34. Regolamento di conti

Dopo aver lottato per tornare al vertice, e una volta scaduto il proprio contratto, Jordan vide arrivare finalmente l’opportunità di correggere la discrepanza tra il suo salario e quello degli altri top player della Nba. Nei Bulls le trattative spesso generavano malumori e offese. Tutta la ricchezza e la fama conquistate non rendevano i giocatori immuni alle ferite dell’orgoglio. Anzi, accadeva proprio il contrario: più grande era l’ego, più profonda la ferita.

«L’estate fu il momento in cui Michael tirò fuori tutta la roba che aveva dentro» osservò Steve Kerr a quei tempi. «Avevamo vinto il campionato e lui era salito sul podio a fare un appello perché ci riprovassimo insieme l’anno dopo». Questo fece infuriare la dirigenza. «E andò avanti tutta l’estate» aggiunse Kerr.

Tra Reinsdorf e Jordan il legame era sempre stato forte, almeno visto dall’esterno. Da quando i contratti dei giocatori erano schizzati alle stelle, negli anni Novanta, si diceva che Jordan fosse infastidito dal fatto di guadagnare una cifra che si aggirava intorno ai quattro milioni di dollari l’anno mentre oltre una decina di giocatori meno importanti ne guadagnavano il doppio. Allo stesso tempo, però, era troppo orgoglioso per chiedere un ritocco dell’ingaggio. Aveva promesso di onorare il contratto, che aveva firmato all’inizio con grande soddisfazione. Eppure, quando nell’autunno del 1993 si ritirò di colpo, è inevitabile che qualcuno insinuasse che di mezzo c’erano anche quelle condizioni obsolete.

I Bulls continuarono a pagare Jordan dopo che si era ritirato, un gesto di lealtà di Reinsdorf, secondo uno dei soci del proprietario. Alcuni commentatori più scettici osservarono invece che in quel modo la squadra riusciva a trarre alcuni benefici nella giungla di regole della lega relative al tetto salariale. Se non altro la cosa fa capire quanto fosse difficile stringere relazioni personali in quel mondo di affaristi senza scrupoli: perfino semplici gesti di gentilezza potevano essere interpretati come strategie ciniche.

In un certo senso, Reinsdorf e Jordan erano soci di un’impresa sportivo-spettacolare a scopo di lucro. Il problema era che non potevano esserlo alla pari: Reinsdorf era il capitale, Jordan la forza lavoro. E mentre i costi del lavoro avevano un tetto prefissato, le percentuali di profitto schizzavano in alto per gli azionisti del club.

Certo, Jordan guadagnava decine di milioni di dollari fuori dal campo. Tuttavia, il suo contratto da giocatore, relativamente modesto, rappresentava un’ingiustizia. Quando era tornato a giocare nel 1995, aveva ripreso il vecchio contratto: ciò significava che l’ammontare degli stipendi rimaneva ben sotto i trenta milioni complessivi, e che il club poteva quindi continuare a guadagnare milioni e milioni di dollari. Tutto questo si sommava alla valorizzazione del patrimonio che le brillanti giocate di Jordan, e la messe di titoli, avevano creato. Il gruppo di Reinsdorf aveva acquisito il club durante il primo anno di Jordan per una cifra vicina ai quindici milioni di dollari, e aveva visto il suo valore crescere più di trenta volte tanto nei dieci anni successivi.

C’era la netta sensazione che Jordan dovesse essere risarcito; non lo pensavano solo i suoi agenti ma chiunque avesse a che fare con la Nba. La leadership e il gioco mostrati da Jordan nella storica stagione 1995-96 rafforzarono tale convinzione. Con la fine di quella cavalcata, arrivò finalmente a scadenza anche il suo lungo contratto, e iniziarono i veri problemi.

Pochi giorni dopo i festeggiamenti per la vittoria del quarto anello, gli agenti del giocatore iniziarono a discutere con Reinsdorf del futuro. In un’intervista del 1998 Jordan ha ricordato il suo approccio: «Quello che ho detto ai miei agenti era: “Non partite da una cifra. Sono in questa squadra da tanto tempo. Tutti sanno quale sia o quale possa essere il mio valore di mercato. Se lui tiene fede alla sua parola ed è onesto, ascoltate quello che ha da dire, prima di rivelare la nostra posizione”. Le istruzioni per Falk erano di andare a sentire, mai di negoziare. Non doveva diventare una trattativa. Noi non pensavamo nei termini di una trattativa. Sentivamo che per i Bulls fosse l’occasione di darmi quello che ritenevano fosse il mio valore per la società».

Jordan era consapevole della riluttanza di Reinsdorf a separarsi dal denaro, però credeva che una trattativa prolungata non avrebbe fatto altro che sminuire quello che rappresentava per i Bulls. Così Jordan e i suoi agenti ascoltarono anche l’offerta dei New York Knickerboxers. Jordan avrebbe lasciato i Bulls per i Knicks?

«Sì» disse lui.

In effetti, i Knicks avevano messo insieme diversi milioni da offrire a Jordan come stipendio base, da accompagnare con un contratto multimilionario legato alla sua immagine, attraverso una delle società a loro affiliate. Si dice che quando Reinsdorf venne a conoscenza del piano, si infuriò a tal punto da chiedere un parere alla Nba sulla legalità dell’offerta, che lui riteneva piuttosto un modo per aggirare il tetto salariale. Il presidente dei Bulls minacciò una causa per bloccare i Knicks, ma un alto dirigente della Nba lo convinse della futilità dell’idea e del possibile contraccolpo negativo che avrebbe prodotto una causa contro la sua star più famosa e contro i Knicks.

David Falk voleva un sostanzioso contratto di un anno, che riflettesse il contributo dato da Jordan ai Bulls e al basket in generale. Ma Reinsdorf non mise sul piatto nessuna offerta precisa, così scese in campo direttamente Jordan.

«Per quanto ne so, non si era parlato di cifre prima che mi facessi avanti io» ricorda Jordan. «Nessuno voleva scoprire le sue carte. Tutti facevano manovre per vedere chi avrebbe tirato fuori per primo qualche numero, cosa che noi non avremmo fatto. Avevamo un’idea in testa, ma davvero credevamo che toccasse ai Bulls dirci quanto valevo per loro. E dovevano farlo con onestà, senza essere influenzati da David, né da me. Solo quanto valevo per la società».

Alla fine, esasperato dalla ritrosia di Reinsdorf, Jordan partecipò a una telefonata a tre con il suo agente e Reinsdorf. In quel momento stava giocando a golf. Disse a Reinsdorf che se la società voleva siglare un nuovo contratto si doveva trattare di un anno solo, per un compenso superiore ai trenta milioni di dollari. E che Reinsdorf aveva un’ora per accettare.

