mi colpisce è che gli standard che si era imposto erano così eccezionalmente alti che era quasi ingiusto chiedersi di mantenerli. È una cosa incredibile. In ogni trasferta, per tutta la stagione, lui chiedeva a sé stesso di segnare almeno quaranta punti. Amava farlo. È la cosa sbalorditiva di Jordan. La combinazione di talento assoluto, etica del lavoro, tecnica cestistica e agonismo è semplicemente incredibile».
Due anni dopo, ripensando a quei giorni, Jordan avrebbe riconosciuto che a volte era stato talmente duro da far andar via le persone: «Ti fai un’idea migliore di me, come leader, se hai la stessa motivazione, la stessa comprensione di cosa stavamo cercando di raggiungere e di cosa ci vuole per arrivare lassù» spiegò. «Ora, se io e te non andiamo d’accordo, sicuramente tu non comprenderai la dedizione che serve per arrivare alla vittoria. Quindi se li mandavo via, non lo facevo con l’intenzione di liberarmene; li mandavo via per fargli capire cosa ci vuole per diventare un campione, cosa è necessario fare per dedicarsi anima e corpo alla vittoria. Non sono duro tutti i giorni. Voglio dire, a volte ti devi rilassare e lasciare che la tensione scorra via, che si alleggerisca. Ma per la maggior parte del tempo, quando c’è da concentrarsi, devi essere concentrato. Come leader è questo il mio compito».
«E non sono solo» sottolineò, facendo eco a Kerr. «Pip fa la stessa cosa, e anche Phil. Io però lo faccio più spesso, credo, perché sono qui da più tempo di tutti. Mi sento obbligato ad assicurarmi che tutti mantengano lo stesso tipo di aspettative, allo stesso livello».
Jordan sapeva bene come intimidire, avendo preso lezioni dai Pistons. Ed era una cosa che andava insegnata agli altri. Aveva preso la decisione nel 1990, quando aveva gettato il cuore oltre l’ostacolo per poi realizzare che i suoi compagni non avevano fatto lo stesso. Aveva giurato che non sarebbe mai più andato in battaglia affiancato da cuori deboli: «Questo significa passare attraverso tutte quelle maledette fasi che ti portano da essere una squadra perdente a una che vince il campionato» ha detto Jordan, guardando in retrospettiva, mentre i suoi occhi si assottigliavano e l’espressione si corrucciava. Jordan aveva preso la squadra per le corna e ne aveva innalzato il livello di passione. Solo realizzare questo aveva sbalordito Steve Kerr: Quindi è di questo che si tratta, disse a sé stesso.
Jordan capì presto che il suo status nel basket gli permetteva di fare cose che a nessun altro giocatore – e forse nemmeno a nessun allenatore – sarebbero state perdonate. «Non volevo farlo in un modo per cui potessero travisare il rapporto» disse. «Non c’è mai niente di personale. Voglio bene a tutti i miei compagni, farei qualsiasi cosa per loro. Mi farei davvero in quattro per essere sicuro che raggiungano il successo. Però loro devono fare lo stesso. Devono avere una maggiore comprensione di cosa è necessario fare».
Il fatto che Jordan di tanto in tanto cacciasse alcuni aspiranti compagni di squadra «può essere una cosa positiva» ammette Kerr. «Bisogna in qualche modo liberarsi dalle persone che non possono veramente aiutare. Michael ha un metodo per identificare quel tipo di ragazzi, per scovare le loro debolezze».
«Ovviamente tutti abbiamo delle debolezze,» aggiunge Kerr ridendo «tranne Michael. E quello che lui fa è costringerci a lottare, a essere competitivi, a combattere le debolezze, a non accettarle, a lavorarci e quindi a migliorare noi stessi». Ma non bisogna fraintendere, disse Kerr; quello che Jordan faceva era una sfida allo stato puro: «Non c’era incoraggiamento».
«Sospetto che Larry Bird avesse un atteggiamento simile,» sostiene il preparatore Chip Schaefer «e so per certo, avendo assistito a innumerevoli allenamenti dei Lakers durante il mio incarico al Loyola Marymount, che Magic Johnson in allenamento era uno stronzo: se ti facevi scappare uno dei suoi passaggi, se sbagliavi un terzo tempo o un compito in difesa… beh amico, se gli occhi avessero potuto uccidere, quello era il modo in cui l’avrebbero fatto».
Sarebbe servito del tempo a questo Jordan, più severo che mai, per essere messo a fuoco dall’opinione pubblica. Bruce Levine, l’inviato di una radio sportiva di Chicago, era arrivato a conoscere bene Jordan nel corso degli anni; lentamente Levine capì cosa avesse significato la morte di James Jordan per la stella dei Bulls: «Fino ad allora era la più inscalfibile delle superstar, perché non permetteva a niente di toccarlo» spiegò Levine. «Prima capitava ancora che sedesse negli spogliatoi e si rilassasse un po’ con noi, parlando per trenta, quaranta minuti di tutto tranne che di basket. Magari faceva stretching, in campo, e noi ci sedevamo con lui a parlare per tre quarti d’ora di qualunque cosa. Ci divertivamo, ci faceva un sacco di domande, è un tipo curioso, gli piace imparare. Aveva ancora voglia di imparare dalla vita, di crescere. Ma dopo la cosa di suo padre, e dopo il modo in cui i mass media dipinsero quel funerale, non provò più gli stessi sentimenti verso la stampa. Non si fidava più di noi, nemmeno di persone come me, che erano suoi amici periferici. Era cambiato. In un certo senso, la cosa lo aveva irrigidito. Era ancora molto generoso con il suo tempo, ma il divertimento era come sparito, sia per lui che per noi».