«Nel momento in cui stavano negoziando, io ero a Tahoe per un torneo di golf per vip» ha spiegato Jordan. «Avevamo fatto qualche colloquio con New York. Avevamo deciso di vederli subito dopo l’incontro con Reinsdorf, un’ora dopo, credo. David voleva che i Bulls facessero la loro offerta e la voleva discutere prima di andare a sentire New York. E [Reinsdorf] sapeva che aveva solo quella finestra di tempo, prima che andassimo a parlare con New York».

Krause avrebbe in seguito descritto la modalità con cui Jordan fissò un tempo per la trattativa come «glaciale».

Anche se non l’avrebbe mai ammesso, Reinsdorf era ferito. Credeva di avere un buon rapporto con Jordan. Dopotutto, non gli aveva concesso l’opportunità di provare tra i professionisti del baseball con i White Sox? Non aveva sempre manifestato rispetto per la sua stella? Reinsdorf confidò ai soci più stretti di sospettare che Jordan avesse finto di essergli amico per approfittarsi di lui. Dopo il dolore, arrivò la rabbia. Ma il presidente sapeva di non avere scelta: doveva accettare le condizioni.

Perfino Reinsdorf faticava a discutere la cifra chiesta da Jordan: avrebbe potuto ottenere molto di più con il sostegno dell’opinione pubblica. Eppure, quando accettò l’accordo, Reinsdorf gli disse qualcosa che avrebbe ulteriormente compromesso la loro relazione – che avrebbe vissuto il resto della vita pentendosi di aver dato a Jordan trenta milioni di dollari.

«Michael è avvelenato con Jerry,» avrebbe raccontato in seguito un impiegato dei Bulls «perché quando Jerry accettò di dargli trenta milioni di dollari, disse che se ne sarebbe pentito. Michael era in palestra un giorno, quell’autunno, e raccontò ai compagni: “Sapete cosa mi ha fatto davvero incazzare? Che Jerry mi abbia detto ‘sai cosa, Michael? Vivrò per pentirmene’”. Michael disse: “Che cazzo! Poteva dire: te lo meriti, sei il più forte giocatore di sempre, sei un asset per la città di Chicago e per la nostra società. Sono felice di darti trenta milioni di dollari. Poteva dire questo, ma anche se non la pensa così, e crede davvero di pentirsene, perché me lo dice?”. Luc gli stava davanti e disse: “Davvero? Jerry ti ha detto che se ne pentirà?”. E Michael rispose: “Così mi ha detto. Non ci posso credere che il mio presidente mi abbia detto così”. La cosa lo amareggiò molto».

«Dissi che avrei potuto pentirmene» rettificò Reinsdorf.

Ma Jordan ricorda: «Veramente disse così: “Ad un certo punto, lungo il cammino, so che me ne pentirò”. Mortificò il processo in corso. Gli tolse significato. La gratitudine veniva meno, con quell’affermazione. Fu un gesto inappropriato».

Secondo le testimonianze, Reinsdorf aveva fatto un commento simile a John Paxson, qualche anno prima, quando Paxson ricevette finalmente un aumento decente dopo diversi anni passati a giocare con un contratto abbastanza basso. Dopo la firma Reinsdorf aveva detto a Paxson, che era un gran lavoratore: «Non riesco a credere che ti sto dando tutti questi soldi». Anche se Paxson – che in seguito sarebbe diventato presidente dei Bulls – non parlò mai della questione, fonti interne confermarono quanto fosse arrabbiato e offeso. Sia la trattativa di Jordan sia quella di Paxson dimostravano che la mentalità del club si riduceva alla voglia di Reinsdorf di «vincere» ogni trattativa, con ogni giocatore. Quell’atteggiamento cancellava ogni sentimento positivo tra giocatori e dirigenti, come ha raccontato un ex dei Bulls. E spesso si trasformava in amarezza da parte di Krause o Reinsdorf quando «perdevano» una trattativa, sempre secondo l’ex giocatore.

«È una persona leale e onesta» ha detto Phil Jackson di Reins-dorf.«È sincero e la sua parola ha un valore. Ma c’è qualcosa che non va se vuoi avere la meglio ogni volta, se vuoi vincere ogni trattativa. Se si tratta di soldi, vuole vincere lui. Ha davvero detto quelle cose, stando a persone che conosco bene, e sono cose che fanno male, sul serio. A tutti piace Jerry Reinsdorf. Però» ha aggiunto Jackson con una risata «Jerry è Jerry… non spende denaro facilmente, nemmeno per sé stesso. Vuole valore in cambio dei soldi. Chi non lo vuole? I proprietari hanno mandato giù a fatica gli stipendi pagati negli ultimi dieci anni. Tanti soldi. Un’incredibile quantità di denaro».

IL CULTO

Il rookie Ray Allen era nervoso, in piedi nel corridoio dello United Center, in attesa di dare un’occhiata al Prescelto come un brahmano nascosto tra gli ulivi che aspetta di vedere il Buddha. Selezionato al primo round dai Milwaukee Bucks, Allen aveva passato ore e ore a studiare le videocassette di Jordan, in particolare una sequenza: «Quella in cui spezza un raddoppio di Starks e Oakley e se ne va sulla linea di fondo a schiacciare sopra Ewing» ha confessato. Allen l’aveva guardata e riguardata, folgorato dalle immagini.

L’ansia lo avviluppava all’approssimarsi del momento. Era solo un’amichevole precampionato: e se Jordan avesse deciso di non scendere in campo? Poi all’improvviso arrivò, nella sua immacolata divisa bianca casalinga, avanzando verso l’arena. Il cuore di Allen accelerò come un treno, e i suoi occhi si spalancarono; poi il rookie si ricompose per affrontare il suo idolo, cercando di mandare a mente ogni singolo dettaglio, così da poter un giorno raccontare ai propri nipoti com’era andata esattamente. Più che altro, Allen era nervoso perché voleva giocare bene.

«Essere presentato a Mike la prima volta, il tempo passato a prepararsi per la partita, a pensarci, e poi finalmente vederlo…» dichiarò Allen dopo la partita, con la voce che si affievoliva per la commozione.

Allen aveva vissuto un bel secondo anno alla University of Connecticut, due anni prima, e aveva pensato di poter passare al professionismo. Era l’epoca precedente al tetto salariale per le matricole e l’industria aveva iniziato a passare i college al setaccio, alla ricerca del «nuovo Michael Jordan», un’attività stupida e costosa. Proprio a un compagno di Allen in Connecticut, Donyell Marshall, era stato proposto un contratto da quaranta milioni di dollari se avesse lasciato l’università in anticipo (l’affare si rivelò un disastro). Allen decise di rimanere invece un altro anno all’università, per correggere i propri difetti, prima di mettersi alla prova contro Jordan.

Dopo un buon terzo anno aveva fatto il grande passo, e ora si trovava faccia a faccia con il maestro, provando a mostrarsi indifferente, mentre sfiorava lievemente i pugni con Jordan. Si era concesso solo la più rapida delle occhiate verso lo sguardo del killer, e aveva visto il luccichio divertito, la scintilla della fiducia assoluta – His Airness, lassù in alto.

La palla andò su e Allen iniziò un primo periodo memorabile: «Non volevo essere passivo quando difendevo su di lui,» ha raccontato in seguito «non volevo che pensasse che non ero pronto per la sfida».

Allen sapeva che Jordan sarebbe stato a suo agio in quella situazione, e che aveva quindi bisogno di essere aggressivo con lui da subito. Allen dimostrò che poteva prendersi i suoi tiri e segnare contro Jordan in tanti modi diversi: una tripla, un tiro in elevazione, una penetrazione con schiacciata. Il coro dell’Alleluia suonava nella sua testa, ma la sua faccia in campo non mostrava nulla. Segnò 9 punti in quel periodo e costrinse Jordan a una serie di scatti per tenerlo, anche a qualche insulto, per provare a entrare nella sua testa.

Quando finì la partita, Allen rimase nello spogliatoio dei Bucks con un’espressione confusa, come se avesse vissuto un sogno. «Mike è Mike, incredibile» disse, con il tono che ora virava verso la saggezza, cercando di sembrare un veterano.

«Ray Allen diventerà un buon giocatore» fu la valutazione di Jordan. «Mi piace il modo in cui è sceso in campo, all’inizio della partita».

Una nuova generazione di talenti aveva invaso la Nba con il draft del 1996, tutti attratti dalle immediate ricchezze che Jordan aveva creato a loro uso e consumo. Insieme a Allen c’erano, tra gli altri, il teenager Kobe Bryant a Los Angeles e Allen Iverson a Philadelphia. L’estate del 1996 aveva portato anche un ampio rimescolamento tra i veterani. Con quasi duecento free agent sul mercato, le squadre offrirono in totale oltre un miliardo di dollari in contratti alle stelle disponibili a cambiare casacca, tutto denaro creato dall’avvento di Michael Jordan. Nessuna manovra di mercato fu però più rumorosa del passaggio di Shaquille O’Neal da Orlando ai Los Angeles Lakers, con un contratto da centoventitré milioni di dollari.

I Bulls giocarono un’amichevole precampionato al Thomas & Mack Center di Las Vegas, una scelta curiosa visti i precedenti di Jordan con le scommesse – ma anche di Rodman (Jack Haley aveva rivelato che Rodman era stato visto diciannove volte ai tavoli dei dadi, negli ultimi mesi, e che aveva perso una montagna di soldi). Però lo stile da freak-show di Rodman si addiceva perfettamente al grottesco scenario dei casinò di Las Vegas. In quel mondo fatto di celebrità inventate, il rimbalzista di Jordan era l’invenzione definitiva: a New York, quell’estate, aveva addirittura sposato sé stesso, in una trovata pubblicitaria per lanciare il suo ultimo libro, Bad as I Wanna Be.

Le amichevoli offrivano di solito spettacoli poco entusiasmanti, esibizioni che la lega organizzava in location strategiche da un punto di vista del marketing globale: Messico, Londra, Giappone. Oppure in palazzetti vicini alla città natale o all’università di qualche stella Nba. Ai vecchi tempi, i Bulls organizzavano incontri anche a Chapel Hill. Questo tour però offriva la possibilità di vedere Jordan all’apice del suo potere, prima che l’acredine che lo aspettava in agguato lo trascinasse in basso e poi addirittura fuori dai giochi. Era un campione nel pieno del suo fulgore.

In realtà i Bulls avevano iniziato il precampionato la sera precedente a Albuquerque, con la prima di due rivincite contro Seattle. Dopo la gara erano fuggiti da Albuquerque sul loro jet privato – generosamente equipaggiato – per arrivare a Las Vegas poco dopo mezzanotte. Steve Wynn, il presidente del Mirage Resorts, fornì gratuitamente a Rodman e a Jordan una villa da quattrocento metri quadrati per la loro permanenza. Il resto dei Bulls, invece, fu sistemato in normali camere d’albergo. Jackson cancellò la seduta mattutina di tiro, permettendo così a Jordan di fare qualche buca in più a golf.

La partita del sabato sera tra i Bulls e i SuperSonics offrì una battaglia tra Jordan e Craig Ehlo fatta di trattenute, spintoni e addirittura un colpo di Jordan a Ehlo che gli arbitri non videro o non vollero vedere. Jordan ci rise sopra negli spogliatoi: «Ho giocato contro Ehlo tante di quelle partite. A volte riesce a farla franca lui, a volte io. È il bello del basket. Ho così tanto rispetto per lui ed è così stimolante competere con lui che mi diverto sempre ad affrontarlo e vedere chi riesce a cavarsela giocando sporco. È tutto qui».

La prima di Space Jam, il film di animazione con Bugs Bunny, faceva parte del pacchetto. «Credo che andrà bene,» disse Jordan «ma sono molto nervoso: è un campo totalmente nuovo per me e hanno investito un sacco di soldi, così spero di aver fatto la mia parte. Ho provato a dare il meglio, e se va bene… fantastico, potrei anche rifarlo. Altrimenti saprò qual è il mio posto in quel mondo e nel caso mi limiterò agli spot di trenta secondi».

Il film incassò alla fine quattrocento milioni di dollari: un successo monumentale che spinse David Falk a incoraggiare Jordan perché ripetesse l’esperienza. Nel frattempo però Jordan aveva cambiato idea e declinò ogni proposta negli anni a venire.

Quando uscì dagli spogliatoi, quella sera, un ragazzo con una palla da basket nuova di zecca e un pennarello nero indelebile uscì dall’ombra, troppo intimorito per aprire bocca.

Jordan corrucciò l’espressione e guardò il ragazzo: «Mi paghi per questo?» gli chiese, mentre prendeva palla e pennarello. «Di solito è una cifra a sette zeri».

In qualche modo il ragazzo trovò il coraggio di parlare.

«Io… io ho cinque dollari» propose speranzoso.

Jordan sorrise. «Non c’è problema» rispose, cercando di chiarire che stava scherzando.

Il pennarello, però, aveva quasi finito l’inchiostro e quando impresse la firma sulla superficie della palla, si vedeva a stento. Jordan si accigliò.

«Amico,» disse «mi hai dato un affare da due soldi».