Ciò che rendeva la severità di Jordan così difficile da decifrare era che spesso si presentava avvolta dall’ilarità del suo trash talk: «Michael ha deciso di godersi il tempo che passa giocando a basket» osservò Tex Winter. «Credo che abbia preso questa decisione tanto tempo fa. Si diverte a giocare, e vuole che rimanga una cosa divertente e semplice. È questo che prova a fare. A volte i suoi metodi, a mio modo di vedere, sono discutibili. Ma se questo è quello che gli serve per divertirsi e per poi sfidare sé stesso, allora che lo faccia».
Toccava poi a Jackson integrare la nuova, più severa versione di Jordan nella rosa.
Dal suo ritorno, il coach aveva continuato a ricordargli che la forza di una squadra si misurava dall’anello più debole, cosa che aveva fatto precipitare il ritiro nella ferocia. La valigia dei trucchi dell’allenatore comprendeva, tra i vari giochetti mentali, l’inganno, il nascondino motivazionale e, quando si rendeva necessario, il giudizio diretto e perfino lo scontro. Con il passare del tempo, la natura del ruolo di Jackson diventò sempre più politica, rassicurante, comprensiva. Il rispetto che mostrava verso Jordan dava però luogo a un palese doppio standard.
«Phil accennava alle cose che riguardavano Michael con frasi tipo: “Noi dobbiamo fare questo”» osservò dopo una partita il centro di riserva Bill Wennington. «Ogni volta che c’era un problema con Michael in una riunione, diventava sempre “noi dobbiamo fare così…”. Se riguardava me, invece, mi diceva: “Bill, tu devi fare il tagliafuori”. Un problema di Michael era un problema che riguardava “noi”. Agli altri invece diceva: “Steve, devi prenderti quel tiro”. Se Michael si dimenticava un tagliafuori, diventava: “Bene, noi dobbiamo fare il tagliafuori adesso”. Erano piccole cose del genere. Ma se riuscivi a capirne il motivo, capivi che era per il bene della squadra, e che tutti ne facevamo parte».
Jordan aveva da sempre accusato Jackson di fare giochetti mentali, ma anche lui li faceva, solo molto più duramente. «È questo il punto: l’aspetto mentale» disse Jordan. «Bisogna costringerli a pensare. Questa squadra non è una squadra fisica, non abbiamo vantaggi nel fisico. Ma abbiamo vantaggi mentali».
«Erano crudeli» ha detto Kerr dei giochetti di Jordan. «Ma la cosa buona era che se noi dovevamo subirli in allenamento, i nostri avversari dovevano affrontarli in partita».
Muggsy Bogues può confermare. In un momento chiave dei playoff del 1995, durante la serie tra i Bulls e gli Charlotte Hornets, Jordan indietreggiò dalla marcatura di Bogues, alto uno e sessanta, e gli disse: «Dài, tira, nano del cazzo che non sei altro». Bogues sbagliò il tiro, perse fiducia e in seguito raccontò a Johnny Bach che quella giocata aveva sospinto la sua carriera verso la rovina.
Amici o nemici che fossero, Jordan sapeva sempre come provocare chi aveva intorno, a un livello psicologico profondo. Il telecronista sportivo Jim Rose ebbe la rara occasione di vivere l’esperienza in prima persona, durante una partita di beneficenza con Jordan e altre stelle della Nba. Rose aveva seguito la squadra, e conosceva l’agonismo e le aspettative di Jordan, così aveva passato settimane ad allenarsi per la partita. Ma durante l’incontro sbagliò un terzo tempo, accendendo la furia di Jordan.
«Non sei abbastanza nero» pare abbia ringhiato Jordan a Rose, offendendo il telecronista a tal punto che Rose arrivò a tirargli contro il pallone. Jordan in seguito gli chiese scusa. Ma l’episodio rivelava quale intuito avesse nel capire al volo quali tasti toccare per scuotere emotivamente i compagni. «Ha fatto tutto con grande divertimento,» disse Rose «ma a Michael non piace perdere, per niente. Io ho sbagliato il canestro, mi sono arrabbiato, gli ho tirato la palla addosso e sono uscito dal campo inferocito. Michael non ha un’unghia di cattiveria dentro di sé, è una persona meravigliosa, ma ci sono momenti in cui la sua competitività prende il sopravvento».
Jim Stack si stupiva spesso del divario esistente tra il Jordan adorato dal pubblico e quel personaggio dispotico, spesso sgradevole, che veniva agli allenamenti a Chicago: «La Nike aveva contribuito a creare quell’immagine» osservò Stack, aggiungendo che c’era una sostanziale verità in quello che il pubblico vedeva in lui. «Michael è stato educato bene. James e Deloris hanno fatto un gran lavoro con lui. Ma quando entra in modalità competitiva, lui schiaccia l’interruttore e resta in quella modalità fino alla fine. Fuori dal campo è stato uno dei personaggi più coinvolgenti e carismatici di tutti i tempi. Lo metto insieme a Muhammad Ali, nella stessa categoria. Era intrigante, rispettoso, e sapeva quali erano le cose giuste da dire. Ma se gli facevi scattare quell’interruttore della competitività, era capace di mangiarti il cuore».