Il panico e l’incredulità apparvero sul volto del ragazzino, che infilò la mano in tasca e tirò fuori un mucchio di penne per un altro tentativo.

«Pensavo che stessi cercando i soldi» disse Jordan ridendo.

Se aveva pensato davvero che il giovane tifoso stesse cercando dei soldi, era solo perché per anni lui era stato il terminale di un immenso afflusso di ricchezze. Nella stagione 1995-96 si stimava che avesse incassato oltre quaranta milioni di dollari in sponsorizzazioni fuori dal campo. In quella seguente, 1996-97, la cifra sarebbe salita ancora, con l’ingresso della sua nuova linea di profumi (che vendette un milione e mezzo di flaconi nei primi due mesi) e con il ruolo in Space Jam che stabilì il record di incassi nel primo week-end. Era arrivato a meritarsi appieno il soprannome che Spike Lee gli aveva affibbiato nei loro spot per la Nike, «Money». La gente in tutto il mondo pagava per vederlo, per stargli vicino, per indossare le sue scarpe, la sua divisa, per bere il suo Gatorade e ingozzarsi delle sue patatine al McDonald’s, per indossare le sue mutande Hanes, per colpire le sue palline da golf, per leggere i suoi libri e custodire le sue figurine da collezione.

I ricavi personali di Jordan erano solo una porzione del tesoro che aveva creato per tutta la Nba (senza citare le ricadute per il brand dei Tar Heels e per la University of North Carolina). Il suo arrivo nella Nba aveva avviato un processo che avrebbe ampliato gli incassi annuali della lega di dieci volte, facendoli passare dai quasi centocinquanta milioni di dollari del 1984 alla cifra stratosferica di oltre due miliardi di dollari a stagione a metà degli anni Novanta.

Nonostante le apparenze, a Phil Jackson si poteva perdonare l’ansia che provava durante la preseason. Dietro le quinte, il conflitto interno tra i giocatori e la dirigenza, e tra lui stesso e la società, aveva già iniziato a surriscaldarsi: «Sarà un anno molto diverso» disse l’allenatore quel sabato sera, a Las Vegas. «Non so cosa aspettarmi. Provo a non fare previsioni. Lasciamo che le cose accadano. I possibili sviluppi, l’intera struttura di questo club, sono tali che solo noi possiamo distruggere il nostro futuro».

DI NUOVO IN PISTA

Jordan era ormai abituato al modo in cui Jackson tentava di confortarlo, per fare sì che tutto funzionasse. Il coach non aveva mai provato a soffocare la fiamma di Jordan, doveva solo regolarne il calore quanto bastava a condurre i Bulls verso un nuovo lancio di coriandoli. Jordan comprendeva la praticità dell’approccio di Jackson, dal sistema di Tex Winter alle meditazioni, fino agli esercizi di autoconsapevolezza di Mumford. Ora poteva sedersi sul pavimento, durante l’allenamento, al buio, e fare pensieri positivi come tutti gli altri.

«È il nostro guru,» scherzò Jordan quando gli chiesero delle fissazioni eccentriche del suo allenatore «ha tutta quella roba yen o zen che lavora per noi».

James Edwards guardava con molto interesse alle dinamiche tra Jackson e Jordan. Si trattava di un matrimonio perfetto tra un giocatore e un allenatore: «Phil sapeva cosa pensasse Mike e Mike cosa pensasse Phil. Erano intimi fino a quel punto».

Tutti capivano cosa volesse dire Jackson quando parlava della connessione spirituale con il gioco. Jordan riconobbe che i metodi di Jackson – descritti nel suo libro Sacred Hoops – gli avevano mostrato come comportarsi con i compagni meno dotati: «Credo che Phil mi abbia reso più paziente e mi abbia insegnato a capire meglio gli attori non protagonisti della squadra, e a dargli l’opportunità di crescere». Jackson però non riuscì mai a far capire a Jordan che doveva smetterla di chiamare i suoi compagni «attori non protagonisti» – una spia che i Bulls non erano un mondo perfetto. Le imperfezioni divennero sempre più vistose con il crescente senso di paura che aleggiava sul club per gran parte della stagione 1996-97.

La prima parte del calendario fu segnata da nuove, splendide strisce vincenti e da prestazioni sublimi di Jordan: aveva perso quasi quattro chili in estate, scendendo da 98,5 a 94,5 chili, per dare un po’ di sollievo alla tendinite che lo aveva spesso frenato l’anno precedente. Guidati da questo Jordan più slanciato, i Bulls iniziarono la stagione con dodici vittorie consecutive, impreziosite dai 50 punti di Jordan nella partita vinta per 106-100 a Miami, passata per lunghi tratti a sorridere e a battibeccare con l’allenatore degli Heat, Pat Riley. I Bulls erano appena sbarcati da Vancouver, dove avevano giocato, quando lessero sui quotidiani locali di Miami che i giocatori degli Heat si lamentavano della mancanza di rispetto dei Bulls, l’anno precedente, quando li avevano eliminati dai playoff con un cappotto.

Durante la partita, dopo una giocata impressionante, Riley aveva scherzosamente chiamato Michael «ratto». «Lui è così competitivo,» disse Jordan di Riley, sorridendo «ma anch’io lo sono. So di essere alla fine della mia carriera ed è meglio che mi goda questi ultimi momenti di celebrità, o successo o qualunque cosa sia. Questo mi motiva più di ogni altra cosa. Il mio obiettivo è un percorso netto».

Jordan festeggiò il Giorno del ringraziamento segnando 195 punti in cinque partite. A dicembre ne segnò 30 contro i giovani Lakers, che si sommarono ai 35 di Pippen e ai 31 di Kukoč, giusto per far capire quanto fosse capace di ridistribuire le ricchezze. Da quel momento, fino a metà febbraio, omaggiò con una serie di prestazioni super tutti i suoi vecchi amici: 45 punti ai Cavaliers, 51 ai Knicks, 45 alla Seattle di Gary Payton e 47 a Denver.

L’allenatore di New York, Jeff Van Gundy, che aveva allenato due dei migliori amici di Jordan, Oakley ed Ewing, lo aveva chiamato «imbroglione», motivandolo a realizzare il record stagionale di 51 punti contro i suoi Knicks. «Il suo metodo è di farseli amici, ammorbidirli, far credere che ci tiene a loro,» aveva detto Van Gundy «poi scende in campo e prova a massacrarli. Il primo passo per un giocatore è capire questo tranello e non caderci».

«Ero pronto a fare qualunque cosa per vincere» disse Jordan nel dopopartita. Aveva raggiunto i 50 punti per la trentaseiesima volta in carriera. «Certi giorni le cose vanno talmente bene che tutto sembra al rallentatore: non avevo nessuna fretta, mi rilassavo e giocavo».

«Probabilmente è stato un errore tattico del coach dei Knicks attaccare Michael con il pressing. Io sapevo che sarebbe sceso in campo per vendicarsi: aveva un conto da regolare» disse Jackson.

Jordan finì la serata con l’ennesimo canestro in allontanamento, da oltre sei metri, che chiuse la partita; poi gridò a Van Gundy: «Ottime dichiarazioni: immagino di non essermi fatto nuovi amici, stasera».

Le parole di Van Gundy erano state un’uscita infelice, aggiunse: «Forse avevano lo scopo di motivare i suoi giocatori. Ma non mi sembra che in campo mi abbiano trattato amichevolmente. Io non scendo in campo per fare amicizia. Però quando esco dal campo, non mi porto dietro quello che è successo. Giochiamo solo una partita, non la vedo come una guerra, fuori dal campo. Se lui crede che io approfitti dei miei amici, affari suoi».

Situazioni del genere alimentavano il motore dei Bulls. Avevano di nuovo divorato il calendario, finendo con una classifica 69-13, la seconda migliore di tutti i tempi. Jordan aveva segnato una media di 29,6 punti a partita, conquistando per la nona volta la classifica dei marcatori; era stato selezionato per l’undicesima volta all’All-Star Game, dove stabilì un nuovo record mettendo per la prima volta a referto una tripla doppia. All’All-Star Game del 1997 si celebravano i cinquanta anni della Nba e sia lui che Pippen ebbero l’onore di essere inseriti nella lista dei cinquanta giocatori più forti di sempre. A novembre, contro San Antonio, Jordan aveva raggiunto i venticinquemila punti in carriera. Ad aprile aveva superato in classifica Oscar Robertson diventando il quinto marcatore di tutti i tempi.

INSIEME

Con l’avvicinarsi dei playoff, Jackson chiese ancora una volta alla squadra di sviluppare uno spirito di gruppo e di rimanere unita; in un video montò questa volta alcune sequenze da Tutte le manie di Bob, in cui Bill Murray è un paziente che cerca in tutti i modi di entrare nella vita del suo egoista e spiacevole psichiatra.

Ovviamente lo psichiatra era Krause. «Ogni volta che ci faceva vedere dei filmati di gioco, ci metteva dentro pezzi del film» raccontò il centro dei Bulls Bill Wennington. «In pratica lo vedemmo tutto. Voleva farci capire che dovevamo stare insieme, che dovevamo fare dei piccoli passi per avvicinarci tra di noi e iniziare a giocare bene».

Jackson inserì anche vecchi brani dai Tre marmittoni.

«A Tex Winter piace cantare una canzone quando ci raduniamo per l’allenamento mattutino» spiegò Bill Wennington. «“È tempo di stare insieme. Insieme. Insieme. È tempo di stare insieme. Ancora insieme”. È una canzone che suonano una volta I tre marmittoni, quando Moe ingoia un’armonica e gli altri lo suonano appunto come un’armonica. È quella canzone lì».

Il tema del «gruppo» aleggiava sopra Jordan, Jackson e Rodman, tutti in scadenza di contratto. Avrebbero fatto un’altra stagione con i Bulls? La stampa di Chicago si lanciava in congetture; l’incertezza scuoteva la tranquillità della squadra, ma la motivava anche.

Forse l’enfasi sul «gruppo» serviva soprattutto come promemoria subliminale per Jordan, perché si astenesse dal massacrare i compagni con la rabbia e le critiche. Jordan, Pippen e Harper costituivano un nucleo solido. Rodman ovviamente era un’entità a sé stante, così come Kukoč, che era in qualche modo emarginato dalle differenze culturali. Simpkins, Caffey e Brown passavano del tempo insieme, fuori dal campo, e poi c’era il contingente dell’Arizona composto da Buechler e Kerr, a cui si univano a volte l’australiano Longley e il canadese Wennington.

I Washington Bullets persero gara uno del primo round di playoff ma attaccarono alla grande in gara due e presero un certo vantaggio, come se tutte le parole di Jackson sul gruppo si fossero perse nella confusione dello United Center. Washington andò al riposo in vantaggio 65-58 nonostante i 26 punti di Jordan, che scese negli spogliatoi infuriato con Jackson e con i propri compagni. «Michael era piuttosto arrabbiato all’intervallo, e anche Phil non era molto entusiasta» riconosce Kerr. «Ma non c’erano tanti aggiustamenti da fare se non nell’approccio. Michael si limitò ad alzare un po’ la voce e a dire che dovevamo giocare meglio».

Jordan e le trappole difensive dei Bulls propiziarono un parziale di 16-2 nel terzo periodo che scrollò via il torpore dal pubblico. La difesa era uno sforzo di squadra, ma in attacco Jordan faceva praticamente tutto da solo, pungendo con tiri da lontano. Durante i time out rimaneva seduto immobile, asciugamano sulle spalle, testa china, cercando di recuperare energie. A cinque minuti dalla fine segnò in penetrazione portando Chicago a più tre. Pochi istanti dopo riprese la palla, aggredì l’area e fece una finta di tiro che mandò in aria tutta la difesa: quando gli avversari ricaddero a terra, lui si alzò per un tiro in sospensione. Chiuse poi il possesso successivo con un canestro impossibile, cadendo, sulla linea di fondo, a destra, aumentando il vantaggio a sette punti e portando il suo totale della serata a 49 punti.

Quando i Bullets si riportarono sotto di tre, 103-100, a circa un minuto dalla fine, Jordan rispose con un altro tiro da fuori e con un appoggio al tabellone, quest’ultimo a 34 secondi dalla fine, per il 107-102. Completò la prestazione da 55 punti (era l’ottava volta in carriera che segnava più di 50 punti in una partita di playoff) con due tiri liberi che fissarono il punteggio sul 109-104 e portarono Chicago sul 2-0 nella serie.

Lo stato di forma del trentaquattrenne Jordan era sbalorditivo. Longley disse nel dopopartita che era quello a permettergli di segnare e difendere con intensità per oltre quarantaquattro minuti: «Queste sono le partite in cui dimostra chi è davvero» aggiunse il centro. «Prestazioni così ti lasciano a bocca aperta. La cosa che mi meraviglia è quante ne faccia in un anno. Forse quest’anno ha superato i 50 punti in tre o quattro partite, ma ne ha fatti 30 o 40 quasi ogni sera. Ciò che mi stupisce davvero è il fatto che alla sua età ancora emerga fisicamente e faccia le cose che fa lui in ogni partita».

La pratica Washington fu archiviata con la vittoria successiva e i Bulls si dedicarono a umiliare gli Atlanta Hawks per 4-1. Nonostante l’inerzia della squadra, lo staff tecnico era preoccupato che Jordan spingesse troppo in attacco, come se sentisse di doversi caricare tutti sulle spalle. «Michael non ha tirato bene» confidò Winter. «Non ha tirato bene in tutta la serie. Il fatto che si prenda venticinque o ventisette tiri e che non tiri bene, è un problema per l’attacco. Se non migliora le percentuali allora non dovrebbe prendersi tutti quei tiri. Phil gli aveva detto di non forzare, di non fare tutto da solo, di passare la palla. Ma è così competitivo e ha così tanta fiducia in sé stesso, che per lui è dura trattenersi. Non ho mai avuto a che fare con un giocatore che avesse meno inibizioni di lui. È una delle ragioni per cui è un grandissimo giocatore: non ha coscienza».

Atlanta cadde in gara cinque, nonostante un fallo tecnico fischiato a Jordan dopo soli tre minuti di gioco, per aver rimproverato con il dito Dikembe Mutombo dopo avergli schiacciato in faccia, mimando la stessa mossa con cui Mutombo era diventato famoso. La vittoria mandò Chicago alle sue settime finali di Eastern Conference negli ultimi nove anni. Pensavano di dover affrontare i Knicks ma si presentarono invece gli Heat di Pat Riley. A Jackson andava bene, visto che aveva detto ai suoi giocatori, arrabbiato dopo una sconfitta con Miami nel finale della stagione 1996, «io non perdo mai con quel tizio».

E Chicago si portò subito sul 3-0 nella serie, cosicché Jordan pensò che fosse un buon momento per andarsene a giocare quarantacinque buche a golf, a Miami. Il fotografo dei Bulls, Bill Smith, lo seguì al campo e si fece avanti per fargli una foto su una macchinetta da golf. «Sparisci, Bill Smith» disse Jordan, dando gas alla macchinetta e costringendo il fotografo a saltare di lato ridendo.

Jordan pagò caro quel divertimento il giorno successivo, segnando solo 2 dei suoi primi 22 tiri in gara quattro. Eddie Pinckney, che era passato agli Heat, ricorda bene la fine: «Era il mio ultimo anno da professionista e i Bulls stavano per eliminarci. Avevano già prenotato un ristorante speciale per festeggiare dopo la partita. La voce era arrivata a Pat Riley e disse a noi giocatori che era davvero arrabbiato. Noi andammo in campo e prendemmo un bel vantaggio, forse 15 o 20 punti, e Phil Jackson tolse tutti dal campo. La partita era praticamente finita. Ma Voshon Lenard [la guardia degli Heat] decise di iniziare a parlare con Michael, a dirgli che saremmo andati a Chicago e che li avremmo presi a calci nel sedere. La cosa fece tornare Jordan in partita, e iniziò a segnare e segnare e a urlare a pieni polmoni: “Non vincerete nessun’altra partita del cazzo!”. Urlava: “Coglioni, non ne vincerete mai un’altra!”. Era incazzato».

Sotto di 21 punti e con il cronometro che correva, i Bulls assistettero a Jordan che entrava in modalità «attacco selvaggio». Spronò Chicago a realizzare un parziale di 22-5 che li riportò a meno quattro, 61-57, alla fine del terzo periodo. Gli Heat riemersero all’inizio del quarto e allungarono di nuovo sul 72-60. Jordan allora segnò 18 punti consecutivi per Chicago: una dimostrazione di forza che accorciò il vantaggio di Miami a un solo punto, con 2:19 da giocare. Il finale però se lo aggiudicarono gli Heat, segnando i sei tiri liberi finali con cui Miami vinse la partita.

«Quella è una delle mie partite preferite di Michael di tutti i tempi» ha detto Steve Kerr, ripensandoci, nel 2012. «Perché se guardi le statistiche di quella partita, vedi che lui arriva al quarto periodo con 2 su 22 dal campo, e tra quegli errori c’erano anche tiracci che non toccavano nemmeno il ferro. La cosa aveva chiaramente a che fare con tutte quelle buche a golf che lui e Ahmad Rashad avevano fatto il giorno prima. Ma nel quarto periodo va fuori di testa. Urla contro la panchina degli Heat e dà la più incredibile dimostrazione di sicurezza che abbia mai visto nella mia vita… senza eccezioni. Voglio dire, come fai a riprenderti da un 2 su 22 nei primi tre quarti, in una partita di playoff, contro una grande difesa, dopo aver sbagliato tutti quei tiri? Lui non era lì a disperarsi, era solo lì a farsi gli affari suoi quando qualcosa, all’improvviso, lo ha fatto scattare ed è partito».

I presenti allo spettacolo non l’avrebbero dimenticato facilmente. Jordan segnò 20 dei 23 punti di Chicago nell’ultimo quarto: «Quando ha iniziato a segnare, i canestri hanno preso ad arrivare, arrivare, arrivare, arrivare, arrivare» disse Tim Hardaway. «Lui è un realizzatore. È il migliore».

Quando gli chiesero del primo tempo deprimente, Jordan fece uno sguardo torvo: «Non siamo preoccupati» disse.

«Torniamo a Chicago, e potremmo anche non scendere in campo» ricorda Pinckney ridendo. Jordan aprì gara cinque segnando 15 punti nel primo quarto, abbastanza per portare i Bulls in vantaggio 33-19 e lasciare pochi dubbi sull’esito finale.

«Sono la più grande squadra dai tempi dei Celtics che vinsero undici titoli in tredici anni» disse Riley ai giornalisti nel dopopartita. «Non credo che nessun altro possa vincere finché Michael non si ritira. A volte costruisci una grande squadra e non vinci niente perché hai la sfortuna di essere nato nella stessa epoca di Michael Jordan».

Houston e Utah intanto si davano battaglia nelle finali della Western Conference e Jordan ammise che gli sarebbe piaciuto affrontare i Rockets. Olajuwon era stato scelto prima di lui, nel draft del 1984, e aveva guidato i suoi alla conquista di due titoli mentre lui giocava a baseball. La ciliegina su quella torta golosa era poi Charles Barkley, che ora giocava per i Rockets. D’altro canto anche Utah gli offriva delle motivazioni: l’ala dei Jazz, Karl «il Postino» Malone, si era aggiudicato l’Mvp della lega, nonostante Jordan avesse vinto la classifica marcatori con 29,6 punti di media. Jordan era stato inserito nel quintetto ideale della Nba e, insieme a Pippen, anche nella difesa ideale. Malone era finito al secondo posto tra i marcatori ed era entrato nel quintetto ideale della Nba per la nona volta. La scelta sembrava però più un premio alla carriera, come a volte capita con l’assegnazione dell’Mvp. I tifosi di Jordan, però, si sarebbero lamentati a lungo che un altro Mvp gli era stato rubato. Secondo Pat Riley non era importante chi avrebbe conquistato le finali a Ovest: «Chicago vincerà comunque» disse.

John Stockton risolse la disputa in gara sei delle finali della Western Conference con un tiro sulla sirena che mandò i Jazz in finale per la prima volta nei loro trent’anni di storia. Stockton, Malone e il resto della compagnia forzarono le cose in gara uno allo United Center, e a meno di un minuto dalla fine, il punteggio era 82-81 per Utah con Jordan in lunetta per due tiri liberi e i suoi tifosi che gridavano «Mvp!». Segnò il primo per il pareggio ma sbagliò il secondo, facendo placare il pubblico. Poco dopo fu il turno di Malone in lunetta: Pippen gli passò accanto e gli sussurrò all’orecchio: «Il postino non consegna di domenica». Malone sbagliò entrambi i liberi in mezzo al frastuono e i Bulls controllarono il rimbalzo, a 7,5 secondi dalla fine. Sorprendentemente, Utah decise di non raddoppiare su Jordan nell’ultima azione. Quando la palla scivolò nella retina, ventunomila tifosi saltarono dalla sedia esultando. Jordan finì con 31 punti e 13 su 27 dal campo.

Gara due fu una passeggiata, illuminata dai 38 punti di Jordan, conditi da 13 rimbalzi e 9 assist: sarebbe stata una tripla doppia se Pippen non avesse sprecato un facile appoggio nel finale, che costò a Jordan il decimo assist.

I Jazz vinsero gara tre a Salt Lake City, nonostante Pippen avesse eguagliato il record di sette triple segnate in una finale Nba. Né i tifosi né la stampa vennero a sapere che la successiva gara quattro fu decisa da un errore incredibile dello staff dei Bulls, che vissero la più grande delusione stagionale. L’attacco balbettava ma la difesa era stata spettacolare per quarantacinque minuti, insomma avevano giocato abbastanza bene per vincere. A 2:38 dalla fine erano in vantaggio 71-66 e sembravano potersi preparare a gestire la serie, salendo sul 3-1. Ma fu in quel momento che John Stockton prese il controllo e, senza che nessuno se lo aspettasse, ai Bulls si sciolsero le gambe. Si scoprì in seguito che un assistente della squadra aveva sostituito per errore il Gatorade con il GatorLode, una bevanda pesante, piena di carboidrati: «Era come bere delle patate al forno» ha spiegato il preparatore Chip Schaefer. Nel finale, i giocatori di Chicago lamentavano crampi allo stomaco e Jordan arrivò addirittura a chiedere di uscire un attimo, un fatto mai successo in un momento chiave.

Stockton siglò il vantaggio nel finale con una tripla da quasi otto metri di distanza. Jordan, che era rientrato nonostante il mal di stomaco, rispose a tono con un tiro da tre; e quando Jeff Hornacek di Utah sbagliò un secondo tempo, i Bulls ebbero la chance di chiudere la partita. Invece Stockton rubò palla a Jordan e si involò in contropiede: con una mossa che impressionò l’allenatore di Utah, Jerry Sloan, Jordan recuperò correndo in difesa e riuscì a stoppare il tiro, ma gli fu fischiato fallo. Da quel momento in poi i Jazz gestirono il vantaggio di 74-73. A 17 secondi dalla fine, Chicago fece fallo su Malone, mettendo in scena la stessa situazione di gara uno. Il suo primo tiro girò intorno al ferro, prima di entrare, rendendo il secondo più semplice, per un vantaggio 76-73. Senza time out rimasti, ai Bulls rimase solo una tripla frettolosa di Jordan, sul cui errore Utah andò in contropiede sigillando il punteggio finale con la schiacciata del 78-73: il secondo punteggio più basso nella storia delle finali Nba. La serie era in stallo, 2-2.

LA FEBBRE

Jordan aveva visto la sua percentuale di tiro crollare al 40 percento rispetto al 51 percento nelle prime due gare. E quella seguente sarebbe stata ricordata come «the Flu Game», la partita dell’influenza. Ad anni di distanza, ancora circola una storia secondo cui Jordan si sarebbe concesso una lunga notte di sigari, carte e alcol in uno chalet sulle montagne dello Utah la sera prima di gara cinque. La versione ufficiale invece affermava che fosse stato colpito da un «malessere virale».

«Dovevo seguire la partita» ricorda l’ex commentatore della Nbc Matt Guokas, che lavorava in coppia con Marv Albert. «Marv era bravissimo a fare la telecronaca: aveva il senso della drammaturgia. In quel particolare incontro, io pensavo tra me: “Cosa c’è di così strano? Michael gioca sempre bene”. Marv invece riusciva a rendere il momento speciale per i telespettatori. L’altro aspetto è che giravano molte teorie complottistiche sul lato oscuro di Michael. Noi scegliemmo di credere alla sua faccia, al fatto che giocasse nonostante l’influenza. Ma secondo le voci di corridoio e i pettegolezzi, probabilmente era stato nello chalet di Robert Redford, in montagna, a giocare a poker tutta la notte e a fare baldoria».

Jalen Rose della Espn sarebbe stato beccato a sostenere la stessa versione in un video apparso su internet nel 2012. Se si sia trattato di un vero virus o di una «febbre di Milwaukee», la capitale americana della birra, rimarrà per sempre uno dei tanti dubbi che compongono il mistero di Jordan. Di certo era famoso perché dormiva poco e giocava molto, sia sul parquet sia fuori. Ma a prescindere dalla causa, il gioco di Jordan rimaneva l’unica verità indiscutibile. Poco prima dell’inizio di gara cinque, l’ansia aleggiava sui Bulls come i temporali che si addensano sul Cottonwood Canyon nello Utah. Il primo colpo, per i compagni, era arrivato la mattina, nella sessione di tiro: Stava troppo male per presentarsi? Jordan rinunciava a un allenamento così importante? Impossibile.

«Fa un po’ paura» disse l’ala di riserva Jason Caffey, seduto nello spogliatoio, con gli occhi spalancati, prima della partita. «Non sai cosa può succedere, quando sta così». Nel buio della palestra, a pochi metri di distanza, Jordan rimaneva sdraiato e immobile. Eppure era una situazione che gli storici osservatori di Jordan avevano già visto, ai tempo del liceo.

«Michael è malato?» disse un inviato. «Allora segnerà 40 punti».

Eppure, nonostante la sua predisposizione alla teatralità, in questa performance non c’era alcuna recitazione. «Ho giocato tanti anni con Michael e non l’avevo mai visto così a terra» disse Pippen in seguito. «Non sapevo nemmeno se si sarebbe messo la divisa. È il più grande di tutti e senza dubbio l’Mvp assoluto, per me».

Sembrò appoggiarsi all’adrenalina, per un po’. Segnò i primi 4 punti di Chicago e poi si infiacchì mentre Utah fuggiva a 16 punti di distacco all’inizio del secondo quarto, 34-18. Jordan però mantenne la concentrazione fissa sul ferro del canestro e iniziò a portare la palla dentro. Contribuì con 6 punti al parziale di 19-6 che riportò i Bulls a meno tre, 42-39.

I Bulls presero fiato quando Malone fu costretto a uscire per un terzo fallo prematuro. Il lavoro sotto canestro di Jordan produsse otto tiri liberi nel secondo quarto e contribuì a dare a Chicago il suo primo vantaggio, 45-44. Malone incappò in nuovi problemi di falli nel terzo periodo, quando il ritmo si abbassò, ma Utah riuscì a costruire un vantaggio di cinque punti che all’inizio dell’ultimo periodo salì subito a otto.

In quel momento, però, Jordan aveva vinto la battaglia con il malessere e aveva ritrovato la «zona». Segnò 15 punti nel finale e mise pressione ai Jazz, possesso dopo possesso. I Bulls erano sotto di uno quando andò in lunetta a 46 secondi dalla fine. Segnò il primo e agguantò il rimbalzo vagante quando sbagliò il secondo: pochi istanti dopo, su passaggio di Pippen, mise dentro una tripla. I Bulls si erano avvantaggiati della loro esperienza e ora conducevano la serie 3-2. Quando la partita finì, Jordan rimase sotto il canestro di Utah a tirare pugni verso il cielo, trionfante.

«Parlando di grandi vittorie, credo che questa sia stata grande perché l’abbiamo ottenuta in questa situazione: andando sotto nel primo tempo e tornando poi in partita combattendo» disse Phil Jackson.

«Ho giocato quasi fino a svenire» raccontò Jordan. «Quando sono entrato nello spogliatoio ero disidratato, e tutto per vincere una partita di basket. Ho fatto uno sforzo enorme e sono felice che abbiamo vinto, perché perdere sarebbe stato devastante. Ero davvero stanco, davvero debole all’intervallo. Ho detto a Phil di usarmi a sprazzi. Ma in qualche modo ho trovato l’energia per rimanere in forze, ci tenevo davvero tanto».

Finì con 38 punti, 13 su 27 dal campo, 7 rimbalzi, 5 assist, 3 palle rubate e una stoppata. «Non era sceso dal letto tutto il giorno; se si alzava vomitava e aveva momenti di vertigine e tutto il resto» disse Jackson. «Eravamo preoccupati dei minuti che poteva resistere, ma lui ci ha detto: “Fatemi giocare”, e ha giocato quarantaquattro minuti. Di per sé è già un’impresa stupefacente».

La difesa di Pippen e il suo eccellente gioco per la squadra resero possibile la vittoria: il suo contributo fu di 17 punti, 10 rimbalzi e 5 assist. «Michael è stato fantastico, e lo sappiamo tutti» disse Charles Barkley, che sedeva in platea al Delta Center. «Ma penso che una delle chiavi della partita sia stato il secondo quarto. Utah aveva la chance di far uscire i Bulls dalla partita e non c’è riuscita; una delle ragioni sono state le grandi giocate di Scottie».

La serie finalmente tornò a Chicago, dove Jordan chiuse la questione con un altro perfetto finale da Hollywood. I Jazz andarono in vantaggio all’inizio e si difesero valorosamente fino a quando, nel finale, la pressione dei Bulls ebbe la meglio. Jordan contribuì con 39 punti e due ore di difesa, il tutto impreziosito da un piccolo e dolce assist per Steve Kerr, che stava ancora dandosi addosso per aver sbagliato la tripla che avrebbe potuto portare gara quattro ai supplementari. «Steve se la prendeva con sé stesso per gara quattro» spiegò Jordan in seguito. «Rimase per ore con la faccia sul cuscino per aver deluso la squadra, perché tutti sapevano che lui era probabilmente uno dei migliori tiratori in assoluto e aveva avuto l’opportunità di portarci ai supplementari. Era davvero amareggiato. Quando Phil spiegò lo schema nel finale, chiunque nell’arena, o davanti alla tv, sapeva che la palla sarebbe finita a me. Io guardai Steve e gli dissi: “È la tua occasione. Perché so che Stockton verrà a raddoppiare su di me. E io cercherò te”. E lui rispose: “Dammi la palla”». È una cosa che avrebbe detto Paxson, sottolineò Jordan. Kerr la mise dentro e l’edificio esplose in delirio: Chicago aveva il suo quinto titolo.

«Stasera Steve Kerr si è guadagnato le ali, per quanto mi riguarda,» disse Jordan «perché ho avuto fiducia in lui, gli ho dato la palla e lui l’ha messa dentro. Sono felice che si sia redento, perché se avesse sbagliato quel tiro non credo che avrebbe dormito per tutta l’estate. Sono davvero felice per Steve Kerr».

«Ho fatto quel canestro, alla fine, quando mi ha passato la palla,» ricorda Kerr ridendo «e mi ricorderò sempre che quando lo intervistarono dopo la partita disse: “Beh, Steve Kerr si è guadagnato i suoi gradi”. E ricordo di aver pensato: “Non me li ero ancora guadagnati? Aspetta un attimo, abbiamo vinto il campionato l’anno scorso, e ho fatto alcuni canestri; ho fatto diverse cose per la squadra”. Proprio non capivo. “Non mi ero ancora guadagnato i gradi?”».

Questa era la vita degli attori non protagonisti.

Gran parte della rosa aveva combattuto e Scottie Pippen aveva giocato magistralmente accanto a Jordan. Jordan era ovviamente l’Mvp ma Pippen era stato al suo livello in tutto e per tutto. Jordan disse che si sarebbe tenuto il trofeo Mvp ma che avrebbe dato a Pippen l’automobile che faceva parte del premio.

«Mi assicurerò che abbia quella macchina» disse Jordan «perché è come un fratello minore per me. Lui va oltre il dolore e ci alleniamo ogni giorno. Viene da me, facciamo esercizi tutti i giorni per rimanere in forma e poi venire qui a prenderci cura del club e della città, così rimaniamo in forma e continuiamo a essere campioni».

A mano a mano che parlava, Jordan si faceva più sfacciato e chiese a Jerry Reinsdorf di confermare in blocco la squadra, per avere la possibilità di difendere il titolo la stagione successiva. Per il pubblico sembrava la strategia più ovvia. Ma per chi conosceva le trame segrete, significava una cosa sola: nuovi problemi